Home » Antonio Bardino

Tag: Antonio Bardino

De Rerum Natura

De Rerum Natura

Sovramonte, Lab 610 XL
luglio ― agosto 2012

TestoGli artisti
La natura delle cose
Daniele Capra




Nel I secolo a. C. Lucrezio scrive il De Rerum Natura, uno dei capolavori della letteratura latina, che propone sotto forma di poesia il pensiero filosofico di Epicuro. Vivere bene rimuovendo gli eccessi delle passioni, sottraendosi alle ansie del desiderio e alla paura della morte è il fine della dottrina epicurea, e Lucrezio – come egli stesso scrive – ricorre alla dolcezza della poesia per rendere meno impervio il tema, nella stessa maniera in cui si usa il miele per far prendere ad un bambino un’amara medicina. Il De Rerum Natura, il cui titolo significa letteralmente “La natura delle cose”, fornisce così delle risposte al lettore invitandolo a non curarsi degli dei e ad abbracciare il pensiero razionale e materialistico del filoso greco.

La paura del dolore e della morte, la necessità di una spiegazione logica che anteponga una ratio a qualsivoglia forma di religio, ma anche la necessità di analizzare un universo che contiene molte difformità, molti elementi apparentemente incomprensibili o inconciliabili (si pensi solo a termini come bellezza/bruttezza, morte/vita, democrazia/dittatura, ecc.), sono alcuni dei temi più stimolanti della nostra attualità e della pratica artistica contemporanea. In particolare l’opera, che è in grado di sintetizzare molte delle dicotomie apparentemente irrisolvibili della realtà, è un punto di osservazione privilegiato per interrogare il nostro mondo, sempre più caratterizzato da una velocità e da una polverizzazione che sfuggono al nostro sguardo. L’opera, come la filosofia trasformata in poesia da Lucrezio, ci libera così dai nostri limiti, fornendoci l’immagine di mille mondi cui non avevamo ancora pensato.

L’arte dimostra come sia possibile trovare risposta alle domande che ancora non si conoscono. L’arte è cioè un microcosmo che fornisce un’occasione per abbandonare il pensiero semplice e pre-confezionato e per impossessarsi di visioni e prospettive che non sono ancora nostre, di respiri che apparentemente non ci appartengono, di spazi che mai avevamo immaginato esistere.

Epicuro, grazie al miele di Lucrezio, è così l’occasione per capire come l’apparenza sia da abbandonare in favore di una ratio che ci permette di rimuovere ogni dolore e, sopra ogni cosa, la paura della morte. Non rimane che abbandonarsi al piacere, che darsi alla meravigliosa materia che fa ed alimenta il nostro corpo. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, e potrebbe essere il più bello.
Gli artisti
Daniele Capra




Karin Andersen
Animale ed umano si mischiano e si confondono nelle opere di Karin Andersen, mostrando con ironia i limiti nascosti in ogni tassonomia, siano essi di ordine fisiologico o più squisitamente metodologico. Dentro ogni classificazione, ogni distinzione tra aulico e volgare, tra etico ed amorale, vi è il seme dell’aporia, di una verità non risolutiva che fornisce un’immagine troppo pallida della realtà: conviene quindi godere dell’istante ed accarezzare le grandi questioni senza farsi troppo prendere dall’ansia. Non è importante se per la gioia momentanea ci viene voglia di scodinzolare.


Elena Arzuffi
Tra rebus psicanalitico ed inafferrabile esercizio surrealista, l’opera di Elena Arzuffi combina in piena libertà elementi di natura eterogenea. Sono frammenti, abbagli, pezzi di vita individuale, dei collage visivi in cui disegno e schegge di realtà si combinano per scompaginare lo sguardo all’osservatore. Di fronte a tale provocante incertezza non conviene che rispondere con ratio tagliente, con uno sforzo individuale che consenta di discernere più particolari possibili, più immagini di un puzzle che non si può mai possedere interamente, quasi fosse una coperta troppo corta.


Matteo Attruia
Il sigillo tombale di Matteo Attruia è nel contempo un monito ed una tagliente considerazione sulla nostra condizione umana. Se una risata ci seppellirà, forse è molto meglio che sia con il sorriso sulle labbra piuttosto che nella nera disperazione. L’artista sembra così suggerirci come non dobbiamo temere la morte, quanto piuttosto il nostro quotidiano cattivo umore.
Anche perché non si smette mai di vivere, vista la possibilità di mischiarci coi miti – anche a buon mercato – che il mondo della politica, della religione o della cultura ci regalano. La fama, forse, ci regala l’ebrezza di sembrare eterni. Carpe diem.


