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Linfonodi #0. Critectures on reception

Piccole considerazioni di uno scrivente

saggio per Linfonodi #0. Critectures on reception
ISBN 9788897418122
marzo 2016

Piccole considerazioni di uno scrivente
Daniele Capra




Sottrarre la materia agli specialisti
L’estrema professionalizzazione da un lato e la spinta verso una grande specializzazione dall’altro, avvenute dalla fine degli anni Sessanta, hanno contribuito a fare dell’architettura una disciplina autonoma, indipendente, portando a compimento un processo di settorializzazione sotteso da logiche di ordine economico, progettuale, operativo. Pur con interessi verso la sociologia, la storia, l’ambiente, le sfide imposte dalla complessità ― che sempre più caratterizzano il nostro tempo ― sono state intraprese con una tendenza a considerare/trattare la disciplina con modelli di pensiero strettamente legati al suo campo (e ai suoi limiti) d’azione.
Benché probabilmente ciò sia stato percepito quasi esclusivamente da coloro che non se ne occupano professionalmente (come il sottoscritto), il fatto di considerare l’architettura prodotto e patrimonio intellettuale proprio degli architetti e di coloro che ne sono strettamente coinvolti, è stato un approccio che ha prodotto un pensiero settario, slegato da altro tipo di esperienze foriere di pensieri laterali, di ragionamenti tutt’altro che marginali. Si avverte la necessità di andare oltre tale esclusività sottraendo l’architettura, i suoi temi, i suoi dibattiti, al solo pensiero degli architetti e degli specialisti, a favore di modalità in cui siano elevati i gradi di interazione con le altre discipline.


Parte di un sistema culturale
Nell’occuparmi di arte contemporanea come curatore, nelle mia attività di “animatore culturale” (in qualità di organizzatore di Comodamente, uno dei più ambiziosi festival di cultura contemporanea, e di segretario dell’associazione no-profit Trieste Contemporanea), ho sempre percepito/letto l’architettura come una pratica che nasce quale effetto della cultura, da quel ramo di discipline che nel mondