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cattivi pensieri sulla nostra classe dirigente

Sono molti i cattivi pensieri che mi sono frullati in testa in seguito alla polemica della settimana scorsa sulla gestione allegra ed indifendibile del Madre, il cui direttore ha tenuto un comportamento paradigmatico sull’idea di democrazia che si riscontra nella classe dirigente del nostro paese.
Il primo è che molti di coloro che hanno un ruolo di potere non si sentono in obbligo di motivare il proprio comportamento, e di conseguenza non vogliono rispondere a domande precise sulla loro attività. Cicelyn si comporta con Guido Cabib -e tutti quelli che vorrebbero sapere, me compreso- in maniera uguale a Berlusconi con le note domande di Repubblica. Nessuna risposta vera e nel frattempo si cerca di delegittimare, anche con l’offesa chi chiede di capire: così ne esce un confronto personale che, spostando l’attenzione altrove, ha per conseguenza l’abbandono delle vere questioni. Una pratica italiana veramente vergognosa.
La seconda riflessione del mio piccolo cahier de doléances è su quanta ignoranza vi sia tra coloro che sono ai vertici delle strutture culturali. Ad esempio Cicelyn (caro Eduardo non mi abbia in odio) non si vergogna di scrivere che non conosce la Galleria Comunale di Monfalcone. Pazienza, può capitare. Solo che è un tantino grave, ma non si disperi il direttore partenopeo. Anche Bondi ha ammesso candidamente di non capire gran che di arte  (se nel tempo libero si fosse letto qualche libro o avesse sfogliato qualche rivista, anziché scrivere poesie per il nano), ma lo ha fatto pure uno che non dovrebbe essere tra i peones dell’intellighenzia come Minoli chiamato a Rivoli.
Non so se ridere o piangere.

Cicelyn, Bonami e il vizietto della produzione a braghe calate

Penso che sia il momento di finirla con la malaconsuetudine di un’istituzione pubblica che produce nuove opere agli artisti senza poi acquisirle. Tanto più se si tratta di cifre davvero importanti.
Una questione, tutt’altro che marginale,
messa sul piatto da Guido Cabib e ripresa da Giampaolo Abbondio (galleristi rispettivamente di Changing Role e Pack) nel caso della sedicente buona gestione del napoletano Madre, riguarda proprio il fatto che il museo abbia speso dei soldi per pagare gli ingenti costi materiali dei lavori senza poi esserne diventato proprietario.
La pratica in realtà è molto diffusa e prevede che l’istituzione diventi in qualche maniera comittente affidando all’artista un incarico che, per sua natura, dovrebbe essere libero nella ricerca e al di fuori delle logiche e dei vincoli di mercato. Agendo in questo il settore pubblico si caratterizza come attore in grado di mettere in atto dinamiche virtuose. Il problema nasce però quando l’opera rimane dell’artista, o, come capita molto più spesso, dei galleristi con cui l’artista lavora. Perché a quel punto l’istituzione non concorda l’acquisto dell’opera ad un prezzo ragionevole come sarebbe auspicabile? Anche nel caso di una differenza notevole tra costo e valore dell’opera, considerato il prestigio culturale che dovrebbe garantire il museo (che tra l’altro spende soldi in comunicazione, catologhi, critici, ecc.) un accordo andrebbe trovato.

Ed invece molto spesso i critici calano le braghe a compiacenti galleristi che così si trovano gratuitamente nel proprio magazzinoopere esposte in un museo: si collettivizza così la spesa per la ricerca ma se ne privatizza il guadagno. Olè! Altri esempi oltre a quelli napoletani? Le sculture di Tuttofuoco e della Pivi collocate nel parco di
Villa Manin – gestione Bonami – sono state pagate dai contribuenti friulani ma sono di proprietà delle gallerie milanesi dei due artisti (Guenzani e De Carlo). Che tra l’altro, visti i costi di trasporto non indifferenti della spirale e dello scivolo, sembra abbiano finto di dimenticarsene e siano intervenuti solo dopo la piccata telefonata del nuovo assessore regionale alla cultura…