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Linda Carrara. La fatigue de ne pas finir

Linda Carrara
La fatigue de ne pas finir

Bruxelles (B), Musumeci Contemporary
novembre 2017 ― gennaio 2018

La fatigue de ne pas finir
Daniele Capra




La pratica artistica di Linda Carrara è caratterizzata da una pittura in cui gli elementi figurativi sono alla base di un’indagine filosofica sulla realtà e le sue modalità di rappresentazione. La sua ricerca è caratterizzata da una forte tensione sperimentale, evidente sia nella scelta del soggetto che dal punto di vista linguistico. In particolare l’analisi di Carrara fa dell’azione di dipingere stessa un atto espressivo in grado di rivelare all’osservatore il contenuto degli interstizi più intimi delle cose. La sua è un’indagine ontologica con forti elementi lirici, che si manifesta non tanto nello scavo eroico dentro la materia, quanto nell’interrogare lo sguardo dell’osservatore. Pur essendo artisticamente finita, l’opera è infatti programmaticamente incompiuta dal punto di vista interpretativo, e tale da richiedere uno sforzo di comprensione e di ri-negoziazione nei confronti del soggetto.


È quella dell’artista una pittura processuale, fatta materialmente di gesti e di tecnica, rispetto a cui il soggetto è frequentemente un pretesto, se non una vera e propria scusa, per un indagine che si rivela metapittorica e metafisica. Carrara non mostra cioè quello che è visibile, la pellicola che è superficie degli oggetti e del mondo, ma allude a quel sostrato denso e profondo in cui l’essere, senza soluzione di continuità, sprofonda. La quasi totale sparizione del soggetto è così funzionale a liberare la pittura dalle proprie funzioni rappresentative, a favore di una pratica artistica basata sulla definizione di flusso e sul controllo della casualità. In questa ottica la fatica di non finire un’opera racconta come il pensiero e la continua azione di revisione/rilettura del reale portino l’artista a trovare con difficoltà la forma finale, fissa, in cui non siano più necessari miglioramenti o modifiche. Non finire nasce dalla volontà di non compiere il gesto finale che chiude/sigilla il microcosmo di azioni che determinano l’opera.


La fatica di non finire – spiega l’artista nel corso di un nostro incontro – “è quel tratto sopravvissuto alla selezione naturale, alla pigrizia, all’accurata analisi”, all’aspettativa di dover arrivare. È uno sforzo che prende vita e azione nel tentativo di far sopravvivere le mille possibilità, le mille strade possibili, che l’opera necessariamente possiede. È la ricerca di una rivelazione poetica che non trasmetta, a chi guarda, un contenuto prigioniero della forma dell’immagine.
L’open studio di Bruxelles segue ad una residenza a Kronstadt (San Pietroburgo), che l’artista ha dedicato allo studio dell’acqua e degli oggetti fluttuanti – foglie, pezzi di legno, ma anche rifiuti ed elementi di natura antropica – che mari, fiumi o canali portano con sé. Al ritorno nella capitale belga, a questi stimoli iniziali si è aggiunta l’esplorazione dei canali della città, che ha spinto Carrara a fare della superficie stessa dell’acqua, e della sua pullulante pletora di elementi cangianti, il soggetto pittorico. Non tanto però nella forma dell’esattezza insita nel concetto di rappresentazione, quanto come esito di un lavoro manuale in cui l’artista evidenzia i numerosi aspetti di verosimiglianza tra la casualità frutto della stessa azione di dipingere e la realtà.


