Ivan Moudov
Stones

Udine, Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna e Contemporanea
maggio — giugno 2013

Prova a metterti le mie scarpe con un sassolino tra le dita
Daniele Capra




Fare pipì con un sassolino nelle scarpe
Non sono un borghese dalle belle maniere, né un pedante ed aristocratico praticante del galateo. Non mi sento nemmeno un ballerino da salotto. Eppure non mi era mai capitato di togliermi le scarpe in un museo. E nemmeno di fare la pipì dentro un’opera con la paura – e l’ansia – che qualcuno dei sorveglianti mi potesse sorprendere in flagranza di minzione. Certo, probabilmente non esiterete a credere realisticamente alla prima cosa, mentre avrete il dubbio che stia millantando la seconda. Ma d’altronde, come ammoniva astutamente il filosofo Gorgia, «chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare» [1]. Ma non sono un romanziere, e le mie non sono semplici dissertazioni teoriche: è stato Ivan Moudov a farmi provare tutto questo. Se fossi un bambino colto con le dita nella marmellata direi, vuotando il sacco, «è tutta colpa di Ivan». Molte delle sue opere, infatti, sono pensate per spingere uno spettatore «emancipato» [2] ad accettare e confrontarsi con delle provocazioni del tutto inattese in un contesto di natura museale, come nel caso di Stones o del pissoir di Already Made 3.
In Stones la pavimentazione in sassi del giardino di Casa Cavazzini è sorprendentemente cedevole, e chiunque vi cammini si trova ad affondare nella ghiaia per una decina di centimetri. Sotto il livello di calpestio dei sassi, infatti, sono stati collocati alcuni strati di gommapiuma che mettono il visitatore nella condizione di avere un’esperienza all’inizio straniante e successivamente ludica. Ne risulta così un capovolgimento dell’assunto topologico della consistenza del piano su cui ci muoviamo, che ha per effetto triviale il fatto di trovarsi qualche sasso nelle scarpe (che molti visitatori, io compreso, hanno rimosso togliendosi le scarpe).
Per la mostra ospitata a Casa Cavazzini Already Made 3 – una copia della duchampiana Fontaine firmata cui Moudov ha aggiunto una damigiana sferica in grado di raccogliere i liquidi – è stata collocata all’interno del bagno anni Trenta che fa parte del percorso del museo. Si tratta cioè di un bagno visitabile ma non utilizzabile dallo spettatore, il quale però si trova di fronte ad un vero e proprio pissoir che ha tutti i segni che indicano di essere stato impiegato, come evidenziato dalla presenza di liquidi nella boccia trasparente. Al visitatore sorge il dubbio se l’opera sia effettivamente stata usata da qualcuno prima di lui o se l’artista voglia fargli credere che così sia stato; ma soprattutto può venire la voglia di utilizzare l’opera nella speranza di non essere visto dai custodi del museo. Lo spettatore smaliziato viene messo quindi nella condizione di sfidare il proprio senso del pudore nonché le norme del museo, urinando nel pissoir per aggiungere quindi – se non viene scoperto – la propria pipì a quella che egli immagina già esservi. Il gioco, quindi, è sulle aspettative e sulle regole, e sulla possibilità che lo spettatore ha di violarle per compiere un’azione che è sottilmente spinto a fare. Ugualmente l’inganno è sorretto dal fatto che lo spettatore sia colto di sorpresa in una situazione al limite della verosimiglianza: la realtà e l’opera (per antonomasia la finzione) si sovrappongono, facendo di lui l’anello debole.
La maggior parte dei lavori di Moudov sono caratterizzati da una tagliente analisi delle relazioni di forza tra le persone e le convenzioni generalmente accettate. L’artista frequentemente vuole mettere in discussione la norma astratta o la consuetudine che regola un particolare aspetto della vita (come ad esempio fare pipì in una sala del museo, ma discorso analogo si può fare nel caso del diritto di precedenza riservato a chi sa percorrendo una rotonda in One Hour Priority o la possibilità di entrare/uscire liberamente da una stanza di un edificio) portandole ad interpretazioni estreme o a violarle deliberatamente, in modo di trarne degli imprevisti vantaggi personali. In questo senso il lavoro dell’artista bulgaro è politico, poiché mirato a mettere in luce la necessità umana di sfidare o eludere chiunque detenga il benché minimo potere, nonché la possibilità di sfruttare delle norme, che dovrebbero essere condivise e valide per tutti, in maniera inattesa ed opportunistica per il singolo [3].


