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Massimo Premuda. Animal architecture

Massimo Premuda
Animal Architecture

Pola (HR), MMC Luka
luglio 2011

Una questione di dignità
Daniele Capra




La pervasività del design nella nostra società di massa è tema già noto e dibattuto. La presenza da un lato sempre maggiore di prodotti di origine industriale (dai vestiti all’arredamento, dagli apparecchi elettronici alla biancheria di cucina, ecc.), le necessità dall’altro di elaborare oggetti dotati non solo di funzioni ma anche di un corredo di caratteristiche come l’ergonomia o la possibilità di essere opportunamente riciclati, hanno imposto un’attenzione spasmodica nel design. Incredibilmente però il design, più che la causa di un processo produttivo di miglioramento del prodotto, è percepito nei suoi valori estetici, nella bellezza che l’oggetto può esprimere, o – ad essere sinceri sino in fondo – nella sua gradevolezza.

A questa vulgata estetizzante che va per la maggiore, forse in Italia più che altrove, teorici ortodossi come Enzo Mari hanno opposto una concezione del design come crudo e naturale (ma forse meglio sarebbe dire calvinistico) miglioramento della funzione: la bravura del designer è quella quindi di sapersi anche nascondere implementando l’aspetto tecnico del prodotto. Conseguenza di questo atteggiamento è ovviamente che gli oggetti non abbiano delle istanze manifestamente spettacolari, ma che invece siano il migliore possibile, quasi secondo natura, dove per “naturale” si intende come la migliore delle forme possibili secondo quanto maturato da un processo evoluzionistico.

Le case per animali domestici realizzate da Massimo Premuda nascono proprio in questo territorio di frizione tra naturale necessità funzionale e gradevolezza estetica. Immaginare il miglioramento delle condizioni abitative di un piccolo roditore, sia esso una cavietta o un simpatico porcellino d’India, è infatti una questione spinosa, che attiene in molti aspetti più al design che all’architettura animale. Gli animali infatti, hanno per le loro esigenze, elaborano delle architetture molto complesse, sia in forma individuale (o di coppia) che per necessità collettiva condivisa, ma di certo l’aspetto di maggior interesse è il loro benessere abitativo o riproduttivo. La funzione è cioè l’unico elemento ad essere centrale, mentre il senso estetico è completamente assente, o al massimo, secondario: è cioè l’effetto di un processo, e non certo una caratteristica in grado di condizionare la forma. In senso stretto potremmo dire che, seppur in forma inconsapevole, gli animali sono dei designer nel senso che sta a cuore a Mari, anche se, come è ovvio, a loro manca la consapevolezza della scelta.

Non è un gioco quindi realizzare dei moduli abitativi complessi e umanamente gradevoli, come sta facendo da qualche anno Premuda. O lo è al massimo nel senso in cui gli animali domestici vengono umanizzati e trattati come si fa con i bambini. Sono gli adulti (forse però oggi meno che nei decenni passati), che generalmente si incaricano di compiere delle scelte per i bambini o i propri figli, valutando ad esempio la scuola più opportuna cui iscriverli, il tipo di alimentazione o semplicemente i vestiti da indossare. La valutazione è infatti parte di quel processo grazie a cui, nella libertà di scelta, è possibile immaginare e sperimentare una strada differente, una modalità realizzativa che non sia solo frutto della tradizione (o delle spinte inconsapevoli della natura). È quindi fondamentale capire come, per l’artista triestino, rapportarsi con gli animali domestici voglia dire renderli degni di una scelta, di attenzione, di cura genitoriale.

Ragionare sulle esigenze abitative di una famiglia di topolini è in qualche modo un processo per contrarium che nasconde però un ragionamento dall’esito assurdo: se il pet viene trattato con le stesse attenzioni che si rivolgono ad un essere umano (innalzandolo cioè al nostro livello), ci si ritrova a negare le sue istanze animali, che è il motivo stesso per cui gli vogliamo bene. Ma cos’è in ultima istanza il compagno a quattro zampe iperattivo che abita in casa con noi? Premuda sembra non avere dubbi: è una creatura di mezzo, umana in quanto in relazione stretta con gli uomini, animale in quanto – come del resto noi – appartenente al mondo animale. Dargli una casetta che non sia proprio come quelle popolari costruite nel secondo dopoguerra diventa quindi una questione di dignità.

