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The Intruders

The Intruders

Ivan Dal Cin, Veronica De Giovanelli, Francesca Longhini, Tiziano Martini, Elena Mazzi, Jacopo Mazzonelli, Laurina Paperina, Gianni Politi, Roberto Pugliese, Alberto Scodro, Eugenia Vanni

Venezia, sedi differenti
maggio ― giugno 2015

Diluiti ed intrusi
Daniele Capra




Verifica
Una mostra è un evento che nasce per dare corpo ad un’idea, per alimentare un pensiero ed un punto interpretativo su opere e pratiche artistiche. Una mostra è la verifica fattuale di un concetto, un esperimento intellettuale – e visivo – che avviene dopo una ricognizione sulla realtà fenomenologica della produzione artistica, benché frequentemente sia essa stessa origine per gli artisti di nuovi lavori ed evoluzioni espressive. Una mostra è secondo questa ottica un insieme di elementi eterogenei che vengono accomunati metodicamente da una legge, da un criterio che li caratterizza e li unifica: è cioè l’analisi di un punto di vista, che assume la funzione di paletto delimitativo nel complesso ed intricato fluire del presente o di ciò che è appena passato, rispetto ai quali non vi sono mai teorie ed interpretazioni del tutto soddisfacenti o compiute.
Indipendentemente dal fatto che la mostra sia di natura affermativa-descrittiva (una diagnosi che vuole dimostrare un teorema che si è intuito) o interrogativa (una prognosi che non si vuole sciogliere, e  quindi un dubbio o un quesito da porre), la condizione di fare una mostra è simile a quella di colui che, di notte, vuol scattare una foto senza flash ad un gruppo di persone mentre tutti si stanno muovendo. Se il tempo di esposizione è sufficientemente lungo per imprimere il sensore (o la pellicola) tutti i soggetti risulteranno mossi e non ben definiti nelle loro fattezze; mentre se il tempo di esposizione sarà breve e tale da permettere di catturare/congelare ciascuna persona, ne risulterà una foto sottoesposta in cui i connotati di ciascuno e molti dei dettagli andranno persi.
Tale impasse deriva quindi, in buona sostanza, dalla diversa rapidità con cui la realtà si muove rispetto all’evoluzione dei nostri strumenti interpretativi. Ma l’inadeguatezza può essere anche una leva ulteriore per maturare delle capacità inattese, per l’elaborazione di altre strategie, altri percorsi, altri format.


Opera
Ciascuna opera d’arte dotata di significatività (che non sia cioè un banale esercizio di stile), e che non abbia delle funzionalità pratiche evidenti (che non sia cioè dal suo concepimento ascrivibile a quel settore che siamo soliti chiamare arte applicata), né che sia strettamente site-specific (vale a dire nata per interagire rispondendo alle esigenze peculiari di un determinato ambiente), possiede un tasso minimo di eversività rispetto all’ambiente di approdo. Poiché infatti essa è il prodotto di una serie di istanze intime, estetiche, costruttive, altre rispetto a qualsiasi luogo in cui essa può essere collocata (come ad esempio galleria, casa, studio, museo, magazzino), con gradi differenti risulterà essere intellettualmente sempre un fuori luogo, e se non lo fosse perderebbe inevitabilmente la sua carica concettuale o psichica. L’opera nasce cioè per sovrabbondanza rispetto all’esistente, grazie alla fertilità dell’artista naturalmente spinto a generare e affidare al mondo contenuti che ancora non esistono.
Se l’opera deve inevitabilmente misurarsi con il mondo rivendicando una forte alterità, una grande autonomia su ciò che le è attorno a partire dalle ragioni stesse che la hanno determinata e catapultata tra noi, essa può essere considerata a tutti gli effetti un intruso rispetto alla realtà fenomenologica che ci si pone di fronte al nostro sguardo. L’opera è estranea alla realtà, ma deve giocoforza averne accesso. È un fuori contesto, un irregolare cui abbiamo consentito l’accesso al ritaglio di mondo che ci appartiene. E a nulla valgono i nostri tentativi di addomesticarla, di integrarla o renderla propria fino in fondo: rimane altro da noi, differente e straniera.


