I giornalisti stacanovisti (del buffet)

Lo ammetto. Sono tra quelli che, se il cibo ed il vino lo meritano, non si tira indietro dal buffet alle inaugurazioni. Ad esempio conservo ricordi di rinfreschi luculliani al Mart di qualche anno fa con tanto di risotto alle mele renette servito su forme incavate di Parmigiano (pardon, Grana Trentino), carne salada, e perfino grappa invecchiata servita con cioccolato fondente.
E poi ho fatto al buffet conoscenze con persone strepitose: non c’è di meglio che scambiare impressioni su una mostra con un bicchiere in mano, preferibilmente il quinto o il sesto, in modo di essere sciolti. Ricordo poi frotte di persone venire alle inaugurazioni di Villa Manin (quando c’era ancora Bonami) solo per approfittare del tocai e del frico. Che volete farci, noi italiani si magna.
Quelli che non sopporto sono invece i prevaricatori, quelli che non rispettano la fila per prendere prima di te una cucchiaiata di qualsiasi cosa edibile. C’è ad esempio un gruppo di giornalisti che viene da Milano e che trovo puntualmente a tutti i buffet delle mostre del norditalia. Sono degli stacanovisti del piatto. Hanno un’età tra i 50 ed i 70 ed una voracità da cavalletta con il verme solitario, ma soprattutto, hanno sempre una scusa per mangiare e passarti avanti. Mammamia, che spettacolo indegno. C’è da vergognarsi a fare i giornalisti.

Cosa nasconde la mania dell’anniversario

L’anniversario del Futurismo. Poi quello di Giorgione e Caravaggio. Settimana scorsa quello del Cima da Conegliano, l’anno prossimo l’Unità d’Italia. Anche Jacopo Bassano, uno dei prìncipi della pittura veneta, avrà il suo: tra il 2010 (si è appena inaugurata la sua prima mostra) ed il 2012, essendo la sua data di nascita incerta.
Le ragioni scientifiche delle mostre invece molto spesso non ci sono. Si vociferano capolavori inediti e prime esposizioni italiane, ma si scopre poi che è sempre la stessa sbobba riscaldata. L’occhio ci guadagna – non c’è che dire -, ma per una volta siamo seri e chiamiamolo intrattenimento. Più intelligente delle mille cazzate di Zelig, e, di sicuro, meno noioso dell’ennesimo reality. Il che, nel nostro contesto italiano, è già molto.

Sgarbi è come Ben Laden. Parola di Bonami



“L’arte contemporanea sta a Sgarbi come l’America a Bin Laden”, ha dichiarato Bonami in una pepata intervista uscita su The Art Newspaper, spiegando come la sua guida del padiglione nazionale sia “molto vicina ad un attacco suicida alla dignità italiana”. E questa è una grande verità. Come possiamo non temere l’isteria intellettuale ed il gusto incredibilmente (e vomitevolmente) passatista del critico ferrarese? Bravo Francè, hai detto bene.
“Sfortunatamente Sgarbi ce lo meritiamo”, prosegue poi Bonami, con la sua irrefrenabile linguaccia. Giusto pure questo. Ma il vero quesito a mio avviso è questo: ci meritiamo Bonami?

Giovane che guarda Giovanbattista Cima

Giovedì sono stato all’anteprima della mostra di Cima da Conegliano. Quarantacinque opere, con dei pezzi da capogiro. I migliori a mio avviso sono i San Girolamo penitenti e poi le tavole di piccola dimensione, tra cui un meraviglioso tondo con Endimione Dormente, conservato alla Galleria Nazionale di Parma.
Mi sono visto in quel lavoro. Non tanto per l’intensa immedesimazione col soggetto (quella di Giulio Paolini per Lotto per intenderci), ma perché l’opera è sotto plexiglas e ci si riflette pesantemente. Vi saranno ovviamente ragioni di sicurezza, ma pittura e vetro vanno difficilmente d’accordo: perché devo soffrire? Preferirei forse non vedere piuttosto che una visione disturbata.
Penso che vedere sia un privilegio che non si debba negare a nessuno. Vedere me stesso tra le pennellate è invece un’irritante perdita di tempo.

La cultura è improduttiva?

 

In un bel articolo uscito su la Repubblica giovedì, Salvatore Settis fa un’analisi in cui spiega come la tendenza a tagliare i fondi alla cultura – tanto più in un frangente di difficoltà economica – sia comune a tutte le forze politiche del nostro Paese. “Destra e sinistra troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell’Economia di Crisi”, scrive. Settis cita poi un intervento di Vincenzo Cerami su l’Unità in cui l’intellettuale spiega come la classe politica e la classe dirigente non abbiano una “cultura della cultura”. Entrambe infatti non hanno mai percepito come “le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola abbiano una funzione alta e insostituibile nella società”. In particolare perché “sono […] il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all’innovazione e all’occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme”.
È un destino amaro infatti occuparsi di cultura qui in Italia. Non c’è la consapevolezza che la cultura sia un’attività produttiva, con le potenzialità per costruire innovazione, crescita e sviluppo. Invece cultura, arte e musica – nella percezione comune di politici, classe dirigente e società – sono solo improduttivo passatempo da lacchè o intrattenimento da sfigati topi da biblioteca.
Per onestà va però detto che per troppo tempo (e tutt’ora!) gli intellettuali e tutti coloro che si sono occupati di questi settori hanno evitato di sporcarsi le mani con l’economia vera, preferendo una posizione elitaria e purista, ma da elemosinanti che bussano alla porta del potente di turno, piuttosto che rivendicare un ruolo attivo e consapevole e con dinamiche economiche reali.
Il conto lo abbiamo pagato carissimo. Forse è giunta l’ora di cambiare, veramente.

