“I Bronzi di Riace non si muovono”. Questa in sintesi la risposta di Simonetta Bonomi, Soprintendete di Reggio Calabria, alla proposta di Mario Resca di portarli in giro (per il mondo? per l’Europa?) per farne degli strumenti di promozione del nostro territorio. Il Direttore Generale per la Valorizzazione del Patrimonio aveva spiegato come le due opere fossero nel museo “a prendere la polvere”, mentre in realtà sono in restauro, come si può vedere qui (restauro che può essere seguito anche dai visitatori).
Se quella di Resca pare una boutade (la media di visitatori al Museo Archeologico di Reggio dove sono ospitati è negli ultimi anni poco sotto le 130mila persone l’anno, a quanto si legge nel sito dei musei calabresi), è vero però che una gestione più manageriale e meno conservatrice dei musei gioverebbe. “Spesso le opere vengono richieste in prestito solo per fare eventi mediatici senza alcun progetto scientifico”, questo il pensiero dei Soprintendenti. Ma è pure vero che senza spettacolo non si mangia, e che una circuitazione delle opere che non hanno problemi di conservazione gioverebbe a tutti.
L’idea di base su cui ci si scontra è se il patrimonio artistico possa o meno essere utilizzato per generare profitti grazie alle leve di marketing e comunicazione. Io, candidamente, sono favorevolissimo. Il che non vuol dire di portare Raffaello alle sagre, ma pensare che il patrimonio sia una cosa disponibile e non un valore indisponibile e solo da custodire.
Sottrarsi all’aspetto mediatico anziché sfruttarne le potenzialità, nell’arte come in altri settori, è solo nocivo. E infatti la risposta giusta della Soprintendente di Reggio sarebbe dovuta essere: “ma perché non facciamo una mostra, con prestiti importanti da altri musei, a Reggio Calabria, così valorizziamo la collezione e i nostri tesori? Sarei felicissima se il dott.Resca ci desse una mano a trovasse i fondi necessari”.
Ma invece la Bonomi è caduta nella provocazione. Così siamo presi tra gli opposti massimalismi di chi essenzialmente vuole custodire e di chi invece pensa solo al marketing, senza capire che una terza via è possibile (Louvre dove sei?). E ci converrebbe davvero.
Autore: Daniele Capra
Jiri Kovanda: la forma è stata un ripiego
Tempo fa ho avuto il piacere di fare una conversazione con Jiri Kovanda, uno degli artisti concettuali più attenti e raffinati sin degli anni Settanta, giustamente riscoperto nell’ultimo periodo per l’interesse della sua ricerca sulla gestualità, sulla spazialità del corpo e sulle implicazioni scultoree che intercorrono tra individuo e contesti aperti.
L’avevo conosciuto ancora nel 2007, in occasione della sua partecipazione al festival Tina-B di Praga con un’azione pubblica. Nello stesso luogo dove trent’anni prima aveva realizzato una performance in cui grattava un muro con le unghie delle sue mani (era un modo per interrogarsi sulle difficoltà di vivere in un paese senza democrazia), si era seduto a per limarsi le unghie, con molta nonchalance, quasi a testimoniare la condizione di impotenza dei tempi attuali, in cui siamo costretti ad essere semplicemente spettatori della realtà, di decisioni e scelte prese altrove: l’artista – ma la condizione è comune alla classe intellettuale, anche della nostra nazione – non è più in grado di incidere sul tessuto sociale e non gli rimane che farsi la manicure.
Tra le tante cose che mi hanno colpito nelle sue parole, c’è l’analisi di come i paesi comunisti dell’Est Europa (in cui esisteva un estetica realista di regime) abbiano condizionato gli artisti costringendoli a lavorare in vere e proprie nicchie. Si sono così sviluppate le pratiche performative, azioni delle quali non rimane traccia visibile, e parallelamente si è registrata una grande l’attenzione agli aspetti concettuali e formali in qualche modo minimalisti, incapaci per l’autorità politica di avere effetti critici sul regime.
Così, incredibilmente, la mancanza di libertà ha reso la ricerca ancora più spinta e pregante. Peccato che la tradizione storiografica sull’Europa orientale non sia altrettanto ferrata di quella sull’Europa occidentale o americana: bisognerà evidentemente discuterne ancora.
E comunque era la prima volta in cui sentivo parlare degli aspetti formali come un ripiego. Chissà cosa ne pensano i nostri giovani artisti ammazzati dal’accademismo da compitino concettuale.
Gli italiani? Gran scrocconi al museo

Peccato che nessuno invece si occupi di un fattore chiave: perché gli italiani vanno al museo così poco? E poi perché ci vanno soprattutto scolaresche e pensionati in gita mentre la fascia centrale di età è reticente?
La risposta è semplice: i musei italiani sono spesso cosa da formalina che spesso spendono tutti i soldi per il mantenimento della struttura né hanno le possibilità economica e le idee per avvalorare le collezioni che possiedono (e molti dei musei piccoli hanno collezioni non di pregio). Spesso sono inutilmente aperti aumentando solo i costi e, cosa che l’indagine non dice, a fronte di un gran numero di siti diffusi nelle nostre piccole cittadine – è la vera ricchezza del nostro patrimonio – solo pochi hanno dei numeri interessanti di visitatori.
E allora perché non metterli in rete e sviluppare delle sinergie per stare al passo con i tempi e far conoscere il nostro petrolio? Forse a quel punto sarà lecito chiedere qualche euro per l’ingresso, se si spiega che, sotto casa, molto spesso c’è un tesoro.