Contenitore
Una mostra si sviluppa per raggruppamento fisico di elementi significativi. In particolare essa è l’occasione per radunare e mettere in relazione delle opere cercando di dimostrare l’assunto interpretativo che le lega. Il contenitore, il luogo scelto, funziona cioè come campo di verifica, come spazio entro cui viene giocata la partita intellettuale e visiva, a favore tanto del pubblico di visitatori che degli addetti ai lavori. L’evento mostra agisce cioè grazie ad un fenomeno di concentrazione: all’interno del perimetro deputato le opere sono accostate, messe in dialogo, confrontate, consentendo all’osservatore di compiere un’esperienza di natura estetica e mentale in un luogo prescelto. Uno degli elementi fondamentali è che l’esperienza sia determinata e continua, temporalmente e fisicamente. Il modello del white cube adottato da musei e gallerie serve anche a questo, a cucire tempo e spazio oltre che a fornire un contenitore neutro che non interagisce con le opere.
Il principio espositivo alla base di The Intruders nega proprio tale assunto, spiazzando il visitatore non solo con le singole opere, bensì frazionandone la visione all’interno della città di Venezia, lasciando che ciascuna opera agisca in un luogo differente, seppure in coordinazione con le altre. La fruizione dei lavori degli artisti viene cioè frantumata attraverso un percorso espositivo che si snoda in svariati spazi, spingendo l’osservatore a provare l’esperienza non tanto del visitatore, quanto invece del flâneur, della persona che interagisce con il contesto urbano cogliendo le diversità e gli aspetti relazionali, estetici, significativi della città. Il contenitore della mostra non è quindi isolato, tale da escludersi dal fluire della vita quotidiana, ma si sovrappone ad essa innervandosi proprio degli elementi che tradizionalmente sono estromessi. Si richiede così a ciascun osservatore di attuare una sintesi, consci che ciascuno avrà una visione parziale della mostra, in relazione ai luoghi e alle opere viste, ma anche al suo desiderio di compiere un percorso fisico che è anche cammino tra i campi e le calli della città. Alla concentrazione dello sguardo, The Intruders oppone così la diluzione dell’esperienza visiva.


Doppia Intrusione
Le opere di The Intruders non sono però intrusive esclusivamente per la loro carica ontologica di opera o per la loro diradamento nella città, quanto per un’azione di strategia, furbizia e scaltrezza ricercate e messe appunto insieme agli artisti rispetto al contesto finale in cui sono state collocate, o alla processualità dovuta alla loro esecuzione. Agendo in maniera mimetica nascondendosi nello spazio, traendo in inganno il visitatore, spiazzando per l’utilizzo di materiali o l’azione compiuta, compiendo un prelievo-furto, mostrando allo spettatore ciò che non si può vedere, esse perseguono doppiamente la propria stessa clandestinità, anche dal punto di vista della topologia espositiva, del posizionamento spaziale e dell’approccio fruitivo. Sono cioè dispositivi che sfidano l’intelligenza, intrusi da vegliare e che costringono a non abbassare mai la guardia.

Nouveau grotesque

Nouveau Grotesque

Umberto Chiodi, Fulvio Di Piazza, Fratelli Calgaro, Nicola Genovese, Daniele Giunta, Emanuele Kabu, Marya Kazoun, Laurina Paperina

Oderzo, Palazzo Foscolo
settembre ― ottobre 2010

Daniele Giunta, Il drago di Giorgio, 2008, inchiostri su seta, cm 130x180, courtesy of De Faveri Arte, Feltre

Nouveau Grotesque
Daniele Capra




Nouveau Grotesque è un viaggio nel mondo nel grottesco attraverso l’opera di alcuni dei più interessanti e rappresentativi artisti del panorama nazionale. La mostra sarà così un’occasione per vedere i recenti esiti sul genere grottesco messi a confronto con l’opera di uno dei maestri italiani di inizio Novecento.

Mostruoso, fantastico, bizzarro, deforme, splatter e ridicolo. Sono alcune delle tante differenti declinazioni di ciò che siamo abituati a considerare grottesco, mescolando – in un vortice di rimandi che si intersecano – il lato della stranezza, della goffaggine, del pauroso e dell’inatteso. Ma anche le persone, gli eventi che ci accadono, il mondo stesso e molte della relazioni umane sviluppano una natura paradossale ed inquietante che possiamo ricondurre al grottesco, perché basati su di un equilibrio precario e demenziale, in cui diventa impossibile distinguere l’eccezione dalla norma. Tutto nel mondo é burla, come il coro canta nell’aria conclusiva del Falstaff di Verdi, e talvolta il gioco diventa spinto ed audace fino a sfociare nell’assurdo e nell’incontrollato viscerale sfogo della fantasia.

La mostra mette a confronto differenti approcci che possono essere ricondotti al grottesco e a i suoi stilemi espressivi. I lavori di Umberto Chiodi, Fulvio Di Piazza, Fratelli Calgaro, Nicola Genovese, Daniele Giunta, Emanuele Kabu, Marya Kazoun, Laurina Paperina, Śiva (che spaziano dal disegno al quadro ad olio, dalle sculture in vetro e ceramica al video) dimostrano infatti come il grottesco sia un formidabile ed inesauribile generatore di emozioni oscure e di tensione psicologica, e fonte primaria cui gli artisti possono attingere in modo inesauribile.

Drawing a video

Drawing A Video
Matteo Fato, Emanuele Kabu, Laurina Paperina

Ein Hod, Haifa (IL), Janco Dada Museum
maggio ― agosto 2010

Il testoGli artisti
Disegnare un video
Daniele Capra




Al contrario di quanto avremmo potuto immaginare solo negli anni Novanta – caratterizzati da una grande attenzione ai nuovi media, dall’analisi del posthuman e di altre tendenze ormai categorizzate dalla storia – la pratica del disegno è uscita rinvigorita nell’ultimo decennio. Non si è trattato semplicemente di una ritualizzazione, simile a quanto era capitato ad esempio con la pittura negli anni Ottanta, bensì di una vera e propria nascita, con delle conseguenze molto feconde.

Il fattore chiave di questo fenomeno è la consapevolezza che ha portato, non solo nel ristretto ambito dell’arte concettuale, al pieno riconoscimento del disegno come opera: è maturata cioè la convinzione che il disegno non sia più solo semplice lavoro preparatorio o strumentale, ma prodotto finale. Come cioè riconosciuto dalla comunità di artisti, critici, galleristi e collezionisti, il disegno ha abbandonato i propri abiti servili per acquisire la status di opera diventando compiutamente medium, nelle sue differenti declinazioni che spaziano dal lavoro su carta ai muri della street art.

Parallelamente l’uso nelle nuove tecnologie e la disponibilità di applicazioni elettroniche ha incrementato notevolmente le possibilità espressive in mano agli artisti, che hanno sperimentato nuovi strumenti prima impensabili, tra cui la possibilità di ricorrere al disegno anche in forma digitale. Se ovviamente un allargamento degli strumenti non coincide necessariamente con una forma democratica o con una crescita di qualità, strumenti tecnicamente complessi come il video sono diventati facilmente a portata di mano per gli artisti, che hanno avuto molta più facilità nella gestione dell’immagine in movimento.

