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Gli scatarri di Beatrice sull’Arte Povera

È da un po’ che Luca Beatrice se la prende con i critici più bravi di lui, per questo o quel motivo, purché siano di sinistra (d’altronde deve pure saldare i debiti intellettuali con Bondi che l’ha chiamato alla Biennale, no?). Uno dei suoi bersagli preferiti è Germano Celant, contro cui ha scritto spesso, recentemente anche su il Giornale. In sostanza, spiega Beatrice, gli artisti dell’Arte Povera ed il critico che ha teorizzato il movimento agiscono come una vera e propria lobby che “ha costituito una rete invalicabile di protezioni che nessuno è in grado di scalfire […] e ha goduto della connivenza politica grazie all’abilità del curatore sia di rispolverare quei termini populisti che un tempo solleticavano i radical chic, sia quei capitalisti così disprezzati ma che hanno permesso all’Arte Povera di fare il bello e il cattivo tempo”. La tesi è affascinante e non è priva a tratti di verosimiglianza, dato che Celant  & co. appartengono in qualche modo ad una casta – su questo ha ragione -, ma Beatrice tace il fatto che la posizione di prestigio dei poveristi è maturata sul campo e con la qualità dei lavori e della critica, e non è certo frutto della solita cricca di furbetti di sinistra. Altrimenti, come lui stesso ammette, come sarebbe possibile che “il sistema globale concordi nel ritenerla l’unica proposta italiana internazionalmente valida dopo il Futurismo”? (E comunque, caro Luca, ogni tanto confronta un testo scritto da Celant con uno magari di quelli che fai te, ok?)
Beatrice poi sbanda palesemente e paurosamente arrivando a dire che “l’Arte Povera ha impedito all’arte italiana di crescere producendo una serie di cloni fuori tempo che non ha alcuna possibilità di successo”, e che la sua supremazia “ha cancellato qualsiasi altro linguaggio e forma”. Le affermazioni sono palesemente disoneste, ma, suppongo, devono evidentemente dischiudere le porte di qualche ministero o i portoni di qualche assessorato (magari in Piemonte, se l’attuale giunta non fosse confermata).
Dispiace invece che rimanga affondato in questo accumulo di fesserie un’osservazione importante in merito al grande progetto multimuseale (e multimilionario) dell’anno prossimo dedicato all’arte povera. Era davvero necessario? Ci sono istanze critiche, estetiche, filosofiche sul movimento che hanno necessità di essere ancora eviscerate? E poi, in fin dei conti, gli artisti che appartengono al movimento non godono comunque di una prestigiosa copertura espositiva nel nostro Paese? Non era meglio pensare a qualcosa di nuovo per questa Italia sempre più vecchia ed intellettualmente sempre più puttana?

cattivi pensieri sulla nostra classe dirigente

Sono molti i cattivi pensieri che mi sono frullati in testa in seguito alla polemica della settimana scorsa sulla gestione allegra ed indifendibile del Madre, il cui direttore ha tenuto un comportamento paradigmatico sull’idea di democrazia che si riscontra nella classe dirigente del nostro paese.
Il primo è che molti di coloro che hanno un ruolo di potere non si sentono in obbligo di motivare il proprio comportamento, e di conseguenza non vogliono rispondere a domande precise sulla loro attività. Cicelyn si comporta con Guido Cabib -e tutti quelli che vorrebbero sapere, me compreso- in maniera uguale a Berlusconi con le note domande di Repubblica. Nessuna risposta vera e nel frattempo si cerca di delegittimare, anche con l’offesa chi chiede di capire: così ne esce un confronto personale che, spostando l’attenzione altrove, ha per conseguenza l’abbandono delle vere questioni. Una pratica italiana veramente vergognosa.
La seconda riflessione del mio piccolo cahier de doléances è su quanta ignoranza vi sia tra coloro che sono ai vertici delle strutture culturali. Ad esempio Cicelyn (caro Eduardo non mi abbia in odio) non si vergogna di scrivere che non conosce la Galleria Comunale di Monfalcone. Pazienza, può capitare. Solo che è un tantino grave, ma non si disperi il direttore partenopeo. Anche Bondi ha ammesso candidamente di non capire gran che di arte  (se nel tempo libero si fosse letto qualche libro o avesse sfogliato qualche rivista, anziché scrivere poesie per il nano), ma lo ha fatto pure uno che non dovrebbe essere tra i peones dell’intellighenzia come Minoli chiamato a Rivoli.
Non so se ridere o piangere.