Categoria: arte

Panza di Biumo non resti un caso isolato

Mi è molto dispiaciuto che un paio di giorni fa Giuseppe Panza di Biumo sia venuto a mancare. Lui per me rappresenta un modello prestigioso di intellettuale: è il collezionista che ha capito come, grazie alle sue scelte e al suo gusto, sia possibile intervenire sulla realtà. Chiariamocelo: Panza è una persona con un patrimonio cospicuo e che gode di molte agiatezze sconosciute ai più del suo tempo. Ma la sua azione non è un fatto di ricchezza (benché ricchezza sia necessaria), quanto di rinnovamento culturale e, parallelamente, di allargamento e democratizzazione dell’arte.
Negli anni Sessanta all’Italia – paese in cui molti sono attardati a celebrare i fasti del proprio passato – Panza di Biumo propone invece l’arte del Nuovo Mondo, che parla con alfabeti che non puzzano di accademia o di bella pittura. Ha contatti con i più importanti artisti concettuali e minimalisti, e con i direttori di museo, grazie ai quali decide di lasciare parti della sua enorme collezioni ovunque (consiglio a proposito di leggere le sue parole nei due libri di Jaca Book Ricordi di un collezionista e L’arte degli anni ’50, ’60, ’70). Negli anni successivi apre la sua dimora al pubblico, non smettendo mai di sostenere le idee ed i valori estetici degli artisti amati.
Il suo ruolo è stato nel complesso ibrido: un po’ collezionista, un po’ mecenate. Di sicuro “popolare” nel senso Gramsciano del termine, il che lo fa essere un unicum nel panorama italiano. Tanto di cappello, spero siano in molti ad imitarlo.

Minoli il simpatico confermato da Cota a Rivoli

Giovanni Minoli è una volpe e ha evidentemente delle capacità tattiche non comuni. Doti che gli hanno permesso, tra l’altro, di restare in Rai per quasi quarat’anni, nonostante i tanti giri di walzer alla testa di Viale Mazzini.
Giusto ad inizio settimana erano state rese note le sue dimissioni dal cda del Castello di Rivoli, essendo cambiata la maggioranza alla Regione Piemonte: con una correttezza assolutamente inedita nel nostro Paese – come avevamo segnalato – aveva consegnato il suo mandato nelle mani di Cota. Cota, apprezzato il gesto ha però confermato la fiducia a Minoli, esprimendo “simpatia” nei confronti del direttore di Rai Educational.
Non so che valore possa avere la simpatia dal punto di vista politico e delle competenze dirigenziali richieste per un museo, ma devo dire che, dopo aver visto ieri Fini e Berlusconi incornarsi come due camosci in calore in un tesissimo tête-à-tête, ogni tanto uno spruzzo di simpatia non guasta.

Collezione Unicredit? Molte opere deludono…

Giulio Paolini, Tre per Tre, 1998-99, gesso

Qualche settimana fa ho visto PastPresentFuture la mostra della Collezione Unicredit ospitata a Verona presso il Palazzo della Ragione (trovate la recensione qui), col piccolo rinforzo della Collezione Cariverona/Domus. Una mostra ben allestita, divisa in sette sezioni (alcune invero capziose, ma ci sta in  una mostra anche il divertissement intellettuale del curatore), che testimonia una sezione della collezione della banca. Alcune opere sono state acquistate molti anni fa, altre grazie alle fusioni bancarie; altre ancora sono frutto della più intensa campagna di acquisti svolta da Unicredit negli ultimi anni.
Gli autori sono tutti giusti, non manca nessuno di quelli che sono stati nel dibattito critico degli ultimi due lustri. Peccato però che molte opere siano, nel campo dei singoli autori, mal scelte o laterali rispetto alla loro produzione: non mostrano cioè quello di più interessante che hanno fatto. Come ad esempio quella di Imi Knoebel, Igor Eskinja o Fischli&Weiss.
Se questo è il Past, confidiamo in un migliore e più oculato Future.

Le dimissioni di Minoli e lo spoil system

To the victor belong the spoils, il bottino va al vincitore. Questa frase, pronunciata da un senatore americano ad inizio Ottocento viene considerata come la prima rivendicazione della pratica politica dello spoil system, con cui “le forze al governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti cariche istituzionali, la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere”, come spiega Wikipedia. Si tratta cioè di un meccanismo per cui i grandi dirigenti, dopo la vittoria alle elezioni, vengono rimossi e sostituiti con altri del proprio schieramento: una prassi spartitoria che in paesi come gli Stati Uniti è fatta alla luce del sole, mentre da noi è mascherata con la solita italica capacità di nascondersi dietro un dito. Gli effetti deleteri li vediamo ovunque, anche perché, contrariamente a quanto capita in altri paesi per bene, gli italiani non affidano le cariche a raccomandati bensì ad irracomandabili (qui da noi il merit system è un concetto inarrivabile).
Fa specie così vedere – in un paese in cui le dimissioni si minacciano ma non si danno – che ci sono persone come Giovanni Minoli che preventivamente lasciano l’incarico (la presidenza di Rivoli), intuendo come i nuovi amministratori non li metteranno in condizione di lavorare. Era già capitato con il veltronissimo Danilo Eccher al Macro, che però in qual caso stava puntando diretto su Torino e Trento.
E comunque ad entrambi, per un volta in Italia, chapeau.

