Quer pasticciaccio brutto der Castello de Rivoli (bis)

Pedo el tacon che el sbrego si dice dalle mie parti (la toppa è un rimedio peggiore del buco). A poche ore dal pasticcio del niet di Hoffmann – che Giovanni Minoli in un’intervista ad Exibart accusa di scorrettezza – finisce malissimo l’affaire Rivoli.
La poltrona vacante è stata assegnata a Beatrice Merz, che sarà pur bravissima ma fino ad ora ha seguito esclusivamente la fondazione di casa e mai nulla di internazionale (vado a memoria ma penso di non sbagliarmi). Ma che esperienze curatoriali può vantare? O forse si può scrivere nel curriculum “figlia di”? Hoffmann ha ben altro fiato nei suoi polmoni, se n’è accorta perfino Wikipedia.
Che soluzione da Italietta dei soliti amici della solita lobby. Ero tra coloro che morettianamente si aspettavano qualcosa di sinistra. Minoli ti prego, dimmi che avete esagerato con il Barolo e che domani sistemate tutto!

Quer pasticciaccio brutto der Castello de Rivoli

Nemmeno il tempo di pensare che finalmente anche qui da noi si mettono due giovani promettenti a capo di Rivoli che già il sogno è finito. Jens Hoffmann, chiamato assieme ad Andrea Bellini alla testa del museo, si è dimesso. Sostanzialmente perché, sembra di capire, la presidenza non ha rispettato gli accordi nel divulgare la notizia. Il che è sostanzialmente indicativo della modalità di condurre queste dinamiche in Italia. Da un lato l’assessore della Regione, Gianni Oliva, che a qualche mese dalle elezioni tutti i costi punta su Bellini che ha fatto di Artissima un evento popolare ma di qualità; dall’altro Giovanni Minoli che pecca di serietà e, in preda ad ansia da prestazione, rivela quello che non potrebbe ancora dire, salvo poi sputtanare Hoffmann autosputtanandosi (ha dichiarato infatti che il direttore del Wattis Institute non era “una persona seria”: e allora Minoli, perché lo nomini?). Ma la cappella, pare di capire, l’ha fatta proprio lui.
Il groviglio è dipanato a dovere dalla saggia Carolyn Christov-Bagarghiev in partenza per Kassel (beata lei). “Io penso che il problema in Italia sia l’ingerenza dei politici non solo nel mondo dell’arte. Sono amareggiata e delusa per quel che è successo […]. So che Hoffmann è una persona seria e che aveva tutta l’intenzione di accettare questa carica […]. Credo che ci sia stata da un lato una sottovalutazione delle sue legittime richieste di avere tempo per parlare con i suoi attuali datori di lavoro e dall’altro una sopravvalutazione dell’accordo verbale“.
Ora, a sentire Minoli, si cercherà un altro nome internazionale disponibile all’altra metà della poltrona. Mentre in fondo, il problema era praticamente risolto. Ancora sputtanamento internazionale per l’Italia e grane in vista…

Quant’è bella leggerezza

Due kili e seicentocinquanta grammi. Questo il peso del poderoso catalogo a corredo della mostra Giorgione inaugurata settimana scorsa a Castelfranco. Oltre  cinquecento pagine e stampa di buon livello: è quello che comunemente si considera un bel tomo, uno di quelli che in libreria si fa notare, anche a distanza, per il dorso corpulento.
Eppure, nonostante il parterre di storici dell’arte invitati a scriverci (spero cose intelligenti), diventerà il milionesimo postmoderno monumento a Gutemberg, alla carta e al denaro sprecati.
Pensiamoci su: a chi giova stampare un volume simile? Gli addetti ai lavori lo useranno per i saggi, il che rende superfluo l’apparato iconografico; i comuni amanti dell’arte lo troveranno fuori misura e non proprio a portata di portafoglio.
Quindi soldi spesi per nulla. Per l’autostima degli studiosi che hanno preso parte al progetto, per i quali “più grande è, meglio è” (il catalogo). Per i politici che potranno vantare un mattone in più nella propria carriera politica. Per i giornalisti che avranno una preda ulteriore nel carniere che non avranno però mai il tempo di leggere. Per l’editore che qualche quattrino se lo fa di certo.
Che spreco, non era meglio fare un volumetto agile e poi un bel pdf da mettere in chiavetta a spese zero? Siamo un gruppo di romantici spreconi. Eppure la leggerezza dell’editoria digitale è proprio lì dietro l’angolo…

Il vizio intellettule del curatore

Ho letto in un catalogo l’ennesimo testo incomprensibile e difficile scritto per una mostra che tra l’altro non mandava in estasi. Ovviamente il curatore si è sfogato con un collage filosofico citazionistico da brivido – gli autori erano tutti i francesi e i tedeschi di prima scelta – e la sintassi era chiaramente di ispirazione latina, con ipotassi annidate e frasi in cui si annaspa prima di arrivare ad un punto (ho contato una frase con oltre 190 parole; considerate ad esempio che la frase un po’ lunga che avete appena letto, da “Ovviamente” a “un punto”, ne contiene circa 48). Non sono riuscito a capirne niente, pur ritenendomi un lettore non di primo pelo.
Ma a chi serve l’ennesima masturbazione mentale sulle idee altrui? Che servizio può dare un testo che non aiuta a capire il lavoro di un artista, ma al contrario lo cela mostrando invece l’esimia conoscenza libraria del curatore? Perché devo perdere del tempo per sapere che il curatore è un figo piuttosto che per capire il valore di una ricerca artistica?
La risposta è presto detta. “In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tradizione di casta […]. La tradizione è libresca e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese osiciliano”. Non è cambiato niente da quanto scriveva in carcere settant’anni fa Antonio Gramsci? Per molti curatori pare proprio di no. Fanculo.

