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Les yeux qui louchent

Les yeux qui louchent

Igor Eškinja, Fritz Panzer, Manuela Sedmach, Michele Spanghero, João Vilhena

Venezia (I), Galerie Alberta Pane
settembre ― dicembre 2017

TestoGli artisti
L’auspicabile strabismo
Daniele Capra




La realtà è la condizione in cui siamo immersi e in cui sviluppiamo la nostra esistenza in forma soggettiva, grazie all’impiego dei nostri sensi e delle strutture celebrali che ci permettono di ordinare ed elaborare le esperienze. Come ricordava Kant, «la coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza dell’esistenza di altre cose fuori di me» [1]: la consapevolezza di esistere implica cioè la coscienza non solo di un confine che mi determina, ma anche la presenza di qualcosa da conoscere al di là di me, all’esterno. Avviene così che, attraverso una continua negoziazione con gli altri individui, siamo proprio noi stessi a forgiare gli strumenti interpretativi attraverso cui vediamo la realtà e le rappresentazioni mentali che la mappano [2].


Ogni pratica artistica basata sulla realtà, che sia cioè ad essa interessata in quanto soggetto da indagare nelle sue innumerevoli implicazioni, impone all’artista un doppio sguardo, che però non deve essere specularmente bifronte, come quello di Giano, ma deve dirigersi su traiettorie differenti: se infatti un occhio deve essere rivolto a ciò che gli sta davanti (ossia diretto frontalmente verso ciò che si presenta alla sua vista), l’altro deve invece guardare più in là – dietro, sotto, sopra, altrove – e in modo divergente, tale da cogliere una vista del mondo non ordinaria. All’artista è cioè richiesto l’esercizio di un volontario e necessario strabismo che gli consenta di sottrarsi, in ogni modo, ai dettami prefigurati dell’ortogonalità di visione. Egli deve essere cioè visivamente, e con maggior forza intellettualmente, in una posizione di scomodità, conscio che tale condizione debba essere trasmessa ai suoi lavori. Solo in tale maniera la sua opera non è semplice descrizione, vuota didascalia o appendice, ma scomodo elemento di tensione che mira ad indagare e rendere manifeste le ragioni più recondite che costituiscono ed animano la realtà.


La consapevolezza che l’arte miri a fornire nell’osservatore delle letture critiche rispetto al mondo è fondamentale se si considera il lavoro dell’artista non come quello di un semplice produttore di manufatti con delle proprietà estetiche, ma come una pratica intellettuale che possiede marxianamente un’utilità sociale. Nella scomodità della propria condizione intellettuale, trasmessa poi visivamente e linguisticamente all’osservatore, si attua così un processo di attenzione che fa dell’artista strabico una non ortodossa sentinella, dotata di geometrica potenza. Di visione e di pensiero.




[1] I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Bari, Laterza, 2005, p. 190.
[2] Cfr. P. L. Berger and T. Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY, Anchor Books, 1966.

L’auspicabile strabismo
Daniele Capra




Nella sua ricerca Igor Eškinja confondere piani visivi differenti, creando stratificazioni che si prestano a molteplici piani di lettura. La serie Golden Fingers of Louvre, presente in mostra, sovrappone il valore immaginifico dell’istituzione museale francese con il dettaglio pittorico quasi barocco delle impronte lasciate dai visitatori. I segni dalle mani sono così elementi materiali che disorientano lo spettatore, il quale viene stimolato a volgere la propria interpretazione altrove, verso l’astrazione visiva o una possibile Institutional Critique.


Le opere di Fritz Panzer sono dei veri e propri disegni a dimensione reale del soggetto rappresentato realizzati con filo metallico, benché abbiano uno sviluppo tridimensionale. Grazie all’impiego di sottili linee di ferro, con cui vengono delineati gli spigoli ed i profili dell’oggetto, l’artista riconduce la volumetria in un unico piano visivo, comprimendone ferocemente le potenzialità mimetiche e mettendo lo spettatore in una condizione di ambiguità percettiva.


I lavori su tela di Manuela Sedmach nascono da una pratica pittorica minimalista attenta a rendere in forma ondivaga e profondamente intima dei paesaggi visivi in cui si mischiano aspetti realistici ed elementi frutto di elaborazione. Caratterizzate da una limitata palette di colori e da una resa morbida e vaporosa dei dettagli, le sue opere ci raccontano di mondi sommersi ed immaginari, degli universi mentali in cui gli spazi sfuggono alla rigida metrica prospettica.


Con la serie Translucide Michele Spanghero analizza, a partire da una riflessione di Gilles Deleuze, la modalità in cui un’immagine si manifesta a noi sotto forma di una rivelazione che abbisogna di un supporto traslucido su cui essa potersi depositare. In un video ed alcune immagini fotografiche l’artista rendo concreto tale processo rallentandolo in forma smisurata, trasformando l’immagine in un evento ed un flusso dilatato di informazioni che colpiscono il nostro occhio.


La ricerca di João Vilhena è caratterizzata dall’impiego in forma concettuale del disegno e della pittura. La serie L’amour des corps nasce condensando, sotto forma di disegno a grafite, il complesso legame di natura visiva intrattenuto con una donna con cui, in maniera casuale, l’artista ha instaurato una relazione di carattere esibizionistico. Le immagini di lei – conscia di essere vista – nel palazzo di fronte alla sua finestra, sono restituite in forma poetica come ritagli di una relazione visiva intensa, in cui lo spettatore può sostituirsi all’artista e perdersi in un gioco di triangolazioni visive.

In my beginning is my end

Igor Eškinja / Marco Godinho / Adam Vačkář
In my beginning is my end

Paris (F), Galerie Alberta Pane
aprile ― maggio 2015

In my beginning is my end
Daniele Capra




What we call the beginning is often the end
And to make and end is to make a beginning.
The end is where we start from
. [1]
T. S. Eliot


In my beginning is my end nasce dal confronto della ricerca di Igor Eškinja, Marco Godinho e Adam Vačkář, i cui lavori possiedono una particolare carica concettuale, visiva ed espressiva tali da intercettare l’incerto orizzonte temporale dell’osservatore e da agire rispetto ad esso con dinamiche di frizione, spostamento, anticipo. Non si è posta cioè attenzione alla durata di fruizione in sé, quanto invece al fatto che nella loro ricerca si caratterizzi per essere un dispositivo generatore di senso che si misura costantemente nel suo essere sfasato rispetto a quei contenitori di ordine che noi siamo soliti chiamare tempo presente, tempo passato o tempo futuro. Frequentemente le opere scelte hanno infatti la forza per essere nel contempo l’alfa in anticipo e l’omega in ritardo [2] – o viceversa – in grado di sfidare l’osservatore alla ricerca di un incessante riassetto temporale.

Nel campo delle arti visive l’idea di utilizzare il tempo come elemento del divenire, e non come aspetto contro cui titanicamente lottare, diventa istanza rappresentativa consapevole solo con le avanguardie del Novecento. In particolare nel Futurismo italiano (si pensi Marinetti o a Boccioni, ma anche alle sperimentazioni audio di Luigi Russolo) si segnala un grande interesse nel mostrare il tempo attraverso gli effetti di movimento, e non di meno la ricerca di una quarta dimensione è stata alla base della rivoluzione pittorica innescata dei cubisti. Ma è solo negli anni Sessanta che la variabile tempo entra essa stessa compiutamente tra gli strumenti espressivi, costituendo un elemento centrale dei nuovi sviluppi artistici in un’ottica antiretorica, antioggettuale ed orgogliosamente anticonsumista. Nascono gli happening e prende forma la sensibilità Fluxus, che predica come «la linea tra arte e vita debba essere resa fluida e forse più indistinta possibile» [3]. L’artista opera in prima persona per costruire un contesto ideologico che lo sottragga dal dover essere produttore di opere tradizionalmente basate sull’uso di materiali che occupano uno spazio [4] e che diventano feticci di mercato. Il tempo, quello progressivo ed unidirezionale, diventa infatti il garante dell’irripetibilità dell’azione artistica, ne delimita i confini e ne determina la fruibilità da parte dello spettatore, impedendogli la possibilità di reiterare l’esperienza visiva. Mai come in questo contesto il tempo dell’opera e il tempo della visione coincidono e l’opera diventa esclusivamente lo spazio mentale del ricordo, la trama di relazioni neuronali che ne fissano chimicamente la memoria.

Ma un’opera che non sia già dalla sua ideazione momentanea e sfuggevole, come la performance o gli happening, o programmata per non durare nel tempo – si pensi ad esempio alle tele di Gustav Metzger, che venivano trattate con acidi che causavano la corrosione della superficie – interagisce con l’orizzonte temporale dello spettatore essenzialmente grazie ad una dinamica di sfasamento. Al di là del tempo necessario alla sua osservazione/fruizione, in cui il tempo dell’opera e quello dello spettatore combaciano per inevitabile presenza di entrambi, un’opera compiutamente riuscita (che non sia cioè un banale esercizio di stile né una semplice occupazione di spazio, ma sia un’opera perfettamente ergon [5]) possiede, nella sua finitezza, i germi del futuro, che convivono assieme alle istanze del passato e a quelle del presente che percorriamo. L’opera è cioè un dispositivo di attraversamento, che raccoglie parte di quello che sta oltre la lancetta che segna il progredire del tempo assieme a tutto ciò che è appena stato vissuto.

È l’incessante sfasamento rispetto al qui e ora dell’opera a determinarne quindi un’estensione temporale inattesa, poiché essa agisce nel mondo e rispetto l’osservatore in una continua ricollocazione, anticipando quel momento che nell’arco di un istante è presente e poi passato. Possiamo in qualche modo estendere all’opera d’arte quella modalità esistenziale che il filosofo Giorgio Agamben intravede nell’essere contemporaneo, in «colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; e anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi» [6]. Se un’opera infatti, a partire dalle proprie origini, non è in grado di anticipare qualcosa rispetto al futuro, essa perde una delle sue maggiori funzioni: l’essere eversiva, obliqua, in grado di interrogare l’osservatore e di condurlo altrove, anche temporalmente. La forza, la vitalità dell’opera, nasce dal suo racconto del passato e dal suo predicare in anticipo quello che deve ancora manifestarsi al nostro sguardo. L’opera, in ultima istanza, agisce come uno strumento mentale che è funzionale al nostro inconscio desiderio di strabismo, ossia la volontà di guardare e vedere oltre le nostre capacità.

Una delle questioni più significative aperte dai Quattro Quartetti di T. S. Eliot riguarda la natura del tempo e le modalità secondo cui esso ininterrottamente si rigenera ricombinando le scansioni del tempo (passato, presente, futuro), rendendo tale tassonomia inutile o inefficace a raccontare la condizione umana. Se nel primo Quartetto Eliot scrive che «Il tempo presente e il tempo passato / Sono forse insieme presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro è già compreso nel tempo passato» [7], egli arriva ad argomentare alla fine dei quattro poemi come «Ciò che chiamiamo inizio è frequentemente la fine / E finire è iniziare»[8]. La fine non è cioè la conclusione, ma l’inizio di una nuova attesa, il punto da cui si comincia, in un ciclico susseguirsi di eventi che mette in discussione la nostra facoltà di ordinare cronologicamente causa ed effetto. Di conseguenza l’univocità dell’orizzonte temporale non è garantita se non adottando un modello probabilistico o per continui successivi aggiustamenti.

In maniera analoga le opere di In my beginning is my end nascono dal desiderio di sfidare chi guarda interrogandolo in merito al soggetto rappresentato e al processo realizzativo (Eškinja), alla labilità delle definizioni e alla fragile permeabilità dei confini tracciati (Godinho), ai valori convenzionali che determinano i rapporti economici e alle moderne dinamiche di previsione del futuro (Vačkář). In un orizzonte incerto e da negoziare costantemente, la sola sicurezza ideologica è quella di non cessare mai di farsi domande. Prima, durante e dopo.




[1] T.S. Eliot, Little Gidding, in The Four Quartets, Harcourt, New York, 1943. Il titolo del testo e della mostra è invece il verso iniziale di East Cocker, secondo dei Quattro Quartetti.
[2] Nell’Apocalisse di Giovanni Gesù dice “Io sono l’Alpha e l’Omega” ben tre volte (versi 1:8, 21:6 e 22:13). Le lettere alfa ed omega (α and ω) sono usate come simbolo della totalità del mondo, poiché sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Frequentemente venivano usate con l’immagine sacra di Cristo nell’arte medievale e nella tradizione della Chiesa Ortodossa.
[3] A. Kaprow, Untitled guidelines for happenings, in Assemblage, Environments and Happenings, New York, 1966, ristampato in Essays on the Blurring of Art and Life, University of California Press, Berkeley, 1993, p. 62.
[4] Utilizzo la classificazione comunemente utilizzata tra «space-based» e «time-based» media.
[5] Mi riferisco alla definizione di opera che dà Immanuel Kant ne La critica del giudizio, ma non alla contrapposizione ergon/parergon (opera/contesto).
[6] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008.
[7] T.S. Eliot, Burnt Norton, in The Four Quartets, op. cit.
[8] T.S. Eliot, Little Gidding, in The Four Quartets, op. cit.

Istruzioni per il non uso di un aggettivo

Istruzioni per il non uso di un aggettivo

saggio, boîte magazine
autunno 2014

Igor Eškinja, Foundations, 2014, nastro adesivo su muro, dimensioni ambientali

Istruzioni per il non uso di un aggettivo
Daniele Capra




Sin da quando ho iniziato ad occuparmi di arte contemporanea mi sono imbattuto con sospetta frequenza in quello che è difficile non considerare un uso distorto di un lemma, per la precisione di un aggettivo, in tutte le sue declinazioni. Può sembrare una banale questione lessicale, ma le parole sono veri e propri mattoni che portano con sé, oltre al proprio significato e la propria carica connotativa, il peso della loro stessa storia, della prassi dei parlanti, delle sfumature aggiunte dalle intenzioni o dai modelli ideologici di riferimento.
Eppure, oltre quarant’anni dopo la sua nascita, l’attributo «concettuale» viene usato pressoché a sproposito nella descrizione e nella lettura delle opere, tanto più perché erroneo/improprio dal punto di vista metodologico (A), scorretto storicamente (B) ed esteticamente (C). Ma il fascino che riscontra sembra sedurre in maniera indifferente artisti e galleristi, curatori o collezionisti, accomunati da percepire il valore positivo che l’aggettivo veicola, e dal fatto di essere perfetto come stereotipo che indica un lavoro di ricerca, non direttamente fatto per essere venduto. Contribuisce cioè a garantire l’idea dell’elevato tasso di contemporaneità e sperimentazione, qualità particolarmente desiderabili per un’opera, e ― in maniera non trascurabile ― a veicolare un senso di opposizione all’idea di opera come produzione artigianale dell’artista (che si riscontra sovente nella pittura o nella scultura classica).
Per capire cosa sia un’opera concettuale conviene rileggerne quello che ne è, forse anche involontariamente, il celebre ed improprio manifesto ― Paragraphs on Conceptual Art ― scritto da Sol LeWitt e pubblicato sul numero di giugno 1967 di Artforum.


(A) Un fatto di metodo
In uno dei più citati passaggi, l’artista Americano scrive: «In conceptual art the idea or concept is the most important aspect of the work. […] The idea becomes a machine that makes the art». L’idea (o meglio sarebbe dire l’ideazione) è l’elemento più importante, poiché e da questa che scaturisce l’opera: ne è cioè la parte più significativa, e potremmo dire che, nelle intenzioni di LeWitt, tutto il resto è noia. Esempi rilevanti sono ad esempio i wall drawings dello stesso artista o le frasi in lettere prespaziate di Lawrence Weiner, la cui opera è essenzialmente il dettagliato progetto esecutivo dell’opera stessa, realizzabile da chiunque abbia delle minime capacità tecniche, liberando l’artista dall’esecuzione manuale e limitando il suo lavoro all’analisi teorica. La realizzazione pratica, è un semplice atto conclusivo: «When an artist uses a conceptual form of art, it means that all of the planning and decisions are made beforehand and the execution is a perfunctory affair».
È in quest’ultimo passaggio che ha origine uno degli equivoci nell’uso della parola concettuale. Ogni opera che nasce da un progetto è, infatti, definita «concettuale», indipendentemente dalle sue implicazioni teoriche e dalla rigida compartimentazione idea/realizzazione che porta a considerare opera il progetto e non il suo manufatto. Musei e collezionisti acquisiscono infatti le istruzioni per la realizzazione e il diritto a farlo eseguire, e non l’oggetto fisico, il feticcio‐opera compiuto.


(B) Il peso della storia
Non va sottovalutato poi come l’arte concettuale, esattamente come il minimalismo, nasce in aperta reazione alla pittura eroica e lirica (si pensi ad esempio a De Kooning, Pollock e Rothko) e al chiasso visivo della Pop Art, che dagli anni Cinquanta erano le correnti dominanti negli Stati Uniti. Era quindi necessario sviluppare una poetica che fosse impersonale, che mettesse in un angolo il protagonismo e l’ego creativo dell’artista. Così LeWitt puntulizza come il concettuale «is usually free from the dependence on the skill of the artist as a craftsman». Tanto l’ego dell’artista, quanto le sue capacità tecniche, quindi, non contano.
Ai nostri giorni, benché vi siano artisti che non possiedono alcuna particolare abilità né sentano necessario possederle, il concetto di a‐personalità non risulta particolarmente attraente (come si nota ad esempio anche alla rarità di lavori a quattro mani o alla totale scomparsa di opere realizzate da collettivi). E questo si osserva tanto più in un frangente in cui l’artista è comunque costretto a lottare per non essere deglutito dal sistema e dal gran numero di colleghi. Caratterizzare la propria ricerca è diventato di importanza fondamentale.


(C) L’artista estetista
Tra le conseguenze delle tesi di LeWitt vi è la non adozione di un criterio estetico: essendo l’opera il frutto di concetti, la sua formalizzazione deve essere improntata al rigore e alla chiarezza, in una modalità che potremmo dire cartesiana. L’arte concettuale non si cura, quindi, di alcuna scelta estetica, ma di essere intellegibile. Nella vulgata corrente si è soliti usare invece la parola «concettuale» per definire opere che hanno delle estetiche sfuggevoli, ma in qualche modo predefinite. Si pensi ad esempio a molti lavori in cui si registra la presenza di objets trouvés, l’utilizzo dei quali, ai nostri giorni, ha evidentemente perso la carica eversiva che si poteva registrare nel secolo scorso. Ora tale modalità veicola anche valori di tipo estetico al punto talvolta di essere un genere, o, meglio, una semplice scelta di linguaggio.


Istruzione sintetica
Realizzare un’opera sviluppando un costrutto in un momento temporale antecedente alla sua realizzazione pratica non indica affatto che l’opera sia da ascrivere all’arte concettuale, quanto piuttosto che il suo metodo costruttivo sia contraddistinto dal progetto.
Realizzare un’opera affidando l’esecuzione ad altri non indica affatto che l’opera sia da ascrivere all’arte concettuale, ma che invece i processi esecutivi sono frequentemente complessi.
Realizzare un’opera ponendo l’attenzione a qualsiasi scelta estetica annulla o limita la sua esclusiva attenzione al concetto.
Tutte situazioni in cui il buon vecchio Sol storcerebbe il naso.

Igor Eskinja. Infinity paper

Igor Eškinja
Infinity Paper

Rovereto, Deanesi Gallery
aprile — giugno 2013

Fuck the White Cube

Daniele Capra




Leo Castelli, in un’intervista rilasciata negli anni Sessanta cui parla della nascita del sistema delle gallerie a New York [1] nel secondo dopo guerra, racconta di come lo spazio del collega – e rivale – Sidney Janis, aperto sin dal 1948, evochi l’atmosfera rilassata di una casa: nella galleria, infatti, trovano spazio un divano e delle comode poltrone. Consultando le foto dell’epoca in occasione della mostra International Dada (siamo nel ‘53) è possibile scorgere perfino la presenza di un tappeto, proprio a fianco a un lavoro di Duchamp.

In quegli anni, infatti, si andavano via via definendo gli standard espositivi di quella che convenzionalmente sarà chiamata «arte contemporanea» e le dinamiche di interazione spazio/opera non erano ancora state messe a punto. Sempre nella stessa interviste Castelli spiega invece come la sua galleria fosse stata immaginata per far percepire all’osservatore la tensione intellettuale delle opere, senza però specificare in quale modo, che possiamo solo intuire. Erano quegli gli albori di una muova modalità espositiva, basata sul modello del white cube, i cui esiti non sono tardarono a venire considerando la sua successiva adozione da parte non solo delle gallerie, ma anche dai musei in cui era esposta arta contemporanea (per l’arte antica il modello prevalente è ancora quello con pareti con colorate e scure, benché non manchino casi contrari come il Louvre di Lens, recentemente costruito su progetto degli architetti giapponesi SANAA).

L’utilizzo di un dispositivo come il white cube serve per minimizzare gli elementi caratterizzanti dei luoghi, per evitarne l’interazione con le opere. In modo per certi aspetti ideologico, tale modello serve per marginalizzare l’ambiente, e per far emergere il contenuto che ospita e che ne motiva/garantisce l’esistenza. Il sistema è finalizzato a pianificare e perseguire la percezione di preziosità del soggetto – a renderlo cioè indiscutibilmente centro visivoed intellettuale – portando al grado zero ogni aspetto ambientale, grazie all’uso del color bianco alle pareti e l’appiattimento o la rimozione di tutte le particolarità architettoniche. Tale prassi ricorda da vicino la pratica inaugurata progressivamente nelle chiese protestanti in seguito alla riforma voluta da Martin Lutero o, negli stessi anni, dal più radicale Huldrych Zwingli a Zurigo: gli edifici dovevano essere svuotati dalle immagini di santi o della Madonna, atti a distrarre/blandire i fedeli. Fatta tabula rasa di ogni orpello, le chiese potevano ritornare spazi di spiritualità, come veniva insistentemente sottolineato dal vuoto alle pareti, che concettualmente sorregge il valore dell’elemento spirituale. In maniera del tutto analoga funzionalmente il white cube ha trasformato la galleria spostando l’attenzione verso il contenuto ospitato, diventando una sorta tempio laico in cui l’opera può trovare il proprio spazio sacro, il recinto in cui è protetta dallo scorrere del tempo quotidiano.

Ribalta questa logica Igor Eškinja, il quale nella sua ricerca si è frequentemente servito del white cube non tanto come contenitore/cornice finale, bensì quale strumento di lavoro. Sin dalle sue immagini di metà degli anni Duemila, l’artista ha infatti sviluppato numerose serie di set fotografici nel proprio studio, che è esteticamente, ma anche concettualmente, simile a quello dello standard espositivo odierno. Nel suo caso però il white cube non ha la funzione di artificiale amplificatore e moltiplicatore di interesse, ma si caratterizza per essere semplicemente contesto per la creazione di un’immagine, su cui intervenire continuamente in maniera non dissimile da quanto Morandi amasse fare combinando ogni volta in modo differente le bottiglie sul tavolo del proprio studio (e infatti molte di queste sue opere possono essere lette musicalmente come continue e successive variationes rispetto un tema assegnato, la cui importanza è nel suo essere elemento generante e manipolabile).

Gli scatti della mostra Infinity Paper sono stati realizzati dentro il white cube e con l’utilizzo di un materiale, la seamless paper, che ha per sua stessa natura forza straniante. Tale carta, infatti, è adoperata dai fotografi in studio per creare gli sfondi neutri che servono nella pratica del ritratto o dello still life, in cui è necessario decontestualizzare il soggetto rendendo artificialmente indefinito lo spazio. Combinando questi due ingredienti normalizzanti Eškinja mette in luce invece le potenzialità espressive che essi hanno: l’algido contesto diventa un surreale generatore di immagini, rendendo gli strumenti programmati per l’omogeneità capaci invece di innate potenzialità perturbanti.

La combinazione di due elementi neutralizzanti dà così per risultato delle forme che i nostri occhi percepiscono per la loro discontinuità. Quelle immagini con ritagli di carta che raffigurano oggetti tridimensionali o persone, stampate ed esposte all’interno della galleria per la mostra, finiscono quindi ad essere meta-rappresentazione, teatro nel teatro in cui paradossalmente realtà e rappresentazione non smettono di scambiarsi i costumi di scena. In questa doppia neutralizzazione nemmeno avvertono la necessità ontologica di essere esposti in un white cube o in un ambiente esteticamente equivalente. Anzi, paradossalmente, riescono a ripulire gli occhi a chi guarda anche se collocati tra i tappeti e i divani della galleria del buon vecchio Janis.




[1] Paul Cummings, Oral history interview with Leo Castelli, 1969 May 14-1973 June 8, Archives of American Art, Smithsonian Institution (disponibile su Archives of American Art site, consultato il 15 settembre 2014).


Igor Eskinja. The day after

Igor Eškinja
The Day After

Milano, Federico Luger Gallery
novembre 2011 ― gennaio 2012

The Day After
Daniele Capra




The Day After raccoglie le opere realizzate per la Fondazione Pomodoro in occasione della personale mai inaugurata causa la fine dell’attività dell’istituzione. In particolare i lavori di Eškinja, nati a partire da effimere e complesse situazioni site specific sullo spazio della fondazione, raccontano la forza e la vitalità dell’arte che sopravvive al tempo e resiste alla sfuggevole mutevolezza del contesto umano, sociale e politico.

Eškinja ha realizzato dei set fotografici in situ, sovrapponendo alle consuete geometrie del luogo delle vere e proprie finestre, dei ritagli visivi in cui l’occhio della fotocamera fosse ingannato permettendo a chi guarda di vedere gli spazi possibili oltre la siepe. L’artista ha avvertito infatti l’esigenza di costruire dei nuovi contesti per ambientare le proprie rappresentazioni, in maniera tale che l’opera – la fotografia – possa essere il prodotto finale di un’operazione scultorea e tridimensionale: in questo modo realtà e spazio di visione coesistono ambiguamente, l’uno all’altra indissolubilmente legati. Nel lavoro di Eškinja la manipolazione dell’architettura e delle sue geometrie (in forma non invasiva né irreversibile: successivamente alla realizzazione dello scatto, gli ambienti vengono difatti riportati alla situazione iniziale) è l’artificio grazie a cui è retto il suo metateatro; e la finzione artistica diventa rappresentazione del corto circuito tra tutte le possibili prospettive.

Nel condensare un complesso lavoro allestitivo in uno scatto di una frazione di secondo o nell’impiego nella realizzazione del set di materiali di scarto, come la sabbia utilizzata per gli stampi durante la fusione dei metalli (gli spazi della Fondazione Pomodoro erano ricavati in una ex fonderia), le opere dell’artista croato sottolineano così la dimensione transitoria e fragile della costruzione di senso. Ma anche la volontà di uno slancio vigoroso, necessario ad afferrare il tempo che fugge e a trattenerlo con forza fino al giorno dopo.

Contractions

Contractions. L’opera tra implosione energetica ed espansione di senso

Bianco-Valente, Ludovico Bomben, Nemanja Cvijanović, Alessandro Dal Pont, Igor Eškinja, Nicola Genovese, Jacopo Mazzonelli, Giovanni Morbin, Michelangelo Penso, Roberto Pugliese

Sospirolo, Dolomiti Contemporanee
settembre ― ottobre 2011

Tra implosione energetica ed espansione di senso
Daniele Capra




In che modo un capannone che sembra raccontare l’ultimo scampolo produttivo del Novecento è in grado di intercettare la contemporaneità che pare fatta di idee, pensieri, bites? Che rapporto esiste tra un ambiente teoricamente inadatto ad ospitare un’opera d’arte e l’opera d’arte stessa?

Quali sfide e quali le difficoltà di mostrarsi al di fuori non solo dell’auspicabile white cube, ma anche in un contesto che non è neutro, ma che diventa narrativo ed evocativo nel momento in cui ha perso la funzione per cui è stato pensato e realizzato? Quali sono le strategie grazie a cui gli artisti riescono a prelevare dalla realtà non tanto la classica porzione da decontestualizzare (l’objet trouvé), quanto le potenzialità insite in un contesto per aggiungere nuovi stimoli interpretativi ad un’opera o per crearne una ex novo?

Il fascino seducente e silenzioso del poderoso complesso industriale di Sass Muss di Sospirolo è l’occasione per indagare le modalità e gli approcci grazie a cui un’opera d’arte può nutrirsi e sostenersi non tanto (e non solo) nella sua irripetibile unicità, quanto nel suo essere ricettacolo di stimoli esterni, straordinario magnete capace di attirare a sé le energie del contesto. Gli input ambientali hanno così la funzione mediale di “campi di senso”, di vettori che permettono all’opera di deflagrare e di polverizzarsi nel contesto in cui essa stessa è collocata. Mai come in questo caso, l’artista svolge il doppio ruolo di maieuta e attivatore di fuochi d’artificio, mentre l’opera diventa innesco, punto di partenza di connessioni interno/esterno, luogo di incrocio tra micro e macrocosmo.

La mostra nasce dal lavoro coordinato di dieci artisti chiamati a realizzare o a ripensare/ricollocare una propria opera relazionandola alla non neutralità del contesto. Gli artisti invitati sono Bianco-Valente, Ludovico Bomben, Nemanja Cvijanović, Alessandro Dal Pont, Igor Eškinja, Nicola Genovese, Jacopo Mazzonelli, Giovanni Morbin, Michelangelo Penso, Roberto Pugliese. Ciascun artista, a partire da una tessera della matrice a scacchiera del capannone (lo spazio è diviso in navate a matrice regolare) si fa così carico di radunare l’energia del luogo e per far esplodere le potenzialità del proprio lavoro.

Stratifications

Stratifications

Giancarlo Dell’Antonia, Igor Eškinja, Florence Girardeau, Bruno Kladar, Marie Lelouche

Parigi (F), Galerie Alberta Pane
giugno ― luglio 2010

TestoGli artisti

Un groviglio di strati

Daniele Capra




Uno della strategie ineludibili cui i pianisti ricorrono per imparare la musica è lo studio dello strumento a mani separate. Non ci sono alternative: mano destra e sinistra – che raramente hanno tessuti musicali naturalmente accomodanti avendo molto spesso funzioni diverse – non devono essere apprese simultaneamente. L’esecutore deve infatti sedimentare nella propria mente e nelle proprie mani differenti movimenti, differenti posizioni, per poi mettere insieme le due tracce solo successivamente. Il processo grazie a cui viene costruita un’azione complessa, come produrre della musica, avviene cioè per una forma di automatismo in cui vengono sovrapposti fino a coincidere istanti temporali maturati in momenti differenti. Ad eccezione di quella aleatoria, tutta la musica (compreso il contrappunto e la musica jazz) vive questa condizione di ricomposizione di ciò che è capitato in momenti temporali precedenti.

Più in generale la dinamica di stratificazione è originata dalla complessità del reale e dal perdurare delle nostre azioni oltre un determinato istante. La stratificazione testimonia cioè il fatto che il tempo esista e che stia incessantemente scorrendo, come similmente ci spiega il principio di entropia con successivi incrementi del grado di disordine dell’universo: entrambe sono cioè caratterizzate da un valore sempre crescente.

La disposizione spaziale e temporale degli elementi sviluppa strutture visive e concettuale dalle forme differenti. Uno degli esempi che facilmente troviamo in natura è ad esempio la grafite ed il diamante, che sono originati da differenti combinazioni degli stessi elementi di partenza: l’uno serve ad esempio per le matite, l’altro per i gioielli più preziosi: la loro differenza sta solo nell’essere disposto a strati o in più ordinate struttura cristalline. Caos ed ordine (e tutti i gradi intermedi tra gli estremi) sono cioè le possibilità in cui ogni forma di stratificazione può avvenire.

Ma la struttura a più livelli non è solo prerogativa degli elementi naturali, ma è diventata anzi una delle più ricorrenti dinamiche messe in atto dall’uomo a partire dalla modernità, che possiamo senza dubbio dire essere caratterizzata dal suffisso -multi. Gli oggetti che ci circondano, ma anche il modo in cui lavoriamo o gestiamo le nostre relazioni sono infatti improntate all’incrementare stratificazioni differenti, con l’effetto che ora viviamo in un mondo a sandwich: la nostra vita si caratterizza come una sovrapposizione a più livelli di istanze, visioni, desideri, frustrazioni, luoghi e persone. Ma anche nel computer abbiamo sempre più finestre aperte nello stesso momento e il lavoro che facciamo è necessariamente per stratificazione. Siamo cioè multitasking, abituati a seguire contemporaneamente molteplici attività, a condurre differenti linee di pensiero ad altezze eterogenee, senza che questo ne implichi la commistione né tantomeno la precluda. Muoversi agilmente gestendo la complessità è evidentemente il pane quotidiano dell’uomo moderno ed è diventata una delle maggiori ansie di quello postmoderno. L’effetto è cioè quello di un mondo in cui le informazioni non hanno più una unica fonte, una origine mono, ma circolano sono al contrario per continua sovrapposizione, quasi sia possibile aggiungere a ciascun elemento infiniti addendi, talvolta di peso quasi nullo: ciò ci spinge in quella condizione ondivaga e liquida di cui parla Zygmunt Bauman, che ci mette nella situazione di essere noi stessi come un browser internet che costantemente si aggiorna con la nuova versione della pagina.

In modo parallelo il depositarsi incessante di materiale crea accumulo e sedimentazione ad alimentare la stratificazione, come capita ai nostri hard disk affollati di dati o alle librerie in cui è sempre più difficile trovare spazio per l’ultimo volume acquistato. Il continuo ed inesorabile depositarsi di oggetti ed immagini ci permette, ad intervalli irregolari, di confrontarci con il passato ignorato e dimenticato per distrazione, o con il futuro che deve ancora trovare il proprio posto. In particolare siamo sempre più in grado di avere con noi pezzi e strati completi in cui abbiamo – anche inconsapevolmente – lasciato un’impronta, mentre la nostra identità si costruisce nella selezione, nei pochi particolari che davvero contano dei quali conserviamo intimamente memoria. La stratificazione sembra così mostrare la sua doppia faccia. Divisa tra l’istantanea e molteplice fluidità del divenire, dell’aggiornamento costante nell’hic et nunc, e l’accumulo spropositato di esperienze ed informazioni, di cui, per leggerezza o necessità, rifiutiamo ogni consapevolezza.

Gli artisti

Daniele Capra




Giancarlo Dell’Antonia
I lavori di Giancarlo Dell’Antonia della serie MCSL2 (Modernity) nascono dall’osservazione del proprio tavolo di lavoro e del continuo cambiamento degli oggetti collocati. Libri, riviste, lettere e attrezzi da disegno si accumulano e si spostano senza soluzione di continuità sul piano, poiché costantemente vi sono nuovi elementi che generano cambiamenti nella scala delle priorità o nel layout visivo. L’artista ha riprodotto la stessa dinamica in forma digitale accumulando e collocando a più livelli differenti immagini del tavolo, in maniera tale che ogni oggetto perda la propria funzione e sia semplice elemento in grado di testimoniare uno stato del continuo processo di modificazione. Si sovrappongono così nell’immagine tanti ritagli, tanti piani temporali, ognuno dei quali conserva un’istantanea di quell’attimo di transizione ormai archiviato e di quelli che lo hanno proceduto o seguito.


Igor Eškinja
Igor Eškinja ama mescolare e confondere piani visivi differenti. Le sue stratificazioni nascono dalla somma di pezzi di realtà e sovrastrutture rappresentative che rendono possibili letture stranianti, basate sull’illusione. Eškinja costruisce rebus che mettono in difficoltà l’osservatore o le inducono ad essere autoironico, a ridere della propria condizione transitoria e fallace. Se fidarsi delle proprie percezioni è talvolta l’unica ancora di salvezza, l’artista croato ci da un monito ad esserne consapevoli, a prestare molta attenzione: il nastro adesivo, la polvere o il filo elettrico riescono infatti a sedurci come le sirene di Ulisse. Non rimane che lasciarsi conquistare dal canto dalle creature marine.


Florence Girardeau
Florence Girardeau trova su internet le immagini che utilizza per realizzare i propri collage. La rete delle reti informatiche è il punto di partenza per un processo in cui perde la propria funzione iconica e viene smaterializzata, ritagliata a strisce in cui nulla è riconoscibile. Le sue opere testimoniano così la quotidiana morte delle immagini ma nel contempo sono intelligentemente in grado di generare nuove visioni, nuove orografie in cui montagne immaginarie sono create, a partire da mille elementi differenti che si perdono nell’indistinto. Il vetro li raccoglie e ci rende possibile una visione in trasparenza. Ma le immagini sono così nella nuova vita semplicemente strati, porzioni di qualcosa che non ci è dato a capire ed in cui ci si perde.


Bruno Kladar
Il processo di scarnificazione della tela che mette in atto Bruno Kladar è in sé violento e spirituale. L’artista infierisce sulla tela, sulla superficie che ha raccolto pigmenti ma anche molte immagini che appartengono storia dell’arte. La violenta e la ama, riducendola a brandelli ma anche facendola vibrare in forme micro in grado di comporre un mosaico a più livelli visivi. Il processo si sviluppa dalla sedimentazione dei pezzi nel proprio studio: la tela cade a terra, in disgrazia, per poi risorgere in una composizione astratta, in cui il peso viene cancellato dalla semplicità della forma. E quei frammenti, in un nuovo ordine, danzano sotto i nostri occhi come delle margherite in un campo d’erba.


Marie Lelouche
Marie Lelouche porta all’estremo la possibilità che uno stampo ha di riprodurre fedelmente un pezzo di realtà. Le porzioni di zigomi che lei ha realizzato perdono infatti progressivamente il potere magico di copiare i particolari anatomici della persona e ci mostrano invece come dietro ogni copia vi sia una porzione di infedeltà impercettibile. Gli stampi infatti, ad ogni successivo impiego, sono meno fedeli, ed i suoi occhi assomigliano sempre di più a qualcun altro. Ogni stratificazione materica allontana visivamente la copia dal modello, ma quasi non ce ne accorgiamo. Ogni impronta di mondo degrada così in un residuo, in una scoria, in un vuoto.

Limite alla rovescia

Limite alla rovescia

Giancarlo Dell’Antonia, Ulrich Egger, Igor Eškinja, Chris Gilmour, Sergio Scabar, Serse

Vittorio Veneto, Palazzo Minucci
settembre ― ottobre 2009

Limite alla rovescia
Daniele Capra




Hanno avuto ragione i Futuristi. È la velocità che ha più di tutto caratterizzato l’epoca moderna, in una accelerazione inimmaginabile prima dell’avvento della tecnologie, della società dell’informazione [1]: rapidità di comunicazione, di spostamento, di visione, di compressione del tempo. In maniera ancora più spinta l’avvento della rete internet ha consentito un riversamento quasi infinito di informazioni ed immagini nell’agorà in cui viviamo, causando una progressiva sintesi dei contenuti di valore, cui è seguita una perdita di autorevolezza dei centri da cui tradizionalmente provengono le informazioni, trasformati più prosaicamente in nodi di una maglia enorme e diffusa. Curiosamente, nonostante un simile affollamento – se si eccettuano alcuni fatti esemplari caratterizzati da una non disinteressata lettura politica (si pensi per esempio all’epopea americana della lotta al terrorismo seguita sull’Undici Settembre) – sembra che le masse siano uscite dalla storia e che la vita si trascorra in una bolla sospesa e disorganicamente estranea al fluire del tempo. Il Novecento potrebbe infatti agilmente essere visto come il secolo in cui le masse entrano nella storia (la Rivoluzione Russa, le guerre mondiali) per fuoruscirvi con la fine della Guerra Fredda: in questi anni si concentra e si aggroviglia un secolo che è inevitabilmente breve.

La tendenza alla sintesi e alla velocità hanno determinato così una forte predominanza della vista sugli altri sensi e, parallelamente, si è assistito alla prevalenza della sintesi icastica sull’analisi argomentativa. Ormai, all’uomo di strada, il mondo pare srotolarsi ai propri occhi in una bulimica sequenza ininterrotta di immagini, continuamente in movimento come i mezzi sui quali esso stesso si sposta. Ed è proprio a questo approccio cinetico, o meglio locomotivo, che sembrano opporsi alcuni artisti, seppure con dinamiche del tutto eterogenee, chiedendo all’osservatore di fermarsi, di ri-vedere, ri-guardare, forse anche di ridere. Il gioco è chiaro: andare controcorrente per proporre una visione pacata, nell’otium. Passare del tempo investendo il minimo necessario per portare al limite opposto la visione, tanto nella percezione retinica quanto nella suggestione e nella comprensione concettuale: è cioè un limite alla rovescia.

La necessità di un’esperienza non affrettata e che avverte il bisogno di uno sguardo reiterato e non superficiale, indica la presenza, anche nel campo della ricerca d’arte contemporanea, di una contro-tendenza già registrata e codificata in altri settori della cultura (pensiamo ad esempio al cibo e al vino prodotti slow): solo guardando attentamente aspettando che le pupille scoprano i grigi nell’oscurità è infatti possibile leggere le fotografie di Sergio Scabar, e ugualmente i disegni a matita di Serse, che richiedono all’osservatore di perdersi nei dettagli e nella contemplazione degli elementi naturali realizzati con una tecnica prodigiosa. Ulrich Egger ed Igor Eškinja portano altrove il limite: rispettivamente nella finzione dei materiali che si confondono con la realtà, e nella rappresentazione fotografica che sceglie di essere programmaticamente antiprospettica e per questo spiazzante. Per Dell’Antonia il paesaggio urbano scompare invece nelle sue continue trasformazioni che lo rendono irriconoscibile, ormai nemmeno da fermi, mentre nelle opere di Chris Gilmour il limite è presto denunciato in una improbabile e straniante copia del reale nella versione poverissima ed antiretorica del cartone.

Tutti questi artisti hanno infatti sviluppato una dinamica concettuale di superamento della visione, che si manifesta nella forma di conoscenza soggettiva del mondo attraverso il manufatto oggettivo (l’opera): la pratica artistica diventa così una fondamentale protesi visiva, uno strumento di interrogazione ed esplorazione del reale dalle infinite possibilità negate alla visione quotidiana. L’opera risulta pertanto il baluardo estremo per la comprensione di un mondo che, nella sua stessa sostanza e nelle ambiguità interpretative, sempre più spesso gioca non solo a dadi, come già enunciava Eraclito, ma perfino a nascondino.




[1] Scrive infatti P. Virilio ne L’arte dell’accecamento (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 84): “Lo si voglia o no, ciò che è oggi largamente contestato dalla dismisura del progresso cibernetico, e dall’accelerazione ipersonica, è l’insieme della rappresentazioni a solo benefici delle tecniche di comunicazioni istantanee”.