Le prime uscite sulla Sgarbi-Biennale

Devo ammettere che le uscite di Vittorio Sgarbi sulla Biennale mi hanno stupito piacevolmente. Affidare il padiglione italiano ad insigni uomini di cultura vuol dire assumersi i rischi di mettere in mostra quanto l’arte contemporanea sia o non sia parte del sistema culturale del nostro paese. “Sono sicuro che ne uscirebbe un quadro più interessante di quanto possano dare i soliti critici, esponenti del commercio e del collezionismo di mestiere, tendenzialmente isolati dal tessuto più vivo della società italiana”, dice Sgarbi. E ha perfettamente ragione.
Perché – questo dobbiamo dircelo chiaramente – qui da noi il contemporaneo è comunque espressione di una piccola élite, o, meglio si farebbe dire, di una (mafiosa?) setta di adepti. Non ci sono confronti con gli altri paesi industrializzati, in cui produzione e idee sono sistematiche e si relazionano col complesso di attività culturali sviluppate.
Vogliamo mostrare quanto conta sul sistema-paese il lavoro fatto dal carozzone del contemporaneo? Forse molti di noi smetteranno di fare gli alteri, scoprendo non solo di essere nudi, ma di non essere nemmeno dei re.

Povero Louvre che racconta balle

E’ un pezzo da capogiro: 65 metri quadrati di pittura ad olio con oltre centoventi figure rappresentate. Stiamo parlando delle Nozze di Cana di Veronese, che fino alla fine del Settecento se ne stava all’Isola di S.Giorgio a Venezia, nel refettorio dei frati benedettini. Furono le truppe al seguito di Napoleone a prelevarlo dalla città per portarlo a Parigi come bottino, e a nulla valsero gli sforzi di Antonio Canova per ricollocare quel pezzo meraviglioso nel convento originale. Sono notizie molto note e che appartengono alla storiografia.
In una recente visita al Louvre ho constato con sorpresa che le schede esplicative della tela in sala raccontano come il lavoro del Veronese “sia stato asportato da Venezia nel 1797,  in virtù del trattato firmato dal Direttorio con la Repubblica di Venezia”. Peccato che la Repubblica non esistesse già più.
Quel capolavoro i francesi lo hanno rubato, il che ne dimostra ancor di più la preziosità, ma non lo vogliono dire. Capisco la grandeur, ma non avrei mai detto che in un museo così importante i cugini d’oltralpe arrivassero a raccontare delle balle ai visitatori. Allons enfants de la mensonge!

A Bologna è tornato il bollino

Dopo un anno di vacche magrissime, fa tirare un respiro di sollievo vedere non solo tanta gente ad Artefiera, ma anche ricomparire i bollini a fianco le opere. Più di qualche gallerista ha venduto e l’impressione che ne ho tratto è che in maniera particolare i più coraggiosi siano stati premiati: uno su tutti Mario Mazzoli (non era comunque l’unico a mostrare dei lavori interessanti), che ha presentato delle belle opere di sound art, seppur di perfetti sconosciuti. A fine fiera il suo stand aveva tanti bollini rossi da sembrare la Pimpa. Chapeau.
Fortunatamente il collezionista medio-piccolo, di cui stupidamente Politi si auspicava l’estinzione in un’intervista rilasciata alla Rai per la scorsa edizione della manifestazione (“piuttosto che comprare un’opera a Bologna spendete 2mila euro per una borsa firmata”), si è visto. Anche perché i prezzi paiono essere più ragionevoli. Speriamo che la rondine faccia per davvero la primavera.

Arriverà ad Artefiera il convitato di pietra?

Si inaugura oggi pomeriggio – forse con troppe aspettative – Artefiera, il principale evento commerciale per chi si occupa di arte nel nostro paese. Dopo l’annus horribilis appena trascorso con la crisi economica che ha falcidiato le tasche di molte persone, è il collezionista medio che fa il mercato il grande punto di domanda. Tutti ovviamente sperano che arrivi e non sia un semplice convitato di pietra.
I prezzi un po’ più bassi e le aspettative di un’economia in leggera crescita saranno un incentivo sufficiente, oppure parafrasando Mozart, sarà “come l’araba fenice, che vi sia ciascun lo dice, ma nessuno sa dov’è”?.
Vedremo. Nel frattempo le numerose iniziative off nella città e nei musei non possono che essere di buon auspicio.