 

Quando l’artista la sa lunga

Sempre mi chiedo quanto l’artista debba essere consapevole del proprio lavoro. Cioè se debba esserlo fin nei particolari (idealmente conoscendo da dove viene, ma soprattutto dove sta andando) oppure se non sia strettamente necessario, dato che spetta ad altri il compito di inquadrare e fornire delle strade interpretative per le opere che realizza. Chi vorrebbe un artista ragionere di se stesso? E poi, al contrario delle parole che tante volte hanno l’ambizione dell’univocità, penso che molte opere – nello spazio della ragionevolezza – siano necessariamente polisemiche. Penso che l’opera viva in forma polimorfica rispetto alle chiavi di lettura ammissibili.
Eppure mi pare di prediligere coloro che lavorano esercitando una ragionevole consapevolezza. Un paio di settimane fa Trieste Contemporanea ha organizzato un dialogo tra Driant Zeneli, vincitore dell’edizione 2009 dell’omonimo premio (che ho avuto la fortuna di curare), e Adrian Paci. Il talk, condotto da Julia Trolp, ha sviscerato alcune delle modalità con cui i due artisti albanesi – uno emergente, l’altro già affermato – costruiscono le opere. Era tutto limpido, cartesiano, cristallino, ma senza che ciò togliesse valore alla poesia e all’imprevisto che ogni costruzione estetica lascia alla fantasia di chi guarda.
Dubito però che questa sia l’unica condizione ammissibile. Continuiamo a ragionarci su.

ABO, le (di)missioni veneziane e la strategia per il palazzo…

Monique Veaute si è dimessa dalla direzione di Palazzo Grassi, spiegando come “si fosse compiuto un ciclo” e che quindi la missione per la quale era stata ingaggiata sia stata portata a termine. I dietrologi – sempre numerosi nel nostro paese – dicono invece che le dimissioni siano avvenute in maniera un po’ troppo sbrigativa, non tanto perché un corso si fosse concluso ma perché sostanzialmente non sia mai incominciato. I motivi? Pinault farebbe un po’ troppo da padrone…
E come suo stile, Bonito Oliva ci mette il carico, dicendo che il patron transalpino ha ridotto all’immobilismo Punta della Dogana, poiché il centro è stato affidato a “due servi di scena” come Gingeras e Bonami (il quale replica su Il Riformista, caustico ma un po’ troppo attento a pararsi il proprio didietro, quello del magnate francese, ma anche quello del sindaco Cacciari). “Se il comitato scientifico non avrà chiarimenti, io stesso mi dimetterò: del resto lì rappresento il Comune di Venezia, le cui linee guida sono completamente disattese dall’attuale gestione”.
Ottimo compromesso all’italiana. Dichiarazione forte (le dimissioni) ancorato a condizioni difficilmente verificabili per chi legge. Risultato che ancora non sapremo. Chissà, magari ABO vuole dimettersi per curare le mostre, per rubare la scena a quelli che lui definisce i servi del padrone?
ABO è un genio tattico, ed è imprevedibile. Lo vedremo. E se volesse dimettersi dal comitato scientifico per curare lui le mostre? Al Mart sembra sia successo proprio questo e che ne abbia beneficiato pure il suo conto corrente…

Il Maxxi(bon) e il Maalox

Wow. Hanno presentato il Maxxi. Vuoto, bello, pulito, filante come solo la Hadid sa fare. Un edificio che potrà essere un vanto per la capitale e pure per il Bel Paese. Spero che sia funzionale, ben oltre la prima impressione che se ne ricava – almeno dalle foto disponibili – di un contenitore meraviglioso ma forse troppo chiacchierone, che ruba la parola all’arte e alle opere anziché starsene un po’ zitto per essere di servizio. Una bella serva padrona, insomma, non facile da domare.
Non vorrei che fosse un museo koolhaassiano, da fuck the contest, non tanto in senso urbanistico quanto piuttosto per quello che ospiterà, cioè pezzi d’arte contemporanea. Lo vedremo all’apertura, tra qualche mese. E speriamo che sia un Maxxibon, e che non ci serva il Maalox per digerirlo…

Minacce ad arte

Mai avrei detto di giungere a questo punto. Sono stato minacciato da un artista. Ho ricevuto una busta contenente un foglio trasparente sul quale – con lettere ritagliate con le forbici incollate sul foglio a mo’ di collage – c’è una scritta che mi intima di organizzare velocemente una mostra di Matteo Attruia. Conosco l’artista, è un ragazzo cazzuto: è un’operazione di mail art e di arte relazionale. La mala ovviamente non centra. La lettera la hanno ricevuti galleristi, curatori e critici. A volte è un piacere anche essere minacciati, ma nella paura meglio darsi da fare…