Una didascalica questione di etichetta

Dare un nome alle cose è spesso fondamentale nell’arte contemporanea. Sia che il titolo sia funzionale alla poetica (perché ne costituisce cioè un elemento chiave) che, al contrario, non incida sulla percezione e comprensione del lavoro.
Nella pratica allestitiva questo significa che l’osservatore deve essere messo in grado di vedere il nome dell’opera; cosa che, per supposta figheria concettuale – cioè sciatteria e supponenza – spesso non avviene. Sempre di più questo capita nelle fiere e pure nei musei. Ma se nelle fiere l’arte ha spesso delle logiche da supermercato (benché nome, provenienza e perfino prezzi di zucchine o dei pelati siano ben più chiari) che sono comunque difficile da digerire, irrita che i curatori non ci pensino.
Mi sono capitate mostre con etichette dai font illeggibili se non con monocolo da miniaturista; altre in cui le etichette erano a trenta metri, il che, come si può immaginare fa fare solo casino. Altre addirittura in cui non c’erano dato che era tutto “Untitled”.
Ragazzi, un po’ di umiltà no?

Auguri Gillo, uomo libero!

Ho avuto la fortuna di conoscere Gillo Dorfles grazie agli amici di Trieste Contemporanea. In maniera particolare mi è capitato di pranzare con lui un paio di volte, una delle quali – in occasione del festival Comodamentetête à tête, in compagnia di una cara amica. In quell’occasione abbiamo parlato di politica e libertà di stampa: “C’è poca libertà nel nostro Paese”, era quello che cercavo di sostenere io, mentre lui candidamente mi ha spiegato che in realtà il vero problema è che non ci sia più, poiché qualcuno c’è l’ha scippata, seppur dolcemente. “Pochi si sono accorti che sono stati derubati, anzi le direbbero di essere più liberi di trent’anni fa, dato che ci hanno ormai convinti che il campo di tutte le nostre disponibilità sia ampiamente cresciuto. La libertà di stampa che abbiamo noi, confrontata con altri paesi, è perfino imbarazzante”.
Non so se avrò ancora la fortuna di conversare con quest’uomo nato proprio centro anni fa quando a Trieste c’era ancora l’Impero Asburgico. Ma queste parole per me saranno per me indelebili. Tanti auguri Gillo, per il suo secolo di vita all’insegna dell’anticonformismo.

Umanità in coda

Nei giorni che hanno preceduta la Pasqua c’è stato il lancio del nuovo aggeggio elettronico della Apple per il quale i soliti pecoroni americani hanno fatto ore di coda. Si sa che il consumismo spinto di quel paese ha i suoi riti, ma fa proprio tristezza vedere i drogati di tecnologia in fila per una novità che qualcuno ha immaginato (e programmato a suon di dollari spesi in marketing) possa cambiare la vita.
Negli stessi giorni qui da noi altre persone facevano la fila per vedere Caravaggio o più modestamente il Cima, mentre era impossibile entrare a vedere il Giorgione senza prenotazione (come puntualmente racconta la collega Pepe). Anche qui pubblicità e modello imitativo hanno fatto un buon lavoro, dato che
all’improvviso la pittura antica è diventata cosa da figaccioni che tutti vogliono.
Ormai tra la cultura o l’iPad non fa più differenza. Producono entrambi un’umanità in fila indiana per spendere. Anche se, di questo si può essere certi, qualcuno in Italia cercherà di passare avanti.

Roberto Cota ad Artissima

Non vedo l’ora di andare alla prossima conferenza stampa di Artissima a Torino per vedere Roberto Cota parlare di arte. Magari non si farà nemmeno vedere, ma lo vedrei proprio bene in mezzo al pubblico fighetto dell’arte, lui che è una verace e schietta camicia verde con belle amicizie artistiche come il concettuale Calderoli (il geniale ma pentito uomo della leggelettoraleporcata, possessore di un maiale dalla facile diuresi nelle vicinanze di moschee), il situazionista principe dei celoduristi (beato lui) Bossi I, ma anche il fu smilzo padano e il posthuman Borghezio (filosofo dal raro e raffinato eloquio).
Se nelle parole dell’ex governatrice Bresso Artissima stava diventando sempre più un’occasione culturale con taglio meno elitario, simile ad un festival, non vedo l’ora che Cota proponga di trasformarla in Bagnacaudissima.
Ho i brividi.