cattivi pensieri sulla nostra classe dirigente

Sono molti i cattivi pensieri che mi sono frullati in testa in seguito alla polemica della settimana scorsa sulla gestione allegra ed indifendibile del Madre, il cui direttore ha tenuto un comportamento paradigmatico sull’idea di democrazia che si riscontra nella classe dirigente del nostro paese.
Il primo è che molti di coloro che hanno un ruolo di potere non si sentono in obbligo di motivare il proprio comportamento, e di conseguenza non vogliono rispondere a domande precise sulla loro attività. Cicelyn si comporta con Guido Cabib -e tutti quelli che vorrebbero sapere, me compreso- in maniera uguale a Berlusconi con le note domande di Repubblica. Nessuna risposta vera e nel frattempo si cerca di delegittimare, anche con l’offesa chi chiede di capire: così ne esce un confronto personale che, spostando l’attenzione altrove, ha per conseguenza l’abbandono delle vere questioni. Una pratica italiana veramente vergognosa.
La seconda riflessione del mio piccolo cahier de doléances è su quanta ignoranza vi sia tra coloro che sono ai vertici delle strutture culturali. Ad esempio Cicelyn (caro Eduardo non mi abbia in odio) non si vergogna di scrivere che non conosce la Galleria Comunale di Monfalcone. Pazienza, può capitare. Solo che è un tantino grave, ma non si disperi il direttore partenopeo. Anche Bondi ha ammesso candidamente di non capire gran che di arte  (se nel tempo libero si fosse letto qualche libro o avesse sfogliato qualche rivista, anziché scrivere poesie per il nano), ma lo ha fatto pure uno che non dovrebbe essere tra i peones dell’intellighenzia come Minoli chiamato a Rivoli.
Non so se ridere o piangere.

Cicelyn, Bonami e il vizietto della produzione a braghe calate

Penso che sia il momento di finirla con la malaconsuetudine di un’istituzione pubblica che produce nuove opere agli artisti senza poi acquisirle. Tanto più se si tratta di cifre davvero importanti.
Una questione, tutt’altro che marginale,
messa sul piatto da Guido Cabib e ripresa da Giampaolo Abbondio (galleristi rispettivamente di Changing Role e Pack) nel caso della sedicente buona gestione del napoletano Madre, riguarda proprio il fatto che il museo abbia speso dei soldi per pagare gli ingenti costi materiali dei lavori senza poi esserne diventato proprietario.
La pratica in realtà è molto diffusa e prevede che l’istituzione diventi in qualche maniera comittente affidando all’artista un incarico che, per sua natura, dovrebbe essere libero nella ricerca e al di fuori delle logiche e dei vincoli di mercato. Agendo in questo il settore pubblico si caratterizza come attore in grado di mettere in atto dinamiche virtuose. Il problema nasce però quando l’opera rimane dell’artista, o, come capita molto più spesso, dei galleristi con cui l’artista lavora. Perché a quel punto l’istituzione non concorda l’acquisto dell’opera ad un prezzo ragionevole come sarebbe auspicabile? Anche nel caso di una differenza notevole tra costo e valore dell’opera, considerato il prestigio culturale che dovrebbe garantire il museo (che tra l’altro spende soldi in comunicazione, catologhi, critici, ecc.) un accordo andrebbe trovato.

Ed invece molto spesso i critici calano le braghe a compiacenti galleristi che così si trovano gratuitamente nel proprio magazzinoopere esposte in un museo: si collettivizza così la spesa per la ricerca ma se ne privatizza il guadagno. Olè! Altri esempi oltre a quelli napoletani? Le sculture di Tuttofuoco e della Pivi collocate nel parco di
Villa Manin – gestione Bonami – sono state pagate dai contribuenti friulani ma sono di proprietà delle gallerie milanesi dei due artisti (Guenzani e De Carlo). Che tra l’altro, visti i costi di trasporto non indifferenti della spirale e dello scivolo, sembra abbiano finto di dimenticarsene e siano intervenuti solo dopo la piccata telefonata del nuovo assessore regionale alla cultura…

Cattivi pensierini per l’anno nuovo

 

