Categoria: arte

Sgarbi presenta la Biennale dei Mille

Diamo atto a Sgarbi che dopo tante baggianate e comparsate televisive qualcosa di buono riesce a dirlo sulla sua prossima Biennale affidategli dal ministro-poeta Sandro Bondi.
“Io voglio riattivare quel rapporto tra intellettuali e arte che si è interrotto ai tempi di Moravia, Pasolini o Sciascia”, dichiara infatti lo storico dell’arte ferrarese. Cosa di cui abbiamo gran bisogno dato che il contemporaneo è spesso esiliato in una nicchia scomoda e asettica. “Il mio compito sarà indicare il punto di vista delle 200 persone dotate di miglior pensiero in Italia e all’estero. In Italia soprattutto, esistono stimabili intellettuali, come Arbasino, Ceronetti, Eco, Colombo o Scalfari, che si pronunciano o si sono pronunciati su varie discipline, dal cinema al teatro alla letteratura ma non sulle arti visive”. Uomini di grande cultura, ma anche età avanzatissima e tutti con una formazione letteraria (perché ad esempio non scegliere pure musicisti, scienziati o di economisti?), che non è detto che abbiano qualcosa da dire, ma il gioco potrebbe valere la candela se vogliamo togliere l’arte dagli eccessi autoreferenziali degli addetti ai lavori. Insomma, non ci resta che vedere se sarà una mostra tutta chiacchiere e distintivo oppure qualcosa di diverso.
Di certo Sgarbi vuole “spossessarsi della dimensione curatoriale”.
Fa ridere però l’idea di affiancare al padiglione lagunare una selezione di mille artisti su base regionale da esporre diffusamente in Italia: evidentemente l’arte, nell’idea di Sgarbi, è come il vino, l’olio e i formaggi e le tradizioni locali. E poi dove si trovano mille artisti bravi?
Ho come l’impressione che un po’ piangeremo e un po’ rideremo…

I curatori? Guardano più il portfolio che le opere

In un paio di commenti sulla vicenda di Alterazioni Video al ravennate Mar (spesso, come segnalato in un articolo di Christian Caliandro, sono proprio i commenti una delle cose più interessanti), si citava della prassi di alcuni curatori di guardare e giudicare le opere solo dai portfolio degli artisti. Molti curatori – questo il succo – lavorano con artisti dei quali non hanno visto le opere ma solo la loro presentazione, la loro immagine, senza cioè uno degli aspetti più interessanti e centrali quale è la visita in studio.
Fare uno studio visit – è un’opinione del tutto personale – è una delle cose più interessanti ed eccitanti del mestiere. Vedere il luogo e l’ordine/disordine, sentire il sudore, guardare l’approccio al lavoro, la scelta delle dimensioni, degli strumenti, la fisicità o la leggerezza delle modalità di lavoro, sono tutti strumenti di comprensione ineludibili per chiunque voglia capire come pensa e agisce un artista. Ovviamente non per tutti è così, poiché molto spesso capita di incontrare giovani artisti concettuali che hanno più disegni ed idee sul computer che opere.
Se il curatore lavora a distanza (a vicinanza telematica, per dire il vero) a mio avviso prediligerà frequentemente opere che funzionino senza fisicità, per le quali la visione retinica non è così importante, ma – al contrario – la logica ed il pensiero hanno la forza maggiore. Ci sono infatti opere che funzionano per idee ed opere che funzionano se c’è qualcuno che le guarda dal vero, in forma consapevole.
Vuoi vedere che è per questo aspetto di distanza che i pigri curatori italiani snobbano lavori che debbono essere visti (come spesso capita con la pittura) a favore di altri che possono essere capiti e raccontati in forma scritta, di immagine riprodotta, e di idea trasmissibile e raccontabile?

Murakami a Versailles. Dove sta lo scandalo?