La tipologia edilizia scelta da Premuda è molto semplice e prevede casette modulari dalle forme geometrizzanti e  appendici colorate con cromie spiccate. Il disegno è essenziale e senza fronzoli e, a ben vedere, possiede la linearità e la semplicità delle poche case realizzate da Ettore Sottsass durante il corso della sua vita. L’interno delle abitazioni è ovviamente vuoto, mentre le case si possono raggruppare in quartieri, in piccoli complessi che favoriscono l’interazione e la socialità. Presumibilmente i roditori faranno poca attenzione a tutto questo, mentre di sicuro tutte queste attenzioni fanno sì che gli uomini guardino con più vicinanza gli operosi roditori, rendendosi conto che le distanze tra persona e topolino, il buon design che ha l’ironia necessaria per non prendersi troppo sul serio, sa cancellarle.

Fisiologia del paesaggio

Juan Carlos Ceci, Fulvio Di Piazza
Fisiologia del paesaggio

Bologna, Museo di Zoologia e Anatomia Comparata, Università di Bologna
gennaio ― marzo 2011

Microcosmi gastrici
Daniele Capra




Quanto dipingere è un fatto di pancia, di viscere? Quanto è l’intelletto – sotto forma di controllo logico-razionale – e quanto invece il complesso ed inestricabile sistema organico ospitato negli abissi dell’addome dell’artista a muovere la mano? [*]. Se pare banale ridurre la questione al semplice dualismo tra corpo e mente (cioè tra materiale ed immateriale) una risposta plausibile ed univoca non pare esistere. Entrambe le componenti hanno cioè notevoli campi di influenza, inaspettatamente meno visibili di quanto si possa immaginare ad un primo esame, tanto più perché sono interdipendenti. Si tenga infatti presente che le differenze che vi sono tra gli artisti e gli sviluppi linguistici che segnano la loro evoluzione mescolano così energicamente le carte che è difficile disporle sul tavolo in forma ordinata se non procedendo per tentativi successivi, per approssimazione.

Fisiologia del paesaggio nasce proprio dal confronto tra due artisti che, pur in forma molto differente, praticano una pittura ed un disegno in cui sono rintracciabili in forma visiva le tracce e i sedimenti stratificati della vita organica, che testimoniano cioè parimenti la fascinazione intellettuale per questo mondo naturale, per lo più nascosto allo sguardo, e un approccio emotivo ed ematico in cui il proprio corpo, grazie al costante lavorio quotidiano, lascia delle tracce evidenti della propria presenza, delle impronte sul terreno che possono essere lette. Nel lavoro di Juan Carlos Ceci e Fulvio Di Piazza, infatti, le matrici immaginifiche e gli stimoli corporali vengono ricomposti fino a coesistere, tanto più se messi a confronto su un tema come il paesaggio d’invenzione, genere che storicamente è distante dagli aspetti più somatici e umorali, essendo per sua stessa natura esercizio di pura fantasia. Il capriccio, sia nella forma di veduta architettonica che quella di contesto paesaggistico, è un genere che riceverà la consacrazione nel tardo Seicento – si pensi ad esempio a Giovanni Paolo Panini – per perdere poi importanza fino al Novecento, in cui alla bizzarria della composizione si sono sostituiti altri approcci via via differenti. Ceci e Di Piazza recuperano quella tendenza alla follia controllata, tipicamente barocca, innestando un aspetto in più: il paesaggio d’invenzione nelle loro opere si rivela infatti un complesso sistema di rimandi in cui gli aspetti topologici e la fisiologia animale parlano una lingua simile, poiché costruiti a partire dalla fascinazione per il mondo della zoologia e di quella vita che scorre nascosta dentro ciascun essere vivente, sia esso animale o vegetale (ma spesso anche il mondo inanimato, come ad esempio quello delle rocce, è ben lungi nei loro lavori dall’essere estraneo allo scorrere della vita).