Meglio il porno che Sanremo

 

Sta per finire la settimana di Sanremo. Quasi non me ne sarei accorto se giornali, internet e radio non avessero parlato d’altro nella sezione di cultura o spettacoli. A un livello da follia.
Prima Morgan il drogato impenitente, poi il rampollo savoiardo che canta con non so chi, poi la conduttrice troppo popolana, poi Carla Bruni che fa la sborona e non ci va, e chissà quali altre cagate alla ricerca dell’ennesimo (finto) scandalo… Ora andranno avanti qualche giorno con interviste della serie “che emozione vincere a Sanremo”, con il carrozzone sui partecipanti secondi, eccetera.
Quanto mi piacerebbe che in questa settimana, anziché questo spettacolo osceno, Rai Uno avesse trasmesso un bel e moralissimo porno d’autore, magari di Andrew Blake. Da dare una bella scossa a questo pubblico di persone – in coma quasi irreversibile – che ama seviziare il proprio cervello con cazzabbubbole da brivido.

 

Gli scatarri di Beatrice sull’Arte Povera

È da un po’ che Luca Beatrice se la prende con i critici più bravi di lui, per questo o quel motivo, purché siano di sinistra (d’altronde deve pure saldare i debiti intellettuali con Bondi che l’ha chiamato alla Biennale, no?). Uno dei suoi bersagli preferiti è Germano Celant, contro cui ha scritto spesso, recentemente anche su il Giornale. In sostanza, spiega Beatrice, gli artisti dell’Arte Povera ed il critico che ha teorizzato il movimento agiscono come una vera e propria lobby che “ha costituito una rete invalicabile di protezioni che nessuno è in grado di scalfire […] e ha goduto della connivenza politica grazie all’abilità del curatore sia di rispolverare quei termini populisti che un tempo solleticavano i radical chic, sia quei capitalisti così disprezzati ma che hanno permesso all’Arte Povera di fare il bello e il cattivo tempo”. La tesi è affascinante e non è priva a tratti di verosimiglianza, dato che Celant  & co. appartengono in qualche modo ad una casta – su questo ha ragione -, ma Beatrice tace il fatto che la posizione di prestigio dei poveristi è maturata sul campo e con la qualità dei lavori e della critica, e non è certo frutto della solita cricca di furbetti di sinistra. Altrimenti, come lui stesso ammette, come sarebbe possibile che “il sistema globale concordi nel ritenerla l’unica proposta italiana internazionalmente valida dopo il Futurismo”? (E comunque, caro Luca, ogni tanto confronta un testo scritto da Celant con uno magari di quelli che fai te, ok?)
Beatrice poi sbanda palesemente e paurosamente arrivando a dire che “l’Arte Povera ha impedito all’arte italiana di crescere producendo una serie di cloni fuori tempo che non ha alcuna possibilità di successo”, e che la sua supremazia “ha cancellato qualsiasi altro linguaggio e forma”. Le affermazioni sono palesemente disoneste, ma, suppongo, devono evidentemente dischiudere le porte di qualche ministero o i portoni di qualche assessorato (magari in Piemonte, se l’attuale giunta non fosse confermata).
Dispiace invece che rimanga affondato in questo accumulo di fesserie un’osservazione importante in merito al grande progetto multimuseale (e multimilionario) dell’anno prossimo dedicato all’arte povera. Era davvero necessario? Ci sono istanze critiche, estetiche, filosofiche sul movimento che hanno necessità di essere ancora eviscerate? E poi, in fin dei conti, gli artisti che appartengono al movimento non godono comunque di una prestigiosa copertura espositiva nel nostro Paese? Non era meglio pensare a qualcosa di nuovo per questa Italia sempre più vecchia ed intellettualmente sempre più puttana?

Bonami il calviniano della legion d’Onore

Ho sempre trovato simpaticamente calviniano Francesco Bonami. Un po’ Marcovaldo, un po’ Il curatore inesistente, un po’ Il critico dimezzato. Non nascondo che ho nutrito grande affetto nei suoi confronti per le mazzate prese da Sgarbi alla Sandretto: che dispiacere vedere l’alfiere del contemporaneo prenderle dal cattivo e vigoroso parolaio passatista! Se si aggiunge poi il fatto che abbia pure fatto delle cose non brutte e che la sua Biennale non è stata certo la peggiore del decennio, possiamo dire senza sbagliarci che ci sono curatori ben peggiori. Insomma, forse per intervalla insaniae ma qualcosa di buono lo ha fatto pure lui (tacciamo per onor di patria la sua tendenza all’inciucio con qualche galleria amica).
Colgo con sorpresa la notizia del conferimento proprio a Bonami della Legion d’Onore, prestigioso riconoscimento assegnato ad un parterre de roi di personaggi del mondo della cultura da parte della presidenza della Repubblica Francese. Evidentemente non siamo l’unico paese in cui conta essere amico di. Francesco chapeau, hai dei buoni amici.