In un articolo drastico uscito su Le Monde e ripreso dal Giornale del’Arte, Marc Fumaroli (autore del celebre Lo Stato culturale. Una religione moderna, Adelphi, 1993) critica senza riserve la mostra di Takashi Murakami ospitata nelle sale di Versailles, spiegando come sia l’Italia che la Francia giudichino il patrimonio culturale come di un giacimento da utilizzare secondo le mode e con gusto discutibile, quasi fosse una materia prima. In particolare, secondo l’accademico di Francia, la mostra di Murakami trasforma in Disneyland una delle sedi più conosciute dello stato francese sfalsando completamente l’idea del luogo, le sue finalità e ciò che artisticamente rappresenta. “Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami dei quali ci si vorrebbe far credere che il loro Kitsch, trasferito a Versailles, dialoga con la pompa magna di Le Brun, Le Notre o Lemoyne? Non si tratta forse di fuorviare quello stesso pubblico che lo Stato avrebbe invece il compito di illuminare e istruire?”, scrive Fumaroli, avendo forse un po’ di ragione se si considera che la mostra di Murakami nasce in parte come un format e non come un progetto sviluppato per Versailles.
Ma alla fine Fumaroli dà il peggio di sé, spiegando che “l’arte cosiddetta contemporanea, che si ammanta di uno status completamente inventato per un mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune, né con tutto ciò che fino a oggi è stato definito arte, né con i veri artisti viventi”. Sembra infatti che per il vecchio professore francese l’arte contemporanea sia esclusivamente finanza, speculazione e mercato, non rendendosi conto che – oltre ai soliti fenomeni gagosiani da banca – esistono decine di altri bravi artisti che hanno concetti e linguaggio per dire, fare, sorprendere tanto più in un luogo stratificato dalla storia.
La sua è infatti una lettura superficiale, da chi guarda le aste e non ha studiato i contenuti. Non si accorge Fumaroli che il problema non è l’arte contemporanea in sé quanto il fatto che le istituzioni debbano proporre un programma culturale contemporaneo di livello?
E suvvia, svecchiamo questi luoghi e divertiamoci con Murakami, il quale – piaccia o non piaccia – è un artista e non un produttore di “giocattoli giapponesi”. E quanto meno ci si annoierà di meno in quel museo da letargia, sfarzo ed inutil pompa per la nobiltà annoiata di secoli fa, quale è la residenza della corte francese.

Regionalismo a go go. Il catalogo è anche in friulano

Stavo riordinando i cataloghi degli ultimi mesi e mi sono trovato tra le mani la curatissima pubblicazione che ha corredato la personale di Sergio Scabar presso l’Ospedale dei Battuti di San Vito al Tagliamento (potete leggere qui la recensione). Oltre ai lavori dell’artista e al testo del curatore Angelo Bertani, il catalogo contiene degli estratti de La vita delle cose di Remo Bodei, particolarmente interessanti se consideriamo la ricerca “morandiana” sugli oggetti condotta da Scabar.
Ma quello che mi ha colpito è stato che il catalogo è anche in friulano. Sì, in friulano. Per la precisione è trilingue ed i testi sono in quest’ordine: friulano, inglese, italiano. Mi pare incredibile.
Trovo imbarazzante che siano stati spesi dei soldi cioè per tradurre i testi in questa lingua – guai a chiamarlo dialetto, vi attirereste le ire degli oltranzisti. Dubito infatti che il curatore e Bodei scrivino in friulano.
Così, mentre mancano i quattrini per l’arte, se ne sprecano considerando il furlan lingua da conservare approfittando dei contributi che la regione autonoma concede per la difesa del patrimonio linguistico (una cosa da ridere). Quei soldi li avrei preferiti per dare un’occasione, qualcosa in più. Magari per far migliorare l’inglese agli artisti della regione.

Pittura, brutta figlia di p.

Pregiudizi di ogni tipo sono quelli che molta della critica progressista e à la page del nostro paese ha nei confronti della pittura. La cosa si vede, oltre che nelle mostre in molti negli spazi pubblici, dalla costante assenza del medium nelle gallerie considerate portatrici della ricerca più innovativa, di quelle più ambite e snob.
Non so perché, ma sembra che la pittura sia una pratica da sfigati che appartengono ad un’altra epoca, dei pezzi di antiquario postmoderno (anche io, nel mio piccolo, quando mi sono trovato a curare mostre con pittori ho ricevuto bonari e sarcastici apprezzamenti da colleghi o da altri artisti). E inoltre, se curiosamente la pittura degli artisti italiani è snobbata, capita invece di vedere come gli stessi critici guardino con occhio meno critico pittori inglesi o tedeschi: d’altronde si sa, noi siamo esterofili.
Fa specie così vedere molta della critica e del mondo dell’arte che non sostiene affatto la pittura radunati ad un tavola a discuterne al Docva a Milano (ecco la segnalazione dell’evento). L’idea che me ne sono fatto – ma probabilmente sbaglierò – è che  quelle persone tenteranno di fare l’autopsia di un morto che hanno contribuito ad uccidere, spiegando come in realtà non sia loro responsabilità. Ovviamente non sarebbero mancate persone più adeguate, ma il mondo dei figaccioni internescional è terribilmente autoreferenziale.
Il problema è che sono troppo pochi ad occuparsi di pittura di valore in Italia. Con il risultato di lasciare il campo libero a dei furbacchioni come Luca Beatrice o degli incompetenti di contemporaneo come Sgarbi. Siamo messi davvero bene.