Caro 2010, ti scrivo perché vorrei che tu fossi un po’ meno peggiore per l’arte dell’anno appena concluso. A partire dall’alto mi piacerebbe che ci fosse un ministro dei Beni Culturali più attento e presente (e che sappia trovare per la Biennale del 2011critici più bravi di quelli che hanno curato questa appena archiviata!); assessori e politici meno invadenti e meno pasticcioni, dato che quelli competenti praticamente non esistono; amministratori più attenti a spendere i soldi nelle cose di qualità e in grado di compiere qualche scelta strategica, di cui abbiamo molto bisogno.
Non mi dispiacerebbe poi che poi l’onestà intellettuale fosse il pane quotidiano dei colleghi giornalisti ma anche dei curatori e dei critici. Anzi, fa’ qualcosa, ammazzane quattro/cinque tra i soliti fighetti dall’ego incontenibile e qualcuno dei vecchi eternamente presenzialisti: non ne sentiremo la mancanza!
Visto che ci sei, caro 2010, accoppa pure qualche artista e qualche gallerista incompetente: penso tu abbia l’imbarazzo della scelta. E non dimenticarti pure dei direttori di museo, che siano solo i bravi a rimanere, ok?
Fai il bravo, anno nuovo. Ma ho come la sensazione che anche tu mi farai incazzare…

Petizione per Rivoli. Azzeriamo le nomine

Rivoltiamo Rivoli. A questo punto della vicenda – benché personalmente non mi dispiacesse la formula bicefala con un curatore italiano ed uno internazione come era Be llini/Hoffmann – pare una necessità chiedere al CDA del museo torinese e ai due neodirettori di dimettersi. Discutibile l’abbinata, inaccettabili le modalità e le pressioni della politica.
Sono stato invitato a sottoscrivere questo appello e non posso esimersi dal farlo. Con i migliori auguri per una soluzione all’altezza della fama dell’istituzione.

 

La conclusione della vicenda per la nuova direzione del Castello di Rivoli lascia tutti gli addetti ai lavori dell’arte contemporanea, oltre che stupiti, amareggiati e delusi. Anche indipendentemente da un giudizio di merito su qualità professionale, curriculum e progetti proposti dai due nuovi condirettori, il metodo seguito per la nomina ha purtroppo confermato le preoccupazioni da più parti emerse in precedenza.
1) la ripetuta, pubblica pressione esercitata dall’assessore alla cultura Oliva ha pesantemente condizionato tutto l’andamento della procedura di nomina;
2) la nomina di Giovanni Minoli a Presidente del Consiglio di Amministrazione è stata evidentemente ispirata non da criteri di professionalità e conoscenza del settore, ma per garantire con un nome di grande impatto mediatico le decisioni del Consiglio stesso;
3) le procedure di selezione dei candidati e di valutazione dei loro progetti non sono state ispirate a trasparenza e, soprattutto, la decisione finale è stata presa da una sola persona (Minoli stesso) che ha candidamente ammesso, fra l’altro, di essere stato a Rivoli l’ultima volta nel 1985 e di non parlare l’inglese (ciò che evidentemente non rende possibile un’analisi approfondita ed oggettiva dei progetti presentati da candidati non italiani);
4) la gestione della comunicazione seguita alla nomina della coppia Bellini-Hoffmann e soprattutto le pesanti, gratuite e non smentite dichiarazioni di Minoli secondo le quali Hoffmann, con la sua rinuncia, si sarebbe comportato come “un bandito” o come “un calciatore di terza categoria” gettano un’ombra sulla statura morale e sull’adeguatezza umana e gestionale dell’attuale Presidente del Consiglio di Amministrazione del Castello di Rivoli.
Visto tutto ciò i sottoscritti ritengono che, per dimostrare dignità e correttezza, l’unica cosa che Giovanni Minoli potrebbe a questo punto fare è di rassegnare le dimissioni da Presidente del Consiglio di Amministrazione del Museo di Arte Contemporanea Castello di Rivoli.
Parimenti i due nuovi direttori Beatrice Merz e Andrea Bellini, per sgomberare il campo da ogni sospetto di nomina pilotata e non ispirata a valutazione di merito, dovrebbero anch’essi rassegnare le dimissioni cosicché un nuovo Consiglio di Amministrazione possa finalmente procedere alla nomina di una giuria internazionale e ad un reale concorso per la nuova nomina del Direttore, finalmente con criteri di trasparenza e di meritocrazia.
Solo in tal caso le sgradevoli e imbarazzanti vicende delle ultime settimane potranno dar luogo ad una vera opportunità e potranno essere di esempio per le procedure di nomina anche nel resto del Paese.