Categoria: arte

Le tette della Berlusconi e le gallerie d’arte

Il settimanale gossiparo Chi ha dedicato 25 pagine alla famiglia Berlusconi (a quanto scopre da Repubblica). Un fatto davvero importante, più che altro per capire il livello – infimo – del giornalismo del nostro Paese.
E’ così che ho appreso che Marina Berlusconi ha delle tette meravigliose, “che ricordano quelle di Galatea, la più bella fra le Nereidi, dalla pelle bianco latte”. La citazione è dell’archeologo Aristide Malnati (nomen omen).
L’articolo sul settimanale Mondadori – che immagino passerà alla storia per essere il primo al mondo che pubblica le tette del proprio editore – passa poi in disanima gli altri membri della famiglia (non quello però tutto viagra del vecchiardo capobranco). Tra le amenità è raccontato come a Portofino Piersilvio e la sua compagna Silvia Toffanin, dopo una passeggiata per il centro, abbiano fatto “una sosta nella boutique specializzata in cachemire” ma sopratutto una visita alla “galleria d’arte che vende anche gioielli”.
Cosa abbiano preso non lo sapremo mai. Si spera almeno un bracialettino da mare, considerato il livello di proposta delle gallerie del luogo, da epistassi (leggi sangue di naso). E poi qualche quadretto lo poteva rimediare pure la sorella Barbara, socia di Cardi Black Box, no? Questo però Chi, troppo impegnato a spargere lustrini, non poteva saperlo.

91milioni di evasione. Beccati gli Orler, re delle televendite

Qualche gallerista di sicuro si sarà fregato le mani per la felicità. Si sà, l’avversità, o meglio sarebbe dire l’odio, per i colleghi delle televendite (rei, come le case d’aste, “di turbare i prezzi, di non curarsi più di tanto del rapporto con gli artisti e di fare troppo i commercianti”) non è proprio cosa di poco conto.
Fatto sta che la Guardia di Finanza di Venezia ha accertato un’evasione di 91milioni di euro – sì, novantuno! – da parte di una casa d’aste che fa televendite di cui non è stato reso noto il nome. Si tratta di Orler, l’azienda di Favaro Veneto nota ai telespettatori nottambuli curiosi d’arte per i volti di Carlo Vanoni e Dario Olivi (che risultano estranei ai fatti). A questo si aggiungono poi 55 milioni di Irap e 18 milioni di euro per Iva non versata, il che fa capire quale fosse il vorticoso giro di affari dell’azienda.
Dopo aver beccato i ricconi di Orler, chissà se la GDF si occuperà delle molte altre gallerie che – bisogna ammetterlo – fanno quasi tutto a nero. Le piccole per i pochi soldi che girano, le grandi per cifre importanti. D’altronde molta dell’arte commercializzata in Italia serve per pulire i soldi che i collezionisti evadono, il che è sempre meglio per il sistema che mettere i quattrini in Svizzera. E state sicuri che per regolarizzare la cosa non basterebbe certo l’Iva al 4% come da più parti si chiede.

E Giorgione si mangia tutti i soldi dei giovani

Si sa che il ferro va battuto fino a quando è caldo, come recita il vecchio adagio. E d’altro canto la mostra di Giorgione è stato un successo a Castelfranco Veneto questa primavera, con code di visitatori interessati a vedere i suoi dipinti nel rinnovato museo della sua città. Nel frattempo si è messa in moto un po’ di economia, un po’ di flash sui politici che hanno cavalcato l’onda, e poi sicuramente qualcuno avrà raccolto un po’ di stimoli.

Appuna passato qualche mese che un anche Padova, la città che conserva due tavolette del Zorzon, avrà la sua mostra sul maestro veneto presso il Museo degli Eremitani. Il pretesto è una nuova interpretazione della celeberrima Tempesta, della quale si propone una lettura differente e nuova rispetto alla tradizione. Il che, a nostro avviso, considerato che sono passati solo quattro mesi dalla chiusura dell’esposizione precedente, ci pare assolutamente esagerato e fuori luogo. Fuori luogo perché la mostra è a meno di cinquanta chilometri di distanza dalla precedente, ed esagerato perché per una proposta scientifica di questo tipo sarebbe bastato un convegno.
Il costo opportunità di questa mostra è poi elevatissimo. Cosa si poteva fare con tutti quei quattrini – che proprio pochi non sono – per restaurare altre opere antiche o sostenere i giovani artisti emergenti? E invece no, siamo solo in grado di fare celebrazioni di morti celebri (il 2010 è il cinquecentenario della morte). Di costruire il futuro non c’è proprio voglia.