Antonio Bardino
La pittura di Bardino mette insieme elementi di lucido realismo con visioni che fanno della meraviglia e della straordinarietà aspetti sorprendenti in cui è necessario sospendere il giudizio. Un ponte saltato per aria o un ghiacciaio desolato dipinti su tela sembrano richiamare alla mente eventi nefasti, delle sciagure ambientali per colpa delle quali è stata cancellata ogni traccia umana. Sono fatti invece a cui sono estranei gli uomini e anche gli dei, che degli uomini non si curano, abitando beati quelli che Lucrezio chiama gli intermundia. Non vale la pena di lasciarsi perturbare, se non dalla pittura attenta e scrupolosa dell’artista.


Filippo Berta
La bandiera italiana, slabbrata, lacerata e contesa a morsi da un branco di lupi. È la metafora della nostra condizione umana, ma nel contempo è allegoria politica di quello che rimane del nostro paese: un deserto battuto da individui-lupi, incapaci di agire se non per istinti primari o di sopraffazione. Il video di Filippo Berta è così una forte ed accorata denuncia dei limiti del nostro sistema, della nostra mentalità, del nostro egoismo individuale che non ci rende solidali, ma – al contrario – ci fa intolleranti ed aggressivi. Le immagini affascinanti e magiche di quegli animali dalla forza smisurata sono così un’aperta e lacerante denuncia di ciò che accade qui ed ora. Ed un cambiamento sembra impossibile.


Valerio Bevilacqua
Le opere di Valerio Bevilacqua sondano i limiti, nel contempo concettuali e materiali, tra presenza naturale ed elemento artificiale. L’artista ricorre così a complesse lavorazioni, memori dell’artigianato artistico veneziano, per costruire in maniera artefatta elementi che sono invece percepiti dallo spettatore come presenti in natura.
Bevilacqua ribalta cioè l’ovvio, denunciando l’inganno abilmente nascosto dell’apparenza, ma anche le infinite possibilità che ci sono concesse di falsificare la realtà: l’opera smette di essere così dispositivo di senso per prendere un ruolo interrogativo e socratico in grado di spiazzare lo spettatore.


Günter Brus
C’è un elemento di magia, di sadismo e di degradazione dell’uomo nelle performance di Günter Brus, e tutto questo sembra interessarci in maniera spudorata. Si avverte la ritualità di una situazione che non è semplicemente il frutto di fantasie altrui, ma che ci appartiene intimamente: attrazione e repulsione coesistono in modo disturbante. Siamo anche noi che vogliamo ferire e ferirci, eppure il dolore apertamente cerchiamo di evitarlo, di espellerlo dalla nostra vita. Ma quel lato oscuro esiste e pare impossibile ignorarlo. Non ci resta che consolarci coi piaceri e non dare peso alle voci oscure.


Luca Casonato
Costa Natura è un progetto che racconta la costa di mare tra il litorale del Cavallino e Caorle. Una successione senza soluzione di continuità di spiaggia, fiumi, condomini, sdrai (di cui in mostra è possibile vedere un frammento). Un luogo in cui elementi antropici si sovrappongono all’ambiente a tal punto da rendere irriconoscibili le tracce umane da quelle naturali.
Luca Casonato fotografa infatti con lo stesso metodo qualunque soggetto gli si ponga di fronte all’obbiettivo, non c’è ormai differenza alcuna, metodologicamente. Ed anche noi dobbiamo ormai renderci conto che un albero ed un ombrellone sono ormai la stessa cosa.


Juan Carlos Ceci
Tracce di piante, germinazioni che nascono dall’estro e dalle libere associazioni visive dell’artista. Sono vegetazioni fantastiche quelle di Juan Carlos Ceci, che racconta con fervida immaginazione – ed una fitta trama di segni sulla carta – un mondo vegetale florido e vivo. Non importa se le varietà siano reali, inventate, o ibride: esistendo nella carta esistono anche nella realtà, e sfidano la vita e la paura della morte. Abbiamo bisogno noi di quelle piante, di quei semi e quelle foglie, anche solo per nutrire il nostro immaginario.