I lavori su carta di grande dimensione collocati sulle pareti ricreano la suggestione dell’elemento fluido in forma realistica e verosimile, con modalità concettuali che ricordano il quadraturismo che si diffuse nel secondo Cinquecento, in particolare nella tendenza di condurre visivamente, all’interno di uno spazio, prospettive o ritagli di mondo che sono all’esterno o fisicamente lontani. Questo artificio permette all’osservatore di essere in due luoghi nello stesso tempo, di vivere la realtà delimitata dal perimetro del luogo in cui è e contemporaneamente di avere un’informazione visiva proveniente da altrove, oppure fittizia perché del tutto inventata dall’artista. In tale modo Carrara riconduce in formato verticale viste di acqua che si sviluppano invece sul piano orizzontale, negando l’assunto paesaggistico o architettonico della quadratura come ricerca e costruzione di una profondità che sfondi le due dimensioni imposte dal supporto. L’artista mostra infatti sulle pareti lo sviluppo bidimensionale dei corsi d’acqua attraverso dettagli a dimensione reale della superficie, con viste dall’alto che sono esse stesse immagini sostanzialmente prive di profondità,quasi delle mappe del fluido. In maniera anomala, le (sole) due dimensioni del soggetto vengono così ricondotte alle due dimensioni della rappresentazione.


Ma quello di Carrara è uno stratagemma architettato in modo perfetto per mettere in difficoltà chi guarda,anche nel ribaltamento ideologico di ciò che, a prima vista, sembrerebbero essere dei trompe-l’oeil. Non sono infatti soggetti piacevoli, desiderabili, acconci al gusto di chi auspica di vedere oltre al muro qualcosa proveniente da fuori che sia emozionante, edificante o semplicisticamente bello. Al contrario, quei ritagli mostrano una stratificazione di polvere, sporco, inquinamento, residui naturali ed antropici: ciò su cui generalmente non amiamo posare lo sguardo o che in forma automatica ed inconsapevole cancelliamo dalla vista. Carrara invece ci mostra, in una suggestiva stratificazione di elementi visivi, quello che giace alla periferia del soggetto, sul combattuto confine tra elemento figurativo ed aniconico. Forme non riconoscibili, insignificanti, sospese, di una malinconica ed abbacinante seduttività.

Mirko Baricchi. Derive

Mirko Baricchi
Derive

La Spezia (I), CAMeC
marzo ― giugno 2017

Un compendio per pittori aniconici
Daniele Capra




Scoprire una fonte comune (A)
È dalla fine del XVI secolo che i geografi cominciano ad osservare come il profilo di differenti continenti sia sovrapponibile, ma è solamente negli ultimi decenni del Settecento – quando iniziano ad essere studiati in maniera metodica i fossili, fino ad allora considerati dei curiosi prodigi prodotti dalla natura da esporre in una wunderkammer – che autori come Humboldt cominciano a chiedersi la ragione di tante coincidenze tutt’altro che casuali. Nel Novecento verrà infine elaborata e poi aggiustata quella teoria che spiega il movimento delle placche tettoniche, nota come deriva dei continenti, secondo cui «le masse continentali si sarebbero mosse in senso orizzontale, le une rispetto alle altre, nel corso del tempo geologico, assumendo differenti posizioni» [1].
La parola deriva spiega quindi geologicamente la formazione dei continenti a partire da un’unica massa indifferenziata, la cosiddetta Pangea. Una fonte comune, una sorta di monolite, è infatti all’origine della complessa geografia della terra che è andata a svilupparsi negli ultimi centottanta milioni di anni, quando progressivamente i continenti si sono formati a causa del graduale allontanamento delle placche. Significativamente ogni elemento ha però conservato traccia della propria provenienza proprio nel suo profilo esterno, la cui linea di fratturazione è rimasta visibile.


Inconsapevole movimento (B)
Il movimento causato dalla deriva dei continenti è, rispetto alle percezioni umane, quasi inavvertibile. Benché sia noto che i continenti siano in costante movimento – per avvicinamento, allontanamento o frizione –, ciascuno di noi ha la percezione di essere geograficamente immobile, in un luogo descritto da un punto fisso sulle coordinate di longitudine e latitudine. Sotto di noi, invece, c’è un mare di lava sul quale navighiamo, in maniera fluida, e con lentezza difficilmente misurabile attraverso i nostri sensi.
Il movimento è quindi un aspetto di cui vediamo di tanto in tanto gli effetti più evidenti (si pensi ad esempio alla lenta formazione di fessurazioni e voragini nel terreno, oppure ai più sporadici grandi terremoti percepiti da tutti), benché la vita ordinaria non ce ne dia grande consapevolezza. La certezza del suolo, dell’ubi consistam, è in realtà più labile di quanto indotti a credere: siamo infatti in un precario equilibrio, reso fluido dal grande movimento di enormi forze e di masse colossali in costante opposizione sotto di noi.