Lo spettatore è fottuto
Una delle qualità più intriganti del lavoro di Moudov è quella di far saltare il codice che descrive la normale relazione, cioè consueta ed accettata, tra spettatore ed opera. L’artista bulgaro, infatti, chiede allo spettatore di essere parte di un processo, da Moudov stesso attivato, che vìola la convenzione per la quale chi guarda ha facoltà di essere funzionale ad esprimere un giudizio essenzialmente di ordine estetico (o eventualmente politico o sociale). Ad esempio osservare attentamente un’opera costituita da frammenti di opere rubate (come Fragments), oppure vedere un video in cui avviene un furto (come quello realizzato allo IAC di Lyon), non è molto differente da fare il palo durante una rapina, ad essere cioè fiancheggiatore di un ladro; ma Moudov, provocatoriamente, non avverte lo spettatore che sta diventando complice di un’azione illecita, con l’effetto di un coinvolgimento del tutto involontario. Lo spettatore non è quindi semplicemente parte passiva – come accade ad esempio usualmente di fronte alla televisione, in cui è richiesta una bassa adesione ai contenuti trasmessi – ma si trova nel ruolo imbarazzante di complice, se non formalmente in quello di inconsapevole mandante.
A priori e in modo del tutto indipendente dal fatto di avere o meno il consenso, l’artista attua cioè un’unilaterale rinegoziazione della relazione spettatore/opera, cui risulta impossibile opporsi: l’osservatore infatti si trova imprigionato nel doppio ruolo di destinatario finale e di committente (o mandante), senza via di scampo. E in questo frangente diventa così di scarso valore esprimere adesione/rifiuto o apprezzamento/critica nei confronti delle azioni dell’artista, poiché lo spettatore è in buona sostanza, e suo malgrado, chiamato ad essere anche testimone di un processo perfettamente architettato per incastrarlo. A poco o nulla contano i dubbi sulla legalità del procedere di Moudov, sulla sua liceità di appropriarsi di opere di colleghi, sulle questioni etiche o legali che possono scaturire da tali azioni. Dopo aver esperito l’opera, banalmente (e come accade nei polizieschi), lo spettatore è fottuto.


In prima persona
Nineteen Problems, Eighteen Paintings è un riallestimento ed una performance che Moudov ha realizzato appositamente per Casa Cavazzini collocando delle opere della collezione nella project room del museo, per coprire e mascherare temporaneamente i tanti elementi di disturbo visivo della stanza. Durante l’inaugurazione Moudov, ha infatti sistemato provvisoriamente le opere nei rispettivi punti d’azione attribuendo ad esse una funzionalità ironicamente mimetica: non dovrebbero cioè far percepire all’osservatore le imperfezioni dello spazio. Essendo allestite invece ad altezze e con modalità che differiscono dai consueti criteri espositivi applicati nei museali (un ulteriore violazione di una norma consuetudine), sono invece percepiti dal visitatore come presenze curiose e stranianti. Oltre al fatto di attribuire con tagliente intelligenza una funzione in più ai lavori della collezione, l’artista si assume il ruolo di attivatore, di lievito, mettendosi in gioco in prima persona e lasciando che poi le opere siano ricollocate in una posizione più tradizionale.
Come capita anche nel caso di Performing Time (video in cui sta in piedi per una giornata intera misurando lo scorrere dei minuti senza alcun aiuto di strumenti che misurano il tempo), in cui l’artista bulgaro svolge la funzione di testimone del fluire del tempo, Moudov sceglie di essere in prima persona la misura della propria arte, in un ruolo che ricorda concettualmente il leonardesco Uomo Vitruviano. Le estremità del corpo toccano i bordi dello scibile, del mondo che può essere toccato, conosciuto. Solo che, con la circonferenza in cui è iscritto, Moudov gioca all’hula hoop.




[1] Gorgia, frammento B 23 DKM, in M. Bonazzi (a cura di), I sofisti, Rizzoli, Milano, 2007, pp. 218-219.
[2] Cfr. J. Rancière, The Emancipated Spectator, Verso, London and New York, 2009.
[3] Curiosamente tale aspetto è metafora del mercato e della moderna società capitalistica, in cui la presenza di una legge (apparentemente o nelle intenzioni del legislatore) equa non impedisce al singolo l’arricchimento a discapito delle altre persone.