Marco Citron
Una città mineraria di un paese, come l’Ucraina, che conosciamo quasi solo perché affidiamo a persone che da lì provengono i nostri anziani. Un grande paese in cui la storia degli ultimi cinquant’anni è ancora fortemente presente nella struttura urbana, nell’edilizia, in quel paesaggio urbano che ormai è la nostra prima casa.
Basta solamente associare le immagini di un enorme condominio e quelle di una persona per strada per avere un corto circuito di senso. Il fotografo ha agito per sottrazione, e chi guarda non può smettere di elaborare delle ipotesi plausibili. Un uomo sanguina, non sappiamo perché e Marco Citron non si cura di raccontarcelo.


Mauro Cuppone
Morte. Nessuno spazio all’ottimismo della volontà: Mauro Cuppone è lapidario nel farci friggere come insetti che rimangono stecchiti contro le luci di una zanzariera elettrica. In maniera inesorabile l’artista mostra gli animaletti decimati per contatto con la gabbia ad alta tensione, ma in questo – naturalmente – sta raccontando la condizione umana.
Forse però l’artista esagera, forse non vale la pena di farci caso, e, come diceva Epicuro, se ci siamo noi non c’è lei. Non pensiamoci, vale la pena di bere ancora un buon bicchiere di vino invecchiato con gli amici.


Giancarlo Dell’Antonia
La fisiologia del territorio e la continua frizione tra elementi naturali e presenza antropica sono temi cari a Giancarlo Dell’Antonia, che propone per la mostra un’analisi della zona montana che circonda la sede espositiva. In particolare il confine tra area boschiva e pascolo diventa indicativa di una lotta tra mondo selvatico e quello ordinato, piegato alle necessità dell’uomo. In particolare quest’ultimo, con il progressivo abbandono della montagna, ha subito un arretramento a favore del bosco che si è progressivamente ripreso ciò che gli spettava. La tecnologia impiegata nella mappatura diventa paradossalmente il primo elemento indispensabile alla comprensione degli aspetti naturali.


Gianni De Val
Pezzi di cielo, intermundia abitati da dei e lontani dagli uomini. Sono questi ritagli di spazio i (mancati) soggetti di Gianni De Val, che mostrano e nascondono contemporaneamente qualcosa che dovrebbe interessarci, ma di cui conviene non curarci. La pittura risulta così dispositivo che racconta la realtà e fa ragionare sulle scelte filosofiche che devono orientare gli uomini. Incredibilmente una pittura a velature diventa così un inedito conte filosofique che appassiona ed apre la mente.


Elisabetta Di Sopra
Un seno nudo, turgido ed un bambino che piange, da lontano. E poi quello stesso inizia a perdere gocce di latte, con una magia che racconta insieme la maternità ed il legame indissolubile di una donna per il proprio figlio. È la meraviglia della natura, ma anche la propria agghiacciante forza il vero soggetto del video di Elisabetta Di Sopra, che mostra quanto sia impossibile nascondere la realtà, che non tarda a presentarsi e bussare, non appena si cerchi di ignorarla.


Ulrich Egger
È emblematico il titolo dei lavori di Ulrich Egger: Fukushima è infatti il luogo di uno dei più gravi incidenti nucleari della storia, un’area in cui la natura delle cose è stato sovvertita e portata ad una situazione instabile, mentre lo stato iniziale non potrà più essere ripristinato. Nel mescolare pezzi di metallo e luce, scultura fisicamente presente con traccia luminosa, Egger sovrappone due registri differenti e contrapposti. Peso e leggerezza si mischiano in modo inquietante, e nel contempo l’oggetto artistico racconta di un mondo mostruoso, sporco, e che ci fa vergognare.


Marianne Greber
L’identità ed il genere sessuale sono due campi di indagine dei quali Marianne Greber ha mostrato la meravigliosa complessità e la proteiforme possibilità di espressione. Il genere, il suo cambiamento – l’azione di andare contro le limitazioni imposte da un corpo che sta troppo stretto – diventano così modalità espressive. Lo spettatore che guarda coglie la dolcezza dei volti, ma anche la malinconia di chi ha lottato per tirare fuori quello che era nascosto sotto la propria pelle. Il giorno dopo, fortunatamente, dal bozzolo esce una farfalla.


Daniela Manzolli
La vitalità e l’operosità delle api. Prese ad esempio sin dall’antichità come modello di perfezione di collaborazione e di capacità progettuale. Lavora cambiando la qualità del materiale Daniela Manzolli, che realizza un alveare che reca l’imprinting primigenio ma contemporaneamente porta in là la bellezza della natura estendendo al metallo la meraviglia del lavoro degli insetti. La cera e l’ottone non sono mai stati così simili.


