Igor Eškinja / Marco Godinho / Adam Vačkář
In my beginning is my end

Paris (F), Galerie Alberta Pane
aprile ― maggio 2015

In my beginning is my end
Daniele Capra




What we call the beginning is often the end
And to make and end is to make a beginning.
The end is where we start from
. [1]
T. S. Eliot


In my beginning is my end nasce dal confronto della ricerca di Igor Eškinja, Marco Godinho e Adam Vačkář, i cui lavori possiedono una particolare carica concettuale, visiva ed espressiva tali da intercettare l’incerto orizzonte temporale dell’osservatore e da agire rispetto ad esso con dinamiche di frizione, spostamento, anticipo. Non si è posta cioè attenzione alla durata di fruizione in sé, quanto invece al fatto che nella loro ricerca si caratterizzi per essere un dispositivo generatore di senso che si misura costantemente nel suo essere sfasato rispetto a quei contenitori di ordine che noi siamo soliti chiamare tempo presente, tempo passato o tempo futuro. Frequentemente le opere scelte hanno infatti la forza per essere nel contempo l’alfa in anticipo e l’omega in ritardo [2] – o viceversa – in grado di sfidare l’osservatore alla ricerca di un incessante riassetto temporale.

Nel campo delle arti visive l’idea di utilizzare il tempo come elemento del divenire, e non come aspetto contro cui titanicamente lottare, diventa istanza rappresentativa consapevole solo con le avanguardie del Novecento. In particolare nel Futurismo italiano (si pensi Marinetti o a Boccioni, ma anche alle sperimentazioni audio di Luigi Russolo) si segnala un grande interesse nel mostrare il tempo attraverso gli effetti di movimento, e non di meno la ricerca di una quarta dimensione è stata alla base della rivoluzione pittorica innescata dei cubisti. Ma è solo negli anni Sessanta che la variabile tempo entra essa stessa compiutamente tra gli strumenti espressivi, costituendo un elemento centrale dei nuovi sviluppi artistici in un’ottica antiretorica, antioggettuale ed orgogliosamente anticonsumista. Nascono gli happening e prende forma la sensibilità Fluxus, che predica come «la linea tra arte e vita debba essere resa fluida e forse più indistinta possibile» [3]. L’artista opera in prima persona per costruire un contesto ideologico che lo sottragga dal dover essere produttore di opere tradizionalmente basate sull’uso di materiali che occupano uno spazio [4] e che diventano feticci di mercato. Il tempo, quello progressivo ed unidirezionale, diventa infatti il garante dell’irripetibilità dell’azione artistica, ne delimita i confini e ne determina la fruibilità da parte dello spettatore, impedendogli la possibilità di reiterare l’esperienza visiva. Mai come in questo contesto il tempo dell’opera e il tempo della visione coincidono e l’opera diventa esclusivamente lo spazio mentale del ricordo, la trama di relazioni neuronali che ne fissano chimicamente la memoria.

Ma un’opera che non sia già dalla sua ideazione momentanea e sfuggevole, come la performance o gli happening, o programmata per non durare nel tempo – si pensi ad esempio alle tele di Gustav Metzger, che venivano trattate con acidi che causavano la corrosione della superficie – interagisce con l’orizzonte temporale dello spettatore essenzialmente grazie ad una dinamica di sfasamento. Al di là del tempo necessario alla sua osservazione/fruizione, in cui il tempo dell’opera e quello dello spettatore combaciano per inevitabile presenza di entrambi, un’opera compiutamente riuscita (che non sia cioè un banale esercizio di stile né una semplice occupazione di spazio, ma sia un’opera perfettamente ergon [5]) possiede, nella sua finitezza, i germi del futuro, che convivono assieme alle istanze del passato e a quelle del presente che percorriamo. L’opera è cioè un dispositivo di attraversamento, che raccoglie parte di quello che sta oltre la lancetta che segna il progredire del tempo assieme a tutto ciò che è appena stato vissuto.

