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Tiziano Martini. Die Tücken der Neuen Freiheit

Tiziano Martini
Die Tücken der Neuen Freiheit

Düsseldorf (D), Achenbach Hagemeier
ottobre ― novembre 2017

Lavoro fisico
Daniele Capra




Siamo soliti classificare le opere pittoriche rispetto al soggetto dell’opera, rispetto cioè al loro contenuto visivo. Consideriamo cioè un’opera esattamente come un’immagine, come un dispositivo bidimensionale da valutare essenzialmente in merito alla tipologia di informazioni che veicola. Nella nostra testa un’opera può essere così definita: figurativa, quando essa trasferisce a noi delle indicazioni di carattere rappresentativo rispetto alla realtà; o aniconica (cioé non-figurativa), quando essa non è basata sull’idea di mimesi, ossia quando non riporta alcun contenuto diretto del mondo per come lo osserviamo con i nostri occhi [1]. In questa classificazione l’astrazione è parte del secondo genere, e, come evidenziato dalla storia delle avanguardie del secolo scorso, è figlia di un allontanamento dal mondo, aspetto evidenziato anche dall’etimo della parola “astrazione” [2].


L’opera di Tiziano, di genere aniconico, è animata invece da un desiderio opposto rispetto a quella che è stata una delle tendenze più feconde del Novecento. La sua pratica artistica è mirata infatti a sviluppare una procedura di sedimentazione che permette al colore e, in senso più ampio alla realtà, di depositarsi sulla tela. Quello che attua nel suo studio è infatti un lungo processo di ordine organico, per le modalità lente e reiterate di lavoro, ed industriale per la tecnica e la tipologia dei materiali impiegati.


Martini infatti deposita sulla superficie pittorica del colore acrilico contro cui vengono premute delle superfici/matrici. Successivamente, quando è fissato stabilmente, attendendo cioè il tempo necessario all’asciugatura, l’artista strappa il colore con un’azione di forza, in modo che rimanga una traccia con una parte più o meno grande di materiale. Similmente a quanto accade ad alcune rocce che si sono formate nelle ere geologiche per il continuo depositarsi, strato dopo strato, di miliardi di molecole di elementi minerali, Martini realizza così decine di livelli fino a occupare visivamente la tela, fino a quando cioè la superficie manifesta un equilibrio e non si mostra più bisognosa di attenzioni. Diventa così centrale, nella sua pratica, la ricerca di un bilanciamento in cui interagiscono aspetti fisico-gestuali-psicologici (la necessità individuale da parte dell’artista di imprimere e strappare personalmente delle impronte cromatiche), e di ordine visivo, data la tendenza del medium pittorico a saturarsi, ad essere sazio di cure e di pigmenti acrilici.


Con tale modalità processuale si alternano momenti di lavoro in prima persona ad attese, a periodi cioè di stasi in cui l’artista deve attendere il tempo necessario affinché il colore si solidifichi. Il suo lavoro è così diviso in tanti intervalli alla fine dei quali si presenta sempre la sfida di un nuovo strappo, rispetto al quale è necessario governare la casualità, nella condizione mentale tale per sovvertire un’eventuale complicazione in una ulteriore possibilità espressiva. Risulta fondamentale in tale situazione possedere un’elevata capacità di reazione, che insieme all’esperienza maturata, permette di reagire agli eventi portando a compimento l’azione prestabilita (in questo Martini eredità evidentemente una maturità che gli deriva anche dalla pratica sportiva in montagna, vivendo l’artista tra le Dolomiti).


La composizione dei colori sulla tela nasce dalla combinazione di elementi volontari con aspetti aleatori, dovuti al riuso degli strumenti di lavoro e alla continua stratificazione nel suo studio di croste originate da strappi precedenti, di polvere, pigmenti e differente altro materiale residuale. Ciò che rimane dall’opera precedente è infatti anche parte dell’opera successiva, la quale porterà quindi in dote l’effetto di quello che è accaduto prima. C’è così, in questa continuo flusso, la riproposizione in forma pittorica di un concetto generativo che è proprio del ciclo della natura, ma, ancor di più, della tendenza alla trasformazione continua degli elementi della nostra realtà che è già stata evidenziata dal pensiero di Eraclito [3]. Proprio per questo le opere di Martini, vista la centralità dell’esecuzione ed il continuo reimpiego degli elementi materici costitutivi, vanno lette anche come degli aforismi visivi in cui si confrontano variabili come il tempo, la casualità ed il colore, con fenomeni di condensazione, intensificazione e rarefazione.


Nelle sue opere il mondo – attraverso le particelle di colore raccolte dal pavimento, grazie al continuo lavoro operaio dell’artista, a un senso temporale ciclico e umano – entra con forza indicibile nella tela.




[1] Cfr. R. Arnheim, Visual Thinking. Berkeley: University of California Press, 1969.
[2] Astrazione deriva dalla parola latina “abstractus”, composta dal suffisso “abs-” (“da distante”) and “trahere”, (“tirare”).
[3] Cfr. “Tutto si muove e nulla sta fermo” e “non si può discendere due volte nel medesimo fiume”, frammenti 91 e 49a, in H. Diels e W. Kranz, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Einaudi, Torino, 1976.