Gina Pane
L’opera di Gina Pane racconta la religiosità e l’idea di donarsi di San Francesco. Il santo che parlava ai lupi è anche l’emblema di chi si spoglia delle cose inutili per dedicarsi in toto alla propria missione. Quel disegno racconta il tentativo dell’artista di rivivere quell’estasi, nel piacere di donarsi e di farsi carne. Le stimmate sono così emblema di amore e di dolcezza, quasi un segno di una presenza divina che non smette di bussare alla porta. Non rimane che l’amore e i suoi segni più manifesti sulla carta.


Stefano Scheda
Artificiale e naturale convivono nel lavoro di Stefano Scheda, che si sviluppa raccontando una rinascita imprevista: delle gemme e dei fiori spuntano da un muro di una casa segnata dal terremoto (e non è importante il fatto che siano finti). La capacità della natura di rigenerare un tessuto vitale è così portata all’attenzione di chi guarda, che avverte il coesistere di elementi differenti e per certi taluni aspetti in contrasto. Ma l’arte ha la forza di riprogrammare e ricomporre il mondo, mettendo insieme realtà eterogenee apparentemente inconciliabili.


Serse
La matita ed il diamante sono fatti sostanzialmente dello stesso materiale. Sono solo poche differenze che caratterizzano i due elementi. Serse li ha ricomposti usando uno per definire l’altro. La trasparenze e la luce dei diamanti sono così realizzati con la meno nobile matita. I mille luccichii ridanno cioè dignità alla materia che la natura ha reso meno preziosa, ribaltando lo status quo cui era condannata.


Kiki Smith
Ogni lavoro di Kiki Smith è un racconto sull’uomo e dell’uomo. Il disegno serve cioè a ricomporre sulla carta la magia di un microcosmo individuale. Petali e fiori piovono dal cielo come fossero coriandoli. L’uomo stesso sembra il frutto di una magia in cui il vento abbraccia e culla le persone. E una leggera brezza, forse, è avvertita anche dallo spettatore.


Devis Venturelli
Sono pezzi di mondo, di sogni, di legni quelli che Devis Venturelli ritaglia e ricompone in quattro collage. La naturalità è ricostruita con l’artificio, e diventa così un soggetto da plasmare e modellare accostando esteticamente ritagli di visioni. In maniera poliedrica, il mondo si fa per continua somma di addendi che un artigiano abilmente dispone sulla superficie.

Antonio Bardino. Specchio specchio

Antonio Bardino
Specchio Specchio

Venzone, Palazzo Orgnani-Martina
novembre ― dicembre 2009

Il vuoto pneumatico e il mondo reale
Daniele Capra




Benché vi siano ancora in giro – e si possano distintamente avvertire – i cascami di una vulgata concettualista radical chic che percepisce la pittura come uno strumento inadeguato di ricerca, la pratica di questa disciplina, liberata da non tanto dall’ideologia quanto dagli -ismi che hanno ammorbato la seconda metà del Novecento, si dimostra invece nei nostri giorni assolutamente centrale e progressista, anche nel recupero di procedure che in qualche maniera appartengono in forma esclusiva alla propria storia. Dipingere, seppure con modalità inevitabilmente eterogenee, è da un lato continuare quel lungo ed articolatissimo sentiero iniziato magicamente oltre ventimila anni fa nelle rappresentazioni rupestri, ma dall’altro è essenzialmente ricognizione e manipolazione dell’esistente in forma chimica, in cui colori, tela e pennelli sono esposti alle tossine ed al veleno della contemporaneità.

In forma allargata la pittura è cioè riconducibile alla categoria del postproduction teorizzata da Nicolas Bourriaud, secondo cui “sempre di più gli artisti interpretano, riproducono, ri-espongono, o usano oggetti realizzati da altre persone o da altri prodotti culturali disponibili. L’arte della postproduzione risponde alla proliferazione del caos della cultura globale nell’era dell’informazione, che è caratterizzata da una crescente richiesta di opere e dall’allargamento al mondo dell’arte di forme fino ad ora ignorate o trascurate” (Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia, Milano, 2004, pag. 8). Dipingere è cioè l’atto finale di un processo che trova la sua origine altrove, dato che – come in sostanza capita all’uomo moderno – gli stimoli e gli alimenti che costituiscono la dieta culturale e visiva dell’artista sono di natura al massimo grado differenti e di natura non sempre facilmente classificabile. L’artista è onnivoro, ma mangia spesso e in forma disordinata, alternando con buona probabilità atteggiamenti anoressici e bulimici.

La pittura di Antonio Bardino risente di questa dieta eclettica e confusa, e in qualche maniera sembra voler arginare il vortice caotico di un mondo che pare talvolta non conoscibile opponendogli intrinsecamente ordine e pulizia formale; non tanto in forma regressiva o conservativa quanto per intima necessità gnoseologica. La complessità è cioè sezionata analiticamente, avendo la cura di cancellare tutti gli accidenti e gli elementi di perturbazione superficiale, in maniera tale che siano resi più evidenti le macrostrutture all’interno delle quali gli uomini si muovono e vivono, o transitano. In questo modo viene a manifestarsi la necessità di ricondurre la complessità ad una formula minimale e distaccata, tanto asettica nella forma quanto distillata nel rigore.

La sua è una pittura in qualche maniera ibrida, sia nel senso che non è pratica che si nutre solo di stimoli pittorici, che nel fatto che il medium rappresenta solo la fase finale di una procedura di altra origine: ne è solo cioè supporto conclusivo, fase esecutiva manuale, seppur lenta e minuziosa. Ma è altrove che ha origine l’opera, e precisamente nella fotografia, nella registrazione digitale di quei luoghi. L’artista di origine sarda infatti, dopo aver catturato delle immagini con la propria fotocamera (ma spesso hanno contribuito al lavoro amici in viaggio, mettendo in essere un processo di condivisione di intenti, come giustamente hanno rilevato Fabiola Naldi e Mario Gerosa nel saggio che correda il catalogo di Art Happens Now. La giovane arte italiana al tempo del web 2.0) provvede a modificarle con i software di fotoritocco cancellando la presenza degli uomini e ricostruendo tutti quei pezzi che inevitabilmente mancano. Solo successivamente l’immagine viene fissata sulla tela, a partire da quella forma intermedia, scegliendo dominanti di colore fredde. Ma non è il dettaglio iperrealista ad essere ricercato, come fa tanta pittura accademica in maniera stucchevole, quanto invece l’atmosfera di vuoto esistenziale, come sottolineato dalla scelta di variazioni cromatiche molto lievi ed una latitudine di luce molto limitata. E l’osservatore attento, seppur affascinato dalla costruzione architettonica, avverte il senso di abbandono e di mancanza di quelle persone per i quali quei luoghi sono costruiti: chi guarda quei posti svuotati dalla massa brulicante di individui si mette infatti in una condizione di attesa di un movimento o di un evento che non potrà mai capitare, in una situazione non dissimile da quella dei soldati rinchiusi nel forte del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.

Quelle di Bardino sono così viste impossibili. Se volessimo dirla con un linguaggio seicentesco diremmo dei capricci, ma al contrario del genere pittorico manierista – basato sull’invenzione e l’estrosità del pittore – non è tanto la bizzarria il valore aggiunto, quanto la sottrazione degli elementi inessenziali. Il capriccio sta cioè nella sintesi, nel depurare i luoghi dalla presenza umana che ne garantirebbe l’utilità sociale. A questa rasoiata contribuiscono in modo determinante i colori scelti, che hanno essenzialmente la stessa gamma cromatica di quelli utilizzati nelle lavorazioni industriali (che spaziano dal verde al blu, al grigio), sempre distillati e declinati in maniera delicata, per successive velature. Prendono forma in questo modo visioni antispettacolari, calibrate in un’atmosfera in cui la luce non è mai direzionale ma diffusa, come accade di vedere in taluni paesaggi brumosi del nord Europa. La luce pare manifestarsi per emanazione, appartenere agli oggetti stessi, in maniera antiretorica.

Per un lungo periodo gli unici soggetti dell’artista sono stati quasi esclusivamente aeroporti, luoghi di passaggio in cui le persone non possono essere degli individui, o non hanno il tempo per esserlo, ma tendono a somigliare piuttosto alle piccole tessere di un enorme puzzle in movimento, in transito o in arrivo da qualche luogo, ma mai ferme in forma stanziale. A dire il vero questi uomini nemmeno si presentano, sono assenti, mentre sono gli aeroporti a parlare, a mostrarsi nella loro complessità architettonica e tecnologica. L’atmosfera diventa surreale: (non)luoghi che siamo abituati a percepire affollati sono teatri senza gli attori che recitano la loro parte.