Se tutte le opere sono un “capolavoro”

Sconcertante è la leggerezza con cui i quotidiani italiani trattano di arte contemporanea, usando parole a sproposito, al di fuori di qualsiasi logica di buon senso. Questa volta èRepubblica.it a sorprenderci, nella classica colonnina cazzabubbole della homepage sulla sinistra, il refugium peccatorum dell’utente in cerca di distrazione (spazio in cui tra l’altro mi è capitato di vedere artisti sconosciuti al grande pubblico ma di sicuro interesse come Chris Gilmour). Qui ieri campeggiava un link dal titolo, molto promettente, “il capolavoro lavato via”. Non riesco a capire di cosa si tratta, immagino un’istallazione di John Bock pulita con la candeggina o Ausfegen di Joseph Beuys passato con il bidone aspiratutto. A quel punto, incuriosito, clicco. Ed è subito sera.
Mi imbatto in un’“opera” orripilante di Umberto Vaschetto, costituita da una immagine di donna dalla quale ciondola un feto di plastica che gronda sangue (!), un evidente lavoro antiabortista. Ma la notizia incredibilmente interessante segnalata dal sito è questa: l’addetta alle pulizie ha pulito le macchie rosse a terra.
Sono sconcertato, non tanto per il livello infimo dell’opera (di opere brutte se ne vedono molte), ma perché il titolo “capolavoro lavato via” fa venire i brividi. Si sa, i titolisti amano speziare le cose, tanto più in un’epoca di infotainment e notizie spazzatura come la nostra. Ma l’uso della parola “capolavoro” per quell’opera è indigeribile, un vero colpo inaspettato sul pube anche del più rincoglionito e amorfo dei lettori (se fate caso, tra l’altro, quando si parla di arte sui quotidiani la parola “capolavoro” è come il prezzemolo). Se ci penso, mi duole ancora il basso ventre.

Birnbaum fa il buyer a Frieze

Lorna Simpson, Jimmie Durham e Julius Koller. Sono questi gli acquisti che Daniel Birnbaum ha fatto per la Tate Gallery a Frieze, grazie al fondo messo a disposizione dalla fiera e da alcuni sponsor. Niente di giovanile o di inaspettato, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dall’intervista che ha rilasciato per The Art Newspaper (la vedete qui), in cui ha spiegato l’eccitazione ed il piacere di occuparsi della collezione di una istituzione trattando direttamente con i galleristi. La Simpson e Durham sono ormai dei pezzi da museo, quasi storicizzati, mentre Koller è uno di quegli artisti concettuali dell’Est Europa che i critici d’avanguardia stanno riscoprendo negli ultimi quattro-cinque anni, come ad esempio è capitato con il grande Jiri Kovanda: insomma è à la page, ma si compra abbastanza bene poiché i collezionisti ancora non ci hanno messo troppo gli occhi (che strano destino, la storiografia conta tantissimo, ma in arte è possibile correggersi dato che le opere non necessariamente spariscono).
E comunque, se Durham è sempre il solito tran tran, gli altri due sono due bei pezzi. Chapeau Herr Birnbaum. Ma un giovane no?

Il Fanculo di Cattelan? Lasciamolo!

Com’era prevedibile la mostra di Cattelan a Milano ha creato una serie inenarrabile di polemiche. In maniera particolare, dopo il suo piccolo Hitler sui manifesti, è il suo Dito medio (i titoli reali sono Him e Love) installato di fronte alla Borsa a tenere banco.
Mentre le fazioni pro o contro continuano a belligerare, quel volpone di Politi ci ha messo il carico, proponendo di lasciare la scultura in forma stabile dopo la mostra (leggete qui). A prescindere dal fatto che difficilmente Politi faccia qualcosa senza guadagnarci (mi risulta che abbia svariati pezzi dell’artista veneto e quindi immagino che non gli dispiaccia affatto che si apprezzino di valore) questa volta dice una cosa giusta.
Non nascondo che è imbarazzante essere d’accordo con lui, ma l’idea di lasciare al suo posto quel Fanculo in marmo di Carrara mi trova concorde. Non tanto perché rappresenti “il solo e unico simbolo di contemporaneità, in una città ansimante e affaticata come Milano”, ma soprattutto perché la città meriterebbe di andare a farsi fottere, per la mentalità chiusa e falsamente internazionale, per l’assenza di una politica culturale di livello che non sia fashion e lustrini.
E’ inutile che ce la raccontiamo, Milano, esattamente come l’Italia, è decisamente alla frutta. E quel monumento può rappresentare non tanto la sua rinascita, quanto il suo funerale celebrato da una Cassandra acutissima che in troppi fanno finta di non sentire.