Condensare in pittura (C)
La pratica pittorica di Mirko Baricchi, attivo sulla scena italiana da circa un ventennio, testimonia come sia il concetto di deriva a partire da una fonte comune (A), che la tendenza al lento ma costante movimento non sempre avvertito (B) siano due modalità interpretative di particolare profondità per leggere lo sviluppo della sua ricerca. Come capita agli artisti per i quali il lavoro manuale svolto in prima persona è fondamentale – generalmente coloro che praticano pittura e scultura, discipline in cui il pensiero si sviluppa insieme all’azione –, le opere di Baricchi sono originate dal quotidiano esercizio individuale. I suoi lavori nascono con modalità che ricorda i fenomeni di condensazione atmosferica: differenti elementi si combinano portando al vapore e alle goccioline che da esso si formano (C).
L’artista è infatti per sua stessa natura il fornitore del calore e dell’umidità ambientali necessari affinché su una superficie fredda si formi un sottile velo di acqua, a testimonianza della reazione di natura termica avvenuta tra gli elementi. Ogni opera, come pure ogni tentativo di esecuzione anche non portato a termine, è quindi il prodotto finale di interazioni i cui reagenti sono solo in parte noti. I risultati, pur essendo sovrapponibili in molti aspetti, non sono invece rigorosamente omogenei né perfettamente prevedibili, benché il movimento da un’opera alla successiva non sia quasi mai smisuratamente enorme.


Quattro tendenze (D)
L’evoluzione della ricerca è così determinata dall’alternanza di spinte macro che agiscono in maniera sotterranea sull’artista, nonché di movimenti che sono l’esito di fluttuazioni personali e stilistiche non preventivamente calcolabili. I principali elementi che caratterizzano la poetica dell’artista si possono riassumere come il prodotto di una serie di vettori che rappresentano le forze in campo. Le tendenze che agiscono incarnano i principali modi pittorici: figurativo (interesse a rappresentare la realtà) cui si contrappone l’aspetto aniconico (interesse a non rappresentare elementi reali), processuale (interesse agli elementi pratico-esecutivi) cui si contrappone il meditativo (interesse all’esecutore).

Tutte le quattro tendenze sono presenti nel lavoro di Baricchi degli ultimi anni, con accenti e sfumature differenti. Molto di frequente accade che serie di opere realizzate in un lasso temporale vicino presentino analoghi dosaggi delle forze in campo, come testimonia la mostra ospitata presso il CAMeC di La Spezia, in cui in ogni stanza sono enucleati dei lavori concettualmente vicini. In tali opere il prodotto delle forze in campo è facilmente collocabile all’interno di uno dei quattro quadranti elencati, coerentemente alla prevalenza di alcuni piuttosto che di altri elementi.

Sarebbe scorretto però leggere il lavoro di Baricchi in maniera rigida: le modalità di transizione tra i quadranti sono infatti caratterizzate non da rette, quanto piuttosto da linee spezzate che spingono naturalmente la ricerca dell’artista in più direzioni. Ciascuna stanza della mostra ha così una sua precisa polarità, esprime cioè il prevalere di una particolare istanza espressiva che l’artista nutre, e lo spettatore è testimone di un processo che lo vede via via transitare – fluidamente e procedendo a zigzag – dal quadrante n. 1 a quello n. 4.