Tutto questo è però di secondaria importanza rispetto l’analisi antropologica su cosa siano quei posti vuoti e che funzione abbiano nella nostra contemporaneità. L’esigenza primaria è cioè far vedere e rendere esplicite le dinamiche del viaggio, dell’incasellamento dell’uomo a cluster apparentemente libero e indipendente, ma che in realtà compie in forma automatica e prefissata un percorso che è stato altrove concepito. Il ruolo del viaggiatore è ambiguo, poiché oscilla costantemente tra individuo che esprime volontà di movimento e topolino da laboratorio per il quale ogni percorso è stato pensato. Ugualmente l’utilizzo dei display permette di relazionare la masse delle persone con le proprie destinazioni, in una sorta di dittatura soft da parte del monitor, che impartisce informazioni e dà disposizioni cui risulta impossibile sottrarsi, pena il mancato perseguimento del proprio obbiettivo. L’aeroporto è cioè un esempio di civiltà ordinata e (pseudo?)democratica in cui i viaggiatori sono essenzialmente tutti liberi ed uguali, dato che devono seguire le stesse regole e devono sottoporsi tutti agli stessi controlli centralizzati: l’individuo è cioè un individuo-massa.

Nella rappresentazione di strutture architettoniche di grande estensione ed altezze ragguardevoli, caratterizzate dall’impiego di vetrate e strutture portanti modulari, si manifesta invece un’altra chiave di lettura interessante, imperniata sulla grande scala cui l’individuo metropolitano è costretto a relazionarsi: ogni luogo ha le dimensioni di una cattedrale laica ripetitiva e componibile, sviluppata con impalcature innervate di acciaio e superfici trasparenti che assicurano una forma di permeabilità con l’esterno, benché in effetti quello che accade al di fuori non sia di sostanziale interesse per gli eventuali passeggeri. Nella sostanza le strutture sono chiuse, dominate da un’aura di sterile ed asettica, in cui sembra si sia attuato una sorta di vuoto pneumatico che ha spazzato via persone ed esseri viventi non lasciando nemmeno emergere le tracce della loro presenza. Forse nemmeno si sente in lontananza la Music for Airports di Brian Eno che dà il titolo ad una delle mostre personali di Bardino.

Ma il lavoro dell’artista sta in questo ultimo anno virando in direzioni inaspettate. Due opere infatti si distaccano notevolmente dal topos luogo di passaggio – benché  a loro modo siano comunque sempre situazioni in cui gli uomini hanno una presenza non stanziale – e stanno preludendo ad un nuovo interesse per i luoghi aperti. Si tratta delle stazioni di servizio, che Bardino ha dipinto avvolte in una sottilissima nebbia, quell’umidità autunnale che ammanta la pianura del nord Italia smussando gli angoli al paesaggio ed alle cose. Sono ben in evidenza le scritte luminose e i loghi che identificano le compagnie petrolifere, e anche le insegne che indicano i prezzi della benzina e del gasolio. Non è quindi solo il display nella sua funzione di dispositivo di trasmissione di un’informazione ad interessare, quanto anche il valore indicato (tra l’altro coincidente con alcuni dei picchi cui siamo abituati causa le dinamiche speculative sulla materia prima petrolio) e di conseguenza il fatto che la dimensione temporale non è più ferma ad un momento indefinito e sospeso, come nel caso degli aeroporti, bensì è evidentemente identificabile. Se l’autore precedentemente si sottraeva alla variabile tempo, ora invece sembra essere interessato a registrarne gli effetti, anche se in maniera non perfettamente univoca, dato che il prezzo è soggetto a cambiamento quasi quotidiano.

Parallelamente le ultime tele raccontano di uno spostamento all’esterno, in situazioni in cui elementi naturali (come gli alberi) sono messi in dialogo – o meglio in conflitto visivo – con le architetture tecnologiche, con vetrate, con le torri per le telecomunicazioni. Qui la pittura si fa meno controllata e finisce ad essere tecnicamente più goduta, anche se sempre interessata al concetto di trame e piani prospettici piuttosto che all’immediata rappresentazione dello scorcio, benché permangano forti interessi per le trame architettoniche e le strutture modulari. In qualche modo sembra che all’artista la realtà stia diventando più interessante, dopo esser stata snobbata o al massimo utilizzata come pretesto per dire altro. Un buco, uno squarcio, sembrano aprirsi oltre la tela, come in un Truman Show che progressivamente si sta rivelando. Cosa aspettarci, in una pratica quotidiana e mentale quale è la pittura, è difficile dirlo: sarà una sorpresa.