Una didascalica questione di etichetta

Dare un nome alle cose è spesso fondamentale nell’arte contemporanea. Sia che il titolo sia funzionale alla poetica (perché ne costituisce cioè un elemento chiave) che, al contrario, non incida sulla percezione e comprensione del lavoro.
Nella pratica allestitiva questo significa che l’osservatore deve essere messo in grado di vedere il nome dell’opera; cosa che, per supposta figheria concettuale – cioè sciatteria e supponenza – spesso non avviene. Sempre di più questo capita nelle fiere e pure nei musei. Ma se nelle fiere l’arte ha spesso delle logiche da supermercato (benché nome, provenienza e perfino prezzi di zucchine o dei pelati siano ben più chiari) che sono comunque difficile da digerire, irrita che i curatori non ci pensino.
Mi sono capitate mostre con etichette dai font illeggibili se non con monocolo da miniaturista; altre in cui le etichette erano a trenta metri, il che, come si può immaginare fa fare solo casino. Altre addirittura in cui non c’erano dato che era tutto “Untitled”.
Ragazzi, un po’ di umiltà no?

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