Job moves

Padova, Cinema Rex
ottobre 2016

Scusate lo sfogo
Daniele Capra




L’Italia è una strana nazione. Il sempre citatissimo primo articolo della nostra costituzione indica infatti come la nostra repubblica sia “fondata sul lavoro”[1], ove per lavoro – suppongo – si intenda l’industriosa tendenza al fare dei suoi cittadini, che altro non è se non la versione aggiornata e moderna del dovere di espansione espresso nel biblico precetto “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela”[2]. Ma lavoro è forse, nelle intenzioni dei costituenti, la versione italiana (frutto quindi del compromesso politico tra le matrici cattolica, socialista e liberale) di quello che Max Weber chiama beruf, che egli riconosce come uno degli elementi fondanti dell’etica che conduce al capitalismo moderno[3], quantomeno ai suoi esordi. Esso è cioè espressione e forma di una tensione naturale, innata, che si oppone alla vita contemplativa e all’otium, proprie dell’antichità.

Lavoro è quindi negotium, esercizio di un diritto operoso, un dovere (sul quale, a sentire gli autori della nostra costituzione, è basato il legame sociale che costituisce lo stato), ma è allo stesso tempo anche una forma di realizzazione delle potenzialità espressive umane. Davvero raramente però, ci capita di osservare che il lavoro assuma tale funzione, poiché la modalità più frequente è quella del ripiego da imputarsi al soddisfacimento delle mere esigenze economiche, e d’altro canto pare francamente irrealizzabile la condizione in cui tutti trovano un lavoro che sia completamente nelle proprie corde.

Che piaccia o meno, il lavoro è sforzo, condizione di cattività, sacrificio, dedizione, e nel nostro paese – che è non solo strano, ma frequentemente ingrato – non viene nemmeno riconosciuto come tale. Ad esempio il lavoro nel settore della cultura non ha lo status di una professione: è hobby, intrattenimento. E fare arte, o scrivere di arte, è un passatempo per ricchi annoiati o inguaribili statali dopolavoristi.

Pretendere di essere pagati, e rispettati, è purtroppo impossibile. Cambieremo mai? Ne dubito, la nostra è una strana nazione per cui lavorare nel campo dell’arte non è un’occupazione seria. Se non altro, può essere invece una professione libera, nei tempi, nelle modalità, nell’apertura mentale che richiede. Per il resto posso assicurare che, tra mille imprecazioni quotidiane, “è sempre meglio che lavorare”[4].




[1] Il primo articolo completo della Costituzione, mai cambiato dalla sua entrata in vigore, recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
[2] Bibbia, Genesi, cap. I, vv. 22 e 28.
[3] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur.
[4] Parafraso la celebre battuta di Luigi Barzini sull’attività di giornalista: “l mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi. Ma è sempre meglio che lavorare!”.