Beatrice e la pittura? Da evitare come la peste
E’ indubbiamente questo il pensiero di molti dei benpensanti ed intellettualissimi curatori italiani à la page (ma indubbiamente anche di tanti artisti). I geni – che Luca Rossi direbbe riuniti nella diade Mousse/Kaleidoscope – si gasano infatti per l’ennesima pratica concettuale masturbatoria senza poi rendersi conto che l’approccio alla ricerca può avvenire con colore e pennello. E poi ciao ciao senza nemmeno guardare i lavori se ti è capitato di lavorare con curatore sputtanato. Al massimo uno sguardo con sufficienza e sotto un altro.
Non voglio certo dire che il lavoro di Beatrice mi piaccia né tantomeno difenderlo (ha realizzato una Biennale vergognosa per gli spazi e la scelta di alcuni degli artisti). Però smettiamola di dire che la pittura è passato e di considerare un artista solo dal fatto che abbia fatto una mostra con questo o piuttosto che quel critico. Siamo obbiettivi e con onestà guardiamo alla ricerca, senza fare di tutta l’erba un fascio. Tanto più perché di fasci – in questo paese sempre più arretrato, brutto e cialtrone – siamo pieni.
Sgarbi: voglio lotto alla Biennale

Proposte che non sono male. Vi ricordate il miracolo di Artempo in cui le carte erano magicamente mischiate? Miracolo, appunto, che capita di rado. E comunque peccato che lo scopo della mostra ospitata al padiglione italiano sia – per statuto – ben altro, cioè promuovere e mostrare le ultime ricerche nel campo del nostro Paese. Ma ovviamente Sgarbone avrà carta bianca dall’incompetente Bondi e probabilmente il presidente Baratta non farà tanti casini, per evitare strumentalizzazioni politiche e perdite di poltrone.
Alla fine avremo un sacco di persone che si vedranno il pur stratosferico Lotto col biglietto della Biennale, mentre gli sfigati artisti contemporanei ce li beccheremo in giro per la città. Un po’ come capita ai paesi che il padiglione non ce l’hanno. Ma questa volta, ne siamo sicuri visti i gusti da muffa dello Sgarbone, non se ne accorgerà nessuno.
Dalla P2 alla P3
06.03.2000, dichiarazione a Telelombardia
“Non state a leggere i titoli dei giornali, stamattina hanno parlato di P3 ma sono quattro pensionati sfigati che si sarebbero messi insieme per cambiare l’Italia. Ma se non ci riesco io…”.
12.07.2010, intervento per i trent’anni della rivista Capital.
Sono due dichiarazioni del Caimano. Fortunatamente ho smesso da molto ormai di provare vergogna dei nostri politici.
L’artista deve essere consapevole?
Mi sono sempre chiesto se l’artista debba essere consapevole, e soprattutto quanto debba esserlo, del posto che occupa rispetto a tutto ciò che lo ha preceduto. Ed intendo per questo la consapevolezza dell’essere avanguardia, cioè progresso ed anticipo del futuro; elemento di novità, portatore di quello che potremmo definire – prendendo in prestito l’espressione dal mondo economico – un coefficiente di innovazione. Quanto gli artisti si devono rendere conto di essere una nuova cosa? Non per miopia, ma a ragione?
La mia domanda è forse priva di senso, dato che forse non è nemmeno il loro lavoro capire tutto questo. In fin dei conti quello che si chiede agli artisti è di produrre linguaggio, eventualmente senso, riflessioni e – per quanto mi riguarda – punti di vista che mettano in discussione lo status quo.
La recente intervista a Edoardo Sanguineti uscita su Exibart è in questo senso molto interessante. “Credo che il significato forte delle avanguardie sia in generale quello di avere precisamente dei programmi, che non vuol dire avere dei programmi estetici o non soltanto estetici: vuol dire cercare di radicarli in una visione del mondo e assumerne una responsabilità come intellettuale. Io parto dall’idea che qualunque comunicatore ha un ruolo intellettuale perché comunica una sua visione del mondo.”
E’ un lavoro molto difficile anche per i critici più attenti e allenati. Non è troppo chiedere agli artisti di farlo?
Bonami lo potevo fare anch’io. Forse meglio
Spero che siate stati alle presentazioni dell’ultimo inutilissimo libro di Francesco Bonami Si crede Picasso (vi consiglio francamente di risparmiare i 17 euri del libro). Ne ha fatte un paio in luoghi prestigiosi come Palazzo Grassi a Venezia e il Mart a Rovereto. Bene direte, ci sarà stato da divertirsi: da autentico toscanaccio avrà raccontato un sacco di storie e ne avrà dette di cotte e di crude, tanto più perché davanti a platee del mondo dell’arte e quindi sensibili.
Sbagliato. Una noia mortale: pensieri pochi e pure espressi male: semplicemente imbarazzante. E il libro? Vi ricordate il giudizio di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin? Sì, proprio così: una cagata pazzesca. Eppure Bonami ha e ha avuto ruoli di prestigio ed il suo curriculum è assolutamente invidiabile. Spero per lui che nei prossimi anni si limiti a fare belle mostre, perché a parlare e formulare pensieri è un disastro, come sa bene chi l’ha visto contro il parolaio Sgarbi alla Sandretto. Tutto il resto è davvero noia e fuffa.
Che dire? Quanto meno con ABO ci saremmo divertiti a vedere un guitto sul palco.