Tra i più interessati alla possibilità di mettere in pratica le interazioni tra disegno e video vi sono in particolare molti artisti nati negli anni Settanta, che hanno fatto ricorso alla tecnologia disponibile impiegando e recuperando modalità per lo più utilizzate dai cartoonists in voga nell’animazione di scuola americana e giapponese, conosciute direttamente per televisione sin da bambini. Non è infatti fattore secondario la naturalezza dell’approccio dovuta alla forte familiarità con queste tradizioni, che hanno portato l’immaginario infantile di un’intera generazione ad essere frequentemente solleticato dalla presenza di linee o altri elementi colorati in movimento.

Le opere di Matteo Fato, Emanuele Kabu e Laurina Paperina – tra i più interessanti videoartisti del panorama italiano – dimostrano quanto nella nostra contemporaneità il disegno possa essere fonte inesauribile e in grado di concedere il massimo grado di libertà espressiva. Benché ciascun artista abbia un approccio differente (che potremmo agilmente sintetizzare nelle polarità poetico-riflessivo, naif, splatter), sono accomunati da una forte tensione ad impiegare, seppure in forma differente, gli elementi caratteristici del medium. Sia nella loro valenza classica e descrittiva (come ad esempio nell’essenzialità della linea o nella capacità di cogliere l’addensarsi di ombra e luce), che, al contrario, per gli aspetti antiaccademici e pop (colori piatti, tinte acidi, assenza di chiaroscuro, ecc.). È il segno comunque ad accomunarli, il fatto cioè che ogni fotogramma dei loro video sia, pensato e creato – in forma tradizionale o digitale – costruendo ed intessendo linee, figure geometriche, vuoti e pieni. Tutto il resto nasce dopo, germogliando dal movimento delle mani, tanto sul foglio che sulla tavoletta grafica del computer: il pensiero si forma cioè successivamente, si stratifica dopo che la linea ha lasciato il segno evidentemente della sua presenza. “La vita è una linea, il pensiero è una linea, l’azione è una linea. Tutto è linea. La linea congiunge due punti. Il punto è un istante, la linea comincia e finisce in due istanti” [*]. E questi istanti, messi l’uno di seguito all’altro, ci concedono agli occhi l’incanto misterioso e seducente, intimo e fragile, della bellezza.




[*] Manlio Brusatin, Storia delle linee, Einaudi, Torino, 1993-2001, p. 5.

Gli artisti
Daniele Capra




Matteo Fato
La ricerca di Matteo Fato nasce da una riflessione sugli aspetti meno terreni del disegno. La sua sensibilità alla forma si sviluppa nella dolcezza delle linee e nella possibilità di creare immagini senza mai staccare il pennello, con modalità non dissimili da quelle della calligrafia orientale. Il bianco e il nero, tanto negli inchiostri su carta che nei suoi video, si equilibrano, si ricercano e si fondono, ordinati da un pensiero che ha assorbito sia gli stimoli della storia dell’arte che le istanze della poesia lirica.


Emanuele Kabu
È un immaginario delicato e per certi aspetti sensibile alla tradizione hippy e lisergica quello che propone Emanuele Kabu. Protagonisti sono frequentemente animali e figure antropomorfe che si muovono tra elementi geometrici e campiture pulsanti dai colori sfumati. I suoi video sono storie fantastiche in cui la musica assume un valore fondamentale, che val al di là del semplice commento sonoro. Le sue sono favole incantate, sebbene non manchi talvolta la crudezza, e l’elemento trascinante è il sogno.


Laurina Paperina
Acida, cattiva, dissacrante, politically uncorrect. Sono le cifre stilistiche di Laurina Paperina, che diverte mettendo insieme riflessione sull’arte e sul suo mondo di invidie e rivalità, ma anche riflessioni taglienti sulla religione ed il suo moralismo talvolta bigotto. Il segno è insicuro, decisamente lo-fi, a tal punto che i personaggi vibrano). I suoi personaggi sono scorretti e maleducati e fanno tutto quello che si vorrebbe non fare. Eppure, in quel mondo splatter e volgare, ci si riconosce perfettamente. Ridendo.