La Corte dei Conti blocca Supersgarbi alla Soprintendenza

Roboante bocciatura della nomina di Supersgarbi alla Soprintendenza di Venezia. La Corte dei Conti, cui aveva ricorso la UIL, si è opposta alla scelta del ministro Bondi poichè esistevano già internamente all’amministrazione figure con i requisiti (nella fattispecie Fabrizio Magani, già reggente nella città lagunare, e Isabelli Lapi, del fiorentino Opificio delle Pietre Dure) e la procedura di eccezionalità con cui è stato assegnato l’incarico al chiacchieratissimo critico ferrarese non avrebbe delle ragioni sufficienti.
Insomma il classico fatto di procedura e discrezionalità. Niente invece contro l’opportunità di assegnare l’incarico ad un dipendente di stato infedele e già condannato. Scommettiamo che alla fine l’avrà vinta il prepotente Vittorio?
Disgusto a go go. 

Resca, i Bronzi di Riace e i bonzi del patrimonio

“I Bronzi di Riace non si muovono”. Questa in sintesi la risposta di Simonetta Bonomi,  Soprintendete di Reggio Calabria, alla proposta di Mario Resca di portarli in giro (per il mondo? per l’Europa?) per farne degli strumenti di promozione del nostro territorio. Il Direttore Generale per la Valorizzazione del Patrimonio aveva spiegato come le due opere fossero nel museo “a prendere la polvere”, mentre in realtà sono in restauro, come si può vedere qui (restauro che può essere seguito anche dai visitatori).
Se quella di Resca pare una boutade (la media di visitatori al Museo Archeologico di Reggio dove sono ospitati è negli ultimi anni poco sotto le 130mila persone l’anno, a quanto si legge nel sito dei musei calabresi), è vero però che una gestione più manageriale e meno conservatrice dei musei gioverebbe. “Spesso le opere vengono richieste in prestito solo per fare eventi mediatici senza alcun progetto scientifico”, questo il pensiero dei Soprintendenti. Ma è pure vero che senza spettacolo non si mangia, e che una circuitazione delle opere che non hanno problemi di conservazione gioverebbe a tutti.
L’idea di base su cui ci si scontra è se il patrimonio artistico possa o meno essere utilizzato per generare profitti grazie alle leve di marketing e comunicazione. Io, candidamente, sono favorevolissimo. Il che non vuol dire di portare Raffaello alle sagre, ma pensare che il patrimonio sia una cosa disponibile e non un valore indisponibile e solo da custodire.
Sottrarsi all’aspetto mediatico anziché sfruttarne le potenzialità, nell’arte come in altri settori, è solo nocivo. E infatti la risposta giusta della Soprintendente di Reggio sarebbe dovuta essere: “ma perché non facciamo una mostra, con prestiti importanti da altri musei, a Reggio Calabria, così valorizziamo la collezione e i nostri tesori? Sarei felicissima se il dott.Resca ci desse una mano a trovasse i fondi necessari”.
Ma invece la Bonomi è caduta nella provocazione. Così siamo presi tra gli opposti massimalismi di chi essenzialmente vuole custodire e di chi invece pensa solo al marketing, senza capire che una terza via è possibile (Louvre dove sei?). E ci converrebbe davvero.