Il mondo in semi (E)
Nonostante le opere della serie Pangea siano caratterizzate da una pittura compiutamente aniconica, mi sono personalmente imbattuto in lavori che hanno stimolato la mia mente a riconoscere porzioni di cose reali, di ritagli di mondo del tutto inattesi. Sebbene allo stato di abbagli, intuizioni o memorie labili, quelle immagini sollecitano cerebralmente a vedere pezzi di realtà, offuscati o forse del tutto arbitrariamente creati da falsi ricordi elaborati dalla psiche.
È probabile che in una pratica artistica processuale come quella di Baricchi gli elementi riconducibili al reale esistano semplicemente come fattori latenti, anche nella testa dell’artista: quasi delle tracce in cui è riassunta e si concentra in forma inconscia la realtà visiva. Pur tacendo nella non-figurazione, il mondo reale potrebbe presentarsi nella forma di seme, portando con sé un inconsapevole elemento germinativo.


Sintagmi (F)
Derive racconta il lento e progressivo sviluppo di una pratica artistica che ha visto abbandonare gli stilemi iconici a favore di una pittura fluida, contraddistinta da una grande attenzione rivolta alla processualità esecutiva. La ricerca di Baricchi si è infatti evoluta, rispetto alla figurazione ondivaga e appena accennata degli esordi, verso una pittura libera e a tratti anarchica, caratterizzata dalla presenza di elementi reiterati, da campiture cangianti e minime aree piatte di colore.
L’interesse dell’artista si è così spostato dal soggetto rappresentato nell’opera alla pittura in sé come linguaggio, alla ricerca di una superficie autosufficiente, in cui le tensioni visive siano bilanciate dall’equilibrio delle parti in campo, a partire dalle più semplici unità di senso. E non c’è necessariamente in questo percorso un verso temporale unico: la freccia del tempo si sviluppa in una modalità che può essere reversibile. Possono quindi ripresentarsi urgenze espressive nuove o forme simili a quelle che in passato si sono registrate, poiché la sua pratica artistica non è da intendersi in senso necessariamente evolutivo (con un miglioramento delle condizioni precedenti) quanto invece progressivo (cioè con uno sviluppo di ulteriore complessità).
Negli ultimi anni Baricchi ha trasformato così la tela in un abbecedario contenente, in forma non organizzata, i sintagmi linguistici della pittura. Una sorta d’inconsapevole Punto, linea, superficie [1] in cui egli, in prima persona, analizza e misura gli effetti della ricerca aniconica grazie alle informazioni e ai dettami linguistici del proprio stile. L’importanza di tale pratica sta più di ogni altra cosa nell’incessante operare dell’artista che fa del suo lavoro un piccolo compendio di semiotica, capace però di sintetizzarne le ragioni più recondite del dipingere.


Il cesto della biancheria (G)
Ignoro, come probabilmente il paziente lettore di questo testo, in cosa sia affaccendato Baricchi in questo istante. Ciononostante è altamente probabile che egli stia tentando di fare qualcosa che non ha fatto prima, anche solo per vedere l’effetto che fa, o più seriamente per provare ad aprire un nuovo campo di battaglia, un nuovo fronte di guerra. Lo immagino con il pennello in mano, a dare campiture e fondi, a rimuovere o graffiare colore, a sporcare tele con bitumi acrilici o ossidi mai sperimentati prima. O semplicemente a distribuire in maniera nervosa pennellate di nero.
L’artista spezzino ha una pulsione al fare stimolata da una necessità di confrontarsi in prima persona, in maniera fisica e agonistica, analogamente a come faccia un giocatore di basket (sport che egli continua a praticare intensamente), che in una partita stanca l’avversario in un incessante uno contro uno. La sera Baricchi chiude le porte dello studio quando non ha più energie per correre dietro all’avversario, quando la maglietta è pesante e madida, da buttare nel cesto della biancheria sporca.




[1] AAVV, Enciclopedia Treccani, lemma Deriva dei continenti, www.treccani.it/enciclopedia/deriva-dei-continenti/, consultato l’ultima volta il 5 giugno 2017.
[2] Uso qui il titolo del celebre saggio di Vasilij Kandinskij, una sorta di manifesto del suo pensiero in cui egli teorizza il rapporto tra gli elementi della composizione pittorica astratta e le altre arti, in primis la musica.