È l’incessante sfasamento rispetto al qui e ora dell’opera a determinarne quindi un’estensione temporale inattesa, poiché essa agisce nel mondo e rispetto l’osservatore in una continua ricollocazione, anticipando quel momento che nell’arco di un istante è presente e poi passato. Possiamo in qualche modo estendere all’opera d’arte quella modalità esistenziale che il filosofo Giorgio Agamben intravede nell’essere contemporaneo, in «colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; e anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi» [6]. Se un’opera infatti, a partire dalle proprie origini, non è in grado di anticipare qualcosa rispetto al futuro, essa perde una delle sue maggiori funzioni: l’essere eversiva, obliqua, in grado di interrogare l’osservatore e di condurlo altrove, anche temporalmente. La forza, la vitalità dell’opera, nasce dal suo racconto del passato e dal suo predicare in anticipo quello che deve ancora manifestarsi al nostro sguardo. L’opera, in ultima istanza, agisce come uno strumento mentale che è funzionale al nostro inconscio desiderio di strabismo, ossia la volontà di guardare e vedere oltre le nostre capacità.

Una delle questioni più significative aperte dai Quattro Quartetti di T. S. Eliot riguarda la natura del tempo e le modalità secondo cui esso ininterrottamente si rigenera ricombinando le scansioni del tempo (passato, presente, futuro), rendendo tale tassonomia inutile o inefficace a raccontare la condizione umana. Se nel primo Quartetto Eliot scrive che «Il tempo presente e il tempo passato / Sono forse insieme presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro è già compreso nel tempo passato» [7], egli arriva ad argomentare alla fine dei quattro poemi come «Ciò che chiamiamo inizio è frequentemente la fine / E finire è iniziare»[8]. La fine non è cioè la conclusione, ma l’inizio di una nuova attesa, il punto da cui si comincia, in un ciclico susseguirsi di eventi che mette in discussione la nostra facoltà di ordinare cronologicamente causa ed effetto. Di conseguenza l’univocità dell’orizzonte temporale non è garantita se non adottando un modello probabilistico o per continui successivi aggiustamenti.

In maniera analoga le opere di In my beginning is my end nascono dal desiderio di sfidare chi guarda interrogandolo in merito al soggetto rappresentato e al processo realizzativo (Eškinja), alla labilità delle definizioni e alla fragile permeabilità dei confini tracciati (Godinho), ai valori convenzionali che determinano i rapporti economici e alle moderne dinamiche di previsione del futuro (Vačkář). In un orizzonte incerto e da negoziare costantemente, la sola sicurezza ideologica è quella di non cessare mai di farsi domande. Prima, durante e dopo.




[1] T.S. Eliot, Little Gidding, in The Four Quartets, Harcourt, New York, 1943. Il titolo del testo e della mostra è invece il verso iniziale di East Cocker, secondo dei Quattro Quartetti.
[2] Nell’Apocalisse di Giovanni Gesù dice “Io sono l’Alpha e l’Omega” ben tre volte (versi 1:8, 21:6 e 22:13). Le lettere alfa ed omega (α and ω) sono usate come simbolo della totalità del mondo, poiché sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Frequentemente venivano usate con l’immagine sacra di Cristo nell’arte medievale e nella tradizione della Chiesa Ortodossa.
[3] A. Kaprow, Untitled guidelines for happenings, in Assemblage, Environments and Happenings, New York, 1966, ristampato in Essays on the Blurring of Art and Life, University of California Press, Berkeley, 1993, p. 62.
[4] Utilizzo la classificazione comunemente utilizzata tra «space-based» e «time-based» media.
[5] Mi riferisco alla definizione di opera che dà Immanuel Kant ne La critica del giudizio, ma non alla contrapposizione ergon/parergon (opera/contesto).
[6] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008.
[7] T.S. Eliot, Burnt Norton, in The Four Quartets, op. cit.
[8] T.S. Eliot, Little Gidding, in The Four Quartets, op. cit.