Jiri Kovanda: la forma è stata un ripiego

Tempo fa ho avuto il piacere di fare una conversazione con Jiri Kovanda, uno degli artisti concettuali più attenti e raffinati sin degli anni Settanta, giustamente riscoperto nell’ultimo periodo per l’interesse della sua ricerca sulla gestualità, sulla spazialità del corpo e sulle implicazioni scultoree che intercorrono tra individuo e contesti aperti.
L’avevo conosciuto ancora nel 2007, in occasione della sua partecipazione al festival Tina-B di Praga con un’azione pubblica. Nello stesso luogo dove trent’anni prima aveva realizzato una performance in cui grattava un muro con le unghie delle sue mani (era un modo per interrogarsi sulle difficoltà di vivere in un paese senza democrazia), si era seduto a per limarsi le unghie, con molta nonchalance, quasi a testimoniare la condizione di impotenza dei tempi attuali, in cui siamo costretti ad essere semplicemente spettatori della realtà, di decisioni e scelte prese altrove: l’artista – ma la condizione è comune alla classe intellettuale, anche della nostra nazione – non è più in grado di incidere sul tessuto sociale e non gli rimane che farsi la manicure.
Tra le tante cose che mi hanno colpito nelle sue parole, c’è l’analisi di come i paesi comunisti dell’Est Europa (in cui esisteva un estetica realista di regime) abbiano condizionato gli artisti costringendoli a lavorare in vere e proprie nicchie. Si sono così sviluppate le pratiche performative, azioni delle quali non rimane traccia visibile, e parallelamente si è registrata una grande l’attenzione agli aspetti concettuali e formali in qualche modo minimalisti, incapaci per l’autorità politica di avere effetti critici sul regime.
Così, incredibilmente, la mancanza di libertà ha reso la ricerca ancora più spinta e pregante. Peccato che la tradizione storiografica sull’Europa orientale non sia altrettanto ferrata di quella sull’Europa occidentale o americana: bisognerà evidentemente discuterne ancora.
E comunque era la prima volta in cui sentivo parlare degli aspetti formali come un ripiego. Chissà cosa ne pensano i nostri giovani artisti ammazzati dal’accademismo da compitino concettuale.

Gli italiani? Gran scrocconi al museo

Un’inchiesta uscita ieri su Repubblica spiegava come oltre metà dei visitatori dei musei italiani nel 2010 non abbiano pagato il biglietto (il 54.8%). Sono essenzialmente anziani over 65, ragazzi non ancora 18enni, giornalisti e portatori di handicap; poi ci sono le persone che approfittano delle giornate gratuite che promosse dal Mibac e da altri enti per avvicinare le persone al nostro patrimonio. Una situazione definita “sconcertante”, cui ad esempio Gianfranco Cerasoli (segretario Uil per i Beni Culturali), propone di trovare rimedio facendo pagare un euro ai 17.7milioni di scrocconi. Ovviamente contrarie le associazioni di consumatori per intuibili motivi.
Peccato che nessuno invece si occupi di un fattore chiave: perché gli italiani vanno al museo così poco? E poi perché ci vanno soprattutto scolaresche e pensionati in gita mentre la fascia centrale di età è reticente?
La risposta è semplice: i musei italiani sono spesso cosa da formalina che spesso spendono tutti i soldi per il mantenimento della struttura né hanno le possibilità economica e le idee per avvalorare le collezioni che possiedono (e molti dei musei piccoli hanno collezioni non di pregio). Spesso sono inutilmente aperti aumentando solo i costi e, cosa che l’indagine non dice, a fronte di un gran numero di siti diffusi nelle nostre piccole cittadine – è la vera ricchezza del nostro patrimonio – solo pochi hanno dei numeri interessanti di visitatori.
E allora perché non metterli in rete e sviluppare delle sinergie per stare al passo con i tempi e far conoscere il nostro petrolio? Forse a quel punto sarà lecito chiedere qualche euro per l’ingresso, se si spiega che, sotto casa, molto spesso c’è un tesoro.

Beatrice e la pittura? Da evitare come la peste

Se sei un artista che usa la pittura sei più sfigato di un artista concettuale. Se poi hai fatto una mostra curata da Luca Beatrice allora sei proprio commerciale con ricerca zero. Non ci interessa il tuo lavoro, grazie, torna pure al cavalletto.
E’ indubbiamente questo il pensiero di molti dei benpensanti ed intellettualissimi curatori italiani à la page (ma indubbiamente anche di tanti artisti). I geni – che Luca Rossi direbbe riuniti nella diade Mousse/Kaleidoscope – si gasano infatti per l’ennesima pratica concettuale masturbatoria senza poi rendersi conto che l’approccio alla ricerca può avvenire con colore e pennello. E poi ciao ciao senza nemmeno guardare i lavori se ti è capitato di lavorare con curatore sputtanato. Al massimo uno sguardo con sufficienza e sotto un altro.
Non voglio certo dire che il lavoro di Beatrice mi piaccia né tantomeno difenderlo (ha realizzato una Biennale vergognosa per gli spazi e la scelta di alcuni degli artisti). Però smettiamola di dire che la pittura è passato e di considerare un artista solo dal fatto che abbia fatto una mostra con questo o piuttosto che quel critico. Siamo obbiettivi e con onestà guardiamo alla ricerca, senza fare di tutta l’erba un fascio. Tanto più perché di fasci – in questo paese sempre più arretrato, brutto e cialtrone – siamo pieni.