La parola paesaggio accende infatti la fantasia evocando l’intreccio di bellezze naturali e antropiche che caratterizzano quello che è esterno a noi, o, molto spesso, gli aspetti più sgradevoli di ciò che ci sta attorno. Eppure il paesaggio non è semplicemente ciò che vediamo, ciò che circonda le nostre case, il luogo in cui vorremmo perderci o l’infinita periferia che circonda il nostro sé; non è solo l’ambiente in cui vorremmo essere o il mediocre contesto dentro cui si srotola la nostra vita come uno scenario di un film. Ma è invece il risultato di storie e di idee, di funzioni e proiezioni che si stratificano: l’esito di un processo anatomico in cui numerosi elementi – come il colore dell’erba, l’umidità del terreno, il rumore del vento o l’odore della nebbia – hanno subìto modificazioni e processi che sono riconducibili alle esperienze fisiologiche e alle remote istanze psicologiche del nostro corpo. Gli olii ed i disegni su carta dei due autori mostrano infatti come siano intensi e diretti, seppur talvolta inconsci, i rapporti tra la fisiologia animale e il paesaggio, ma anche quanto la pittura si possa nutrire di mondi apparentemente lontani, surreali, esoterici ed intangibili. La fisiologia dell’animale (e dell’uomo), nelle opere di Ceci e Di Piazza, diventa inevitabilmente misura di tutte le cose: nei loro paesaggi è così possibile scorgere e riconoscere gli organi conservati nelle soluzioni anatomiche dei musei di anatomia, le corna imperiose degli animali impagliati, la mostruosa pelle dei rettili, i tortuosi rumini dei grandi mammiferi erbivori, la lucentezza del piumaggio dei volatili esotici.

Proprio in virtù della sua capacità di creare relazioni, corrispondenze, microcosmi ideali, la pittura in particolare ha per i due artisti una funzione di (auto)indagine, di psicoanalisi. Di Piazza e Ceci sono nella fortunata condizione che permette di eviscerare il complesso groviglio di emozioni che agitano e rimestano il nostro ventre, mettendo in luce le infinite ed alchemiche correlazioni tra la nostra intima persona ed il mondo naturale. Seppure con modalità costruttive differenti (Di Piazza ha una grande passione per il disegno, che è spesso di preambolo al lavoro su tela o tavola, mentre Ceci per lo più dipinge senza realizzare nessun disegno e senza quindi una composizione preordinata), nelle loro opere la pittura, con le sue dilatazioni ed i suoi ampi respiri, si attesta come strumento che più di ogni altro è in grado di farci cogliere il segreto ed affascinante silenzio di quel tutto che è altro da noi, ma che dai noi stessi è intimamente generato: è strumento che nel contempo mette in relazione produzione alta e disciplina che raccoglie i flussi ematici ed umorali di chi instancabilmente la pratica e di coloro che intensamente la vedono. In maniera particolare il paesaggio – genere considerato solare, apollineo e dispiegato – nei lavori dei due artisti mette in mostra la prorompente vitalità fisiologica della linfa, degli umori, degli elementi gastrici che animano nascostamente l’esistenza di ciascun essere vivente.

I loro lavori dimostrano così quanto la pittura abbia in sé una funzione organica endoscopica, che dà la possibilità di scorgere gli infiniti addendi che si nascondono nel ventre in una somma di cui intuiamo irrazionalmente il valore, sebbene sia impossibile coglierne l’esattezza. È il corpo che parla in forma atavica, quando è sezionato ed esibito a chi ha occhi per vedere. È il bisturi che ci permette di tagliare la nostra pelle e cercare nelle viscere i succhi interni, gli abissi, i tossici che abitano i nostri addomi e che trovano posto nelle proiezioni delle nostre fantasie, delle nostre ansie o delle nostre aspettative. È la malinconia di un mondo in cui è subito sera, e che, pur nella sua scintillante vivacità, ci rende d’improvviso natura morta.




[*] La mostra nasce da una intensa conversazione, avvenuta oltre un anno fa, tra gli artisti, Giorgia Lucchi ed il curatore. Il quell’occasione era stata analizzata in particolare la dicotomia tra “pittura ragionata” e “pittura pulsionale-viscerale”, discussione che è stata di preludio al tema della mostra nel museo bolognese.