Una didascalica questione di etichetta

Dare un nome alle cose è spesso fondamentale nell’arte contemporanea. Sia che il titolo sia funzionale alla poetica (perché ne costituisce cioè un elemento chiave) che, al contrario, non incida sulla percezione e comprensione del lavoro.
Nella pratica allestitiva questo significa che l’osservatore deve essere messo in grado di vedere il nome dell’opera; cosa che, per supposta figheria concettuale – cioè sciatteria e supponenza – spesso non avviene. Sempre di più questo capita nelle fiere e pure nei musei. Ma se nelle fiere l’arte ha spesso delle logiche da supermercato (benché nome, provenienza e perfino prezzi di zucchine o dei pelati siano ben più chiari) che sono comunque difficile da digerire, irrita che i curatori non ci pensino.
Mi sono capitate mostre con etichette dai font illeggibili se non con monocolo da miniaturista; altre in cui le etichette erano a trenta metri, il che, come si può immaginare fa fare solo casino. Altre addirittura in cui non c’erano dato che era tutto “Untitled”.
Ragazzi, un po’ di umiltà no?

Auguri Gillo, uomo libero!

Ho avuto la fortuna di conoscere Gillo Dorfles grazie agli amici di Trieste Contemporanea. In maniera particolare mi è capitato di pranzare con lui un paio di volte, una delle quali – in occasione del festival Comodamentetête à tête, in compagnia di una cara amica. In quell’occasione abbiamo parlato di politica e libertà di stampa: “C’è poca libertà nel nostro Paese”, era quello che cercavo di sostenere io, mentre lui candidamente mi ha spiegato che in realtà il vero problema è che non ci sia più, poiché qualcuno c’è l’ha scippata, seppur dolcemente. “Pochi si sono accorti che sono stati derubati, anzi le direbbero di essere più liberi di trent’anni fa, dato che ci hanno ormai convinti che il campo di tutte le nostre disponibilità sia ampiamente cresciuto. La libertà di stampa che abbiamo noi, confrontata con altri paesi, è perfino imbarazzante”.
Non so se avrò ancora la fortuna di conversare con quest’uomo nato proprio centro anni fa quando a Trieste c’era ancora l’Impero Asburgico. Ma queste parole per me saranno per me indelebili. Tanti auguri Gillo, per il suo secolo di vita all’insegna dell’anticonformismo.

Umanità in coda

Nei giorni che hanno preceduta la Pasqua c’è stato il lancio del nuovo aggeggio elettronico della Apple per il quale i soliti pecoroni americani hanno fatto ore di coda. Si sa che il consumismo spinto di quel paese ha i suoi riti, ma fa proprio tristezza vedere i drogati di tecnologia in fila per una novità che qualcuno ha immaginato (e programmato a suon di dollari spesi in marketing) possa cambiare la vita.
Negli stessi giorni qui da noi altre persone facevano la fila per vedere Caravaggio o più modestamente il Cima, mentre era impossibile entrare a vedere il Giorgione senza prenotazione (come puntualmente racconta la collega Pepe). Anche qui pubblicità e modello imitativo hanno fatto un buon lavoro, dato che
all’improvviso la pittura antica è diventata cosa da figaccioni che tutti vogliono.
Ormai tra la cultura o l’iPad non fa più differenza. Producono entrambi un’umanità in fila indiana per spendere. Anche se, di questo si può essere certi, qualcuno in Italia cercherà di passare avanti.

Roberto Cota ad Artissima

Non vedo l’ora di andare alla prossima conferenza stampa di Artissima a Torino per vedere Roberto Cota parlare di arte. Magari non si farà nemmeno vedere, ma lo vedrei proprio bene in mezzo al pubblico fighetto dell’arte, lui che è una verace e schietta camicia verde con belle amicizie artistiche come il concettuale Calderoli (il geniale ma pentito uomo della leggelettoraleporcata, possessore di un maiale dalla facile diuresi nelle vicinanze di moschee), il situazionista principe dei celoduristi (beato lui) Bossi I, ma anche il fu smilzo padano e il posthuman Borghezio (filosofo dal raro e raffinato eloquio).
Se nelle parole dell’ex governatrice Bresso Artissima stava diventando sempre più un’occasione culturale con taglio meno elitario, simile ad un festival, non vedo l’ora che Cota proponga di trasformarla in Bagnacaudissima.
Ho i brividi.

Depressione MiArt

La prima impressione è sconsolante. Una fiera piccola, con pochi espositori, ma non per estrema selezione bensì perché è stata letteralmente disertata dai galleristi. E poi il pubblico che, nemmeno domenica, c’è stato: nei corridoi si poteva giocare a calcio. Che dire delle opere esposte se nemmeno i pezzi da novanta hanno brillato? Anzi, c’erano lavori di una mediocrità lancinante. Il risultato è stato una fiera è inguardabile. E ci dispiace, ma questa fiera dà l’impressione che nemmeno gli attori che vi hanno partecipato credano più a questa recita.
Le cause vanno ricercate evidentemente nella città, nelle sue dinamiche culturali provincialissime, nella mancanza di piani strategici, nel lavoro di galleristi e critici con la puzza sotto il naso che, anziché schiudersi al mondo, si sono radunati nella solita cricca autoreferenziale. Per dirla alla Pulp Fiction, “tutti in cerchio a farsi i pompini a vicenda”.
Chiudiamolo questa fiera. Non se ne sente proprio il bisogno.

Scommessa MiArt

Collezionisti, artisti e galleristi si daranno appuntamento al MiArt questo fine settimana. Non so se l’affermazione corrisponda al vero. Certo ci sono le elezioni e quindi molti milanesi staranno a casa e, almeno domenica, un passaggio lo faranno, anche solo per salutare amici e conoscenti.
Ma la vera domanda è: Milano ha davvero bisogno di una fiera? Dov’è il sistema dell’arte milanese in grado di esprimere un evento di mercato di livello? O si rassegnerà ad essere il terzo o quarto evento dell’anno dopo Bologna, Torino e Roma? Anche perché ArtVerona è alla calcagna…

Digital Blackout

Troppi impegni e troppi casini, e per quindici giorni sono stato senza scrivere alcun post sul mio blog. In più il mio sito personale si era bloccato per colpa di un aggiornamento di Word Press andato a puttane, e che ahimè non sono riuscivo a sistemare se non con l’intervento di un tecnico, dall’attesa proverbiale.
Non nascondo l’imbarazzo a non avere una vita sul web: è come diventare improvvisamente asociali, misantropi, a starsene chiusi in casa. Il che, non è molto raccomandabile, soprattutto per chi fa vita di relazioni.
Ora, finalmente, eccoci di nuovo qui. La vita ricomincia in primavera.

La torta mimosa

Per oggi e domani le donne saranno importanti. Poi da metà della settimana prossima continueranno a guadagnare quasi il 20% in meno degli uomini, ad essere maltrattate da mariti e fidanzate, picchiate e violentate in casa e dagli sconosciuti, prese a pesci in faccia dai politici, dai colleghi e dal clero maschilista.
Quanta retorica deprimente per la festa dell’otto marzo. Quante mimose consegnate con sorrisi di circostanza. E poi comuni e assessorati che si dimostrano attivi con iniziative per le donne, novelle creature da proteggere come il panda gigante o la foca monaca.
Sarà la festa delle false pari opportunità, come sempre. E l’unica mimosa che mi permetto per l’altra metà del cielo – concedetemela – è quella con il pan di spagna, panna, guarnita con la frutta.
Tenete duro, tanti auguri.