Vernissage alla parigina

Ho avuto il piacere di curare una mostra a Parigi, appena inaugurata ieri (se ne avete voglia trovate qui il testo ed alcune informazioni sugli artisti). La galleria per cui ho lavorato è situata nel Marais, uno dei quartieri più interessanti e culturalmente attivi della capitale francese, cui è stata data una nuova immagine a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con uno di quelle operazioni che risultano quasi impossibili da noi in Italia.
Urbanistica a parte, ieri tutte le gallerie della zona hanno fatto il vernissage insieme, il che ha portato un gruppo enorme di persone a passare nello spazio. Due/tre volte all’anno infatti l’associazione dei galleristi promuove un’inaugurazione collettiva, con evidenti vantaggi per le gallerie ma anche per collezionisti e per il pubblico. La parola magica è ovviamente condivisione.
Ma la cosa che mi ha stupito di più è stato la grande presenza di un pubblico generico, al di fuori cioè di quello di collezionisti e professionisti del settore (artisti, critici, giornalisti). Un sacco di persone, palesemente non addetti ai lavori, è passata in galleria e ha fatto domande informandosi sulla mostra, sulle opere e sugli artisti: cioè l’arte contemporanea non è la solita riserva indiana per fighetti, ma è popolare, quanto meno nel senso che le persone non la percepiscono distante e autoreferenziale.
Noi invece in Italia “continuiamo così, facciamoci del male”.

De Chirico e la parabola dell’italiano disonesto

Non riesco a capire perché un’istituzione sostanzialmente seria, come il romano Palazzo delle Esposizioni a Roma, perda tempo ad ospitare una retrospettiva (a cura di Bonito Oliva), su Giorgio De Chirico con lavori che, pur autografi per mano, sono moralmente e concettualmente falsi. La natura secondo de Chirico – il titolo a dir il vero è spuntato fin quasi a mettere d’imbarazzo – è una mostra su un artista che, dopo essere stato un vero genio della pittura negli anni giovanili, è riuscito nella maturità a disonorare il frutto della propria ricerca.
Nel secondo dopoguerra De Chirico aveva infatti con una certa frequenza iniziato a copiare i propri quadri metafisici, ma anche a retrodatare quelli che faceva per poterli vendere come giovanili: quindi da un lato riproponeva la maniera degli anni Dieci e Venti, dall’altro si autofalsificava arrivando perfino a non rendersi più conto lui stesso se l’opera fosse originale o copia. A quel punto il pasticciaccio era fatto.
Ma che credibilità può avere un simile uomo disonesto? Come possiamo tollerare questa pratica intellettualmente truffaldina dedicandogli una mostra con lavori posteriori agli anni Quaranta (seppure con l’accortezza di segnalarne l’erronea datazione furbesca). Ci piace celebrare il famoso, il noto, il vincente, e non sappiamo mandare a fanculo i vecchi tromboni che ci fottono.
La parabola di de Chirico è esattamente la stessa del nostro paese. Che disgusto.

McCarthy a Milano. Fondazione Trussardi fa ancora centro

Poco importa che ci fossero i direttori museo, i curatori international, gli artisti che fanno numeri alle aste – come Cattelan – e tutto l’ambaradan schierato del mondo dell’arte più ricco (sia detto con molta invidia da parte del sottoscritto). La mostra di Paul McCarthy organizzata dalla Fondazione Trussardi in centro a Milano ha qualcosa di eccezionale. La sede (un palazzo in restauro), l’artista, che alla fine è forse anche stancante e barocco, con il suo linguaggio bulimico che genera un ipertrofico e paratattico casino.
Certo una mostra così è vecchia di una decina d’anni, si potrà obbiettare. Ma conviene ricordare che a Milano nessuno l’ha fatta prima. E poi questa città ha smesso di avere una politica culturale vent’anni fa, con il vuoto di Tangentopoli. Non c’è che dire, anche questa volta Fondazione Trussardi merita i complimenti.

Macro & Maxxi. La sfida è ora

Non c’è che dire. La doppia apertura museale romana Macro/Maxxi ha dimostrato quello che forse si sapeva già: gli italiani, se vogliono, ce la fanno a far qualcosa di buono, anche se molti remano contro.
Non vorrei però che la modalità scelta per la città fosse troppo semplicisticamente ispirata al modello Bilbao: faccio un museo da meraviglia in una città sperando che automaticamente cambino le sorti del luogo. Infatti fortunatamente Roma non è depressa come la Bilbao degli anni Ottanta (essendo in buona sostanza una città dal passato florido ed invadente che vive avvolta dalle ragnatele della propria storia) e nel contempo la città è anche un centro economico e culturale di primo livello; parimenti sono disponibili numerosi capitali di provenienza bancaria e qualche volta pure le istituzioni riescono a lavorare.
Roma non ha cioè immediato bisogno di Macro & Maxxi: queste due istituzioni infatti non appartengono (solo) alla città bensì al paese tutto. Costruito il motore, Roma deve a questo punto mettere a disposizione il combustibile per andare altrove. Per produrre innovazione, cultura del cambiamento, interesse, partecipazione. Dopo i fuochi d’artificio dell’inaugurazione la vera sfida è ora.

L’abbuffata romana

E’ una grande abbuffata quella che si presta ad essere consumata a Roma questa settimana. Dopo anni di attesa aprono il Maxxi, il Macro, e per gli instancabili camminatori non paghi di aver visto i musei c’è pure la fiera Road to Contemporary Art. Ovviamente ci sono pure le gallerie, le conferenze, i brunch, le cene, le feste e tutto il resto. C’è insomma da rimanere storditi.
Per una volta molto del mondo internazionale dell’arte ci guarderà senza ridere preventivamente, solo per capire se noi italiani ce la faremo oppure no. Per capire se sarà insomma il classico fuoco di paglia o davvero un salto in avanti per il sistema dell’arte italiano.
Nessuno lo sa ancora intanto abbuffiamoci, semel in anno. Nel giro di un lustro capiremo se la festa è appena iniziata o se sarà il canto del cigno. Inboccallupo Italia.

Sgarbi soprintendente a Venezia? Per Bondi è sì

La prima cosa che ho pensato è che al peggio non ci sia mai fine. La seconda che il posto più appropriato per Bondi sia un convento lontano dalle cose mondane, dato che quelle poche volte che va al suo ufficio in via del Collegio Romano – è il ministro più assenteista: Brunetta dove sei? – commette cappelle clamorose. Caro ministro, la prego, stia lontano dal Mibac e si dedichi piuttosto a seguire quel sentiero illustre tracciato da Francesco Petrarca: scriva poesie, non importa se saranno dedicate a sua altezza il re dei nani; sarà sempre il male minore.
Contrariamente infatti al primo nome uscito di Fabrizio Magani, già responsabile della Soprintendenza di Verona, il ministro ha tirato fuori dal cilindro il nome di Vittorio Sgarbi. Proprio lui che sarà responsabile dell’italico padiglione alla prossima Biennale. Proprio lui che tutto sa di arte da Fidia a Cattelan. Proprio lui che è stato condannato nel 1996, con sentenza definitiva del Pretore di Venezia, a 6 mesi e 10 giorni di reclusione per falso e truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato (era dipendente ministeriale proprio nella città lagunare).
Evidentemente per Bondi quel curriculum da uomo disonesto è adatto per il ruolo. Che ministro per bene.

Larry Gago è Ronald Mc Donald’s!

Penso di avere avuto l’intuizione in grado di cambiare la storia dell’arte e quest’anno mi aspetto il Pulitzer per il giornalismo. Indovinate perché: ho scoperto chi c’è sotto le spoglie di Ronald Mc Donald’s, il famigliare pupazzo che accompagna ogni ristorante della catena nefast food. E’ lui, Larry Gago, il mitico gallerista californiano di origine armena.
Sono infatti dieci gli spazi posseduti dal nostro clown, come riportano i giornali, ed è ormai chiaro come operi nei paesi in cui necessita aprire una galleria. Larry Gago – che esattamente come il suo alter ego femminile ama i travestimenti – si mette i panni da Ronald Mc Donald’s per ambientarsi qualche settimana mentre viene aperto un nuovo ristorante. Poi si lancia all’acquisto di un galleria, e sfruttando abilmente le reti del marketing della multinazionale dell’hamburger porta i clienti più ricchi e freakettoni a vedere le opere. Tra un double cheese ed un happy meal piazza così i suoi lavori più costosi. Talvolta si fa i panini per sé vendendo le opere che lui stesso ha comprato, grazie ad amico che fa le aste, ma per il solo piacere di vendere e di dire al mondo quant’è buono il bacon col cetriolino ed il ketchup. Che delizia!
Misteriosamente non ha odore di french fries, pur trattando spesso fritto misto. Che sia la benedizione della Cia?

Il Pompiere della Sera ed il bavaglio(lo)

Dicono che Il Corriere della Sera sia il più importante quotidiano del nostro paese. Al di là del fatto che usare la parola paese per l’Italia pare esagerata, il quotidiano Rcs non perde invece l’occasione per dimostrarsi l’organo della cattiva borghesia italiana. Quella insulsamente conservatrice e che malpensa, poiché difendere i propri interessi vale ben di più di amministrare e mettere in piedi una nazione, di esserne cioè quella che pomposamente una volta si diceva “classe dirigente”.
Che dire ad esempio del pezzo dell’altro ieri di Ostellino su l’insostenibile leggerezza dello stato sociale, prontamente confermato nella tesi dalla pen(n)a puntuta di Panebianco? O della posizione prona alla Maria Goretti (ben più dirette le prese di posizione della Stampa o di Repubblica) in merito al bavaglio che il Parlamento sta mettendo alla stampa?
Massì, non rompiamoci le palle a dare la caccia agli inquisiti e a fare i reporter d’assalto, deve pensare De Bortoli. Siamo il quotidiano più letto, abbiamo amici importanti tra i grandi che lombardi che contano e consiglieri d’amministrazione che non vogliono casini. Per piacere stiamocene seduti a pranzare con il sushi e bollicine della Franciacorta. E per l’amor di dio non si racconti che l’aria è ammorbata dei peti di una classe politica vergognosa. E per rispetto del bon ton, teniamoci stretto il bavaglio(lo).
Mi viene il vomito.