Combat Prize

Livorno, Bottini dell’Olio
giugno 2011

Alessandro Dal Pero, Two (det.), 2011, acrilico e vernice su tavola, cm 42 x 42

Due parole sulla pittura. Una polemica costruttiva
Daniele Capra




Eccoci finalmente con la pittura. Più di ogni cosa c’è bisogno che se ne parli, qui da noi in Italia.
Il mio può apparire uno sfogo, e in un certo senso lo è. Però la situazione del nostro paese – la “p” minuscola non è casuale – ha bisogno che qualcuno alzi la voce e si incazzi. Anche perché di dotte e ragionate ma inconcludenti discussioni non sappiamo cosa farcene e ne abbiamo abbastanza, quindi mi perdonerete la posizione combat-tiva. Sarò tranchant: qui da noi la pittura criticamente conta poco, troppo poco (pur essendo ancora il medium più venduto, da quanto si evince dalle approfondite analisi condotte dall’Osservatorio sul commercio dei beni artistici Nomisma e successivamente dalla Iulm), e in più molta di quella che si vede alle mostre non è di un livello paragonabile a quello che si vede negli altri paesi avanzati. E i motivi sono presto detti.

Il primo è di sicuro di ordine storico-culturale, ed è una causa esogena rispetto il mondo dell’arte. L’Italia infatti sconta una tradizione artistica, non solo pittorica, di alto livello, e che spesso ha finito per spegnere o togliere molta della luce che invece altrove è riservato alla pratica della disciplina. Il pensiero comune per cui i maestri del passato (in particolare dal Quattrocento al Barocco) sono “i” riferimenti, unita alla massiccia e diffusa presenza sul territorio di opere antiche, ha fatto indubbiamente maturare nel nostro paese una scarsa considerazione del ruolo e dell’importanza dell’artista nella contemporaneità. La pittura, alla pari delle altre discipline, ha sofferto di questo approccio che non è mai stato abbandonato. Anzi, per contrario, la presenza di grandi musei ha in qualche modo giustificato questa tendenza a considerare come arte i tesori del passato.

Il secondo aspetto, anch’esso non imputabile al mondo dell’arte, è di ordine museale. I musei o le istituzioni pubbliche che si dedicano al contemporaneo sono poche, non diffuse (poca cosa se si confrontano numericamente con il sistema delle kunsthallen nei paesi di lingua tedesca o con l’attività dei Frac in Francia) e con poche risorse. Com’è possibile che tali istituzioni abbiano delle ricadute sul sistema culturale del nostro paese?

Il terzo motivo è invece di ordine critico: la presenza della Transavanguardia ha di fatto monopolizzato l’interesse nei confronti della pittura. Un gruppo così forte, e così fortemente presente in una realtà non enorme come quella italiana, ha nei fatti saziato e saturato lo spazio riservato alla disciplina. Alla Transavanguardia non poteva succedere altra pittura. In particolare la generazione di pittori nate negli anni Sessanta ha subito uno shock di interesse, incapace da un lato di avere punti di riferimenti e dall’altro di ammazzare il padre.

Un quarto aspetto è di natura commerciale: poiché la pittura si vende con una certa facilità, molti operatori (galleristi ed art dealer), anziché investire nella qualità e nella selezione, hanno preferito sviluppare una rete commerciale con cui fidelizzare i collezionisti, puntando sulla riconoscibilità, sulla spettacolarità, sulla creazione delle mode e di prodotti (e non opere) per differenti fasce di mercato.

Il quinto aspetto è il livello del collezionismo. La cultura media del collezionista italiano è piuttosto bassa e con una scarsa propensione alla novità, come testimoniato dal livello di innovazione della rivista più diffusa. In più l’età media di chi colleziona è oltre i cinquant’anni e manca una fascia importante di compratori (30/40) che sarebbero portatori di un gusto più aperto. La scarsa mobilità sociale ha inoltre portato a collezionare molto spesso a figli di persone che già si dedicavano a questa attività. Largo ai vecchi quindi.

Il sesto aspetto è il livello delle accademie e degli artisti. Il sistema di arruolamento degli insegnanti nelle accademia premia burocrati ed impiegatini – che sono spesso artisti falliti – ad artisti riconosciuti, mentre sarebbe auspicabile una continuità tra artisti riconosciuti e studenti (a Düsseldorf posso avere come insegnante Andreas Gursky, in Italia ho il qualsiasi Mario Rossi). Gli stessi allievi sono frequentemente motivati a ragionare/lavorare con logiche che sono estranee al reale mondo dell’arte, cui partecipano solo occasionalmente. Inoltre gli artisti frequentemente non hanno una preparazione storico-critica tale da permettere un inquadramento del proprio lavoro: il più delle volte sono incapaci di fornire delle chiavi di lettura e ragionano piuttosto in forma intima o intimista.

Settimo aspetto, la mancanza di esperienze internazionali da parte degli artisti, i quali, oltre a non sapere l’inglese (vizio nazionale), iniziano a lavorare subito con le gallerie mentre i colleghi di altri paesi possono costruire una rete di conoscenze, grazie a borse di studio e residenze.

Ottavo aspetto la presenza di una critica di alto livello spocchiosa ed autoreferenziale, e che non ha capito che la pittura è un mezzo come gli altri, con la stessa dignità. Che non è cioè né migliore né peggiore di qualsiasi altro medium. Inoltre, al contrario ad esempio dell’arte concettuale, la pittura abbisogna di essere vista e non solo raccontata: richiede cioè un approccio in prima persona, coraggioso e sincero. A questo schierarsi molti critici e curatori preferiscono parlare, scrivere, inseguire i propri progetti.

Questa ovviamente è solo una sintesi. Che ne dite? Buttiamo all’aria tutto e cerchiamo di cambiare qualcosa?