Darsena Residency #1

Venezia, Galleria Massimodeluca
settembre 2015

La galleria come luogo di scambio culturale
Daniele Capra




La galleria come spazio di dibattito
La caratterizzazione della galleria d’arte come luogo a sé e con un’identità propria – differente per struttura, arredo, modalità di allestimento delle opere, frequentazione, finalità, dall’essere la casa di un mercante o lo studio di un artista – avviene solo a partire dal secondo dopoguerra, ma in maniera molto graduale. L’adozione del modello del white cube e il caratterizzarsi come luogo di confronto intellettuale tra artisti, collezionisti, critici d’arte e pubblico (in realtà sempre troppo poco) sono le prime pedine di una tendenza che si compirà verso la fine degli anni Sessanta. Nelle città viene quindi a crearsi un nuova tipologia di luogo, con funzionalità differenti, prima sconosciute: uno spazio in cui è centrale l’esposizione e la vendita delle opere, ma anche un luogo di confronto dove si incontrano critici, intellettuali ed artisti, che discutono, teorizzano e talvolta si prendono pure a sberle [1]. Lontana da essere, soprattutto nell’Europa, un sito in cui avviene esclusivamente la vendita delle opere, cioè mercato [2], il fiorire della galleria coincide con il nascere di nuovi spazi di confronto in cui persone differenti si misurano sull’esistente, sul proprio lavoro, sull’ideologia sottesa alle scelte estetiche, in maniera destrutturata e libera da vincoli accademici e consuetudini borghesi. La galleria è cioè luogo di frequentazioni, di pensiero critico, di elaborazione di nuove prospettive, di affrancamento dalla cultura conservativa e passatista prodotta dalle istituzioni.


La progressiva perdita delle istanze culturali
A partire dai primi anni Ottanta si assiste ad un progressivo cambiamento della funzione della galleria. Se da un lato, in particolare in Italia, essa diventa un luogo complementare alla creatività espressa dalla moda e dal design, dall’altro cominciano a prendere piede gallerie con un’attenzione più attenta alla vendita, benché la galleria sia all’epoca – e per certi aspetti tutt’ora – molto differente da qualsiasi altra tipologia d’impresa, poiché il suo agire si misura non solo sulla capacità di creare economia e di vendere, ma anche sulla sua possibilità di essere influente per accreditare i propri artisti e le proprie opere presso collezionisti sempre più importanti ed esigenti, spazi istituzionali, fondazioni (dinamiche relazionali particolarmente complesse e che richiedono anche decenni prima di essere messe a punto [3]).
Venendo sempre meno le istanze di confronto personale, particolarmente sentita dagli artisti che erano nati prima della guerra, a favore di un professionismo più stretto, in questo periodo comincia a prendere piede una tendenza all’esclusività e all’evento, logica che ha portato progressivamente ad uno svuotamento delle funzionalità culturali e ad un minore frequentazione da parte delle persone. A questo, nell’ultimo ventennio si è aggiunta una logica sfrenata che ha frequentemente assimilato le opere a merce da parte di molti addetti ai lavori (in primis i collezionisti, la capacità d’acquisto dei quali è andata spesso a braccetto con una spaventevole inconsapevolezza culturale) per cui la galleria si è trovata ad essere sempre più spesso una rivendita per sofisticati acquirenti. Tale modalità è tanto più alimentata dalla presenza delle fiere, la cui pervasività e i cui costi spingono le gallerie a fare innanzitutto vendite. Così la galleria si trova ad essere un negozio complesso ed intricato, talvolta delocalizzato negli stand di una fiera, in cui il piacere dell’acquisto da parte del collezionista sembra aver lasciato troppe volte spazio a logiche finanziarie e di investimento tipiche del capitalismo del secondo millennio.


Verso la condivisione
Ovviamente l’acquisto di un’opera d’arte è e rimane l’acquisto di un bene culturale, e la galleria sarà, per quanto vocata a sviluppare strategie commerciali, un’impresa nel campo della cultura (quindi, basata su modalità economiche differenti rispetto ad altri settori). Tanto più per l’arte contemporanea, in cui nel nostro Paese da oltre un trentennio si registra la cronica assenza di strutture pubbliche, ma anche di politiche pubbliche, aspetti che ci collocano tra le ultime nazioni capaci di sviluppare e promuovere la cultura del nostro tempo. Eppure una cosa è chiara a chiunque conosca il settore: moltissima della cultura e della ricerca nel campo dell’arte contemporanea effettuata in Italia è pagata o sostenuta dalle gallerie, aspetto che ha caricato di responsabilità la galleria, ma che nel contempo può metterla in difficoltà economica o renderla incapace di sostenere un artista di valore qualora priva del capitale necessario.
Anche in questo settore cambia o muori [4] è diventata, in buona sostanza, l’unica modalità possibile di esistere, tanto più perché, causa le ristrettezze economiche dell’ultimo quinquennio, il lavoro delle gallerie è diventato economicamente quasi insostenibile. Molte, negli anni recenti, hanno reagito sviluppando logiche collaborative e condiviso con i collezionisti più sensibili, con le fondazioni, strategie di promozione per alcuni degli artisti; ma anche organizzato mostre in partnership, attività di formazione e perfino ospitato residenze di artisti nei propri spazi. La galleria, in un buona sostanza, è spinta a tornare di nuovo motore di interesse, luogo in cui non ci si ritrova solo al vernissage con il bicchiere in mano, ma centro aperto ad istanze più ampie, condivise, partecipate economicamente ma anche umanamente.
In maniera strabica è ora infatti di rimettere al centro la cultura, il confronto, ma senza perdere di vista l’economia che sorregge le attività. Con l’auspicio che questo sforzo ci aiuti a passare le secche di cui siamo prigionieri.




[1] In occasione di un pranzo ho avuto la fortuna di assistere, insieme all’amica e collega Elena Forin, al racconto di Gillo Dorfles di una proverbiale scazzottata alla Galleria Milione di Milano, avvenuta negli anni Sessanta tra astrattisti e pittori realisti.
[2] Si tenga presente che il fatturato e in genere tutta l’attività economica delle gallerie erano molto bassi, e che ad esempio, la prima edizione di una fiera – Kölner Kunstmarkt, successivamente Art Cologne – è solo del 1967.
[3] Risulterebbe di particolare interesse verificare la logica complessa attraverso cui una galleria che conduca un lavoro serio riesca a accreditarsi come riconoscibile e rispettabile per i contenuti proposti presso i collezionisti, le istituzioni, gli artisti nonché gli altri colleghi galleristi.
[4] Il motto, utilizzato nella pubblicità negli Stati Uniti sin dagli anni Settanta, è stato fatto proprio dalle aziende che si occupano di tecnologia e ricerca medica (cfr. l’articolo, e poi successivamente saggio, Change or die di Alan Deutschman, HarperCollins, 2007), ma si adatta perfettamente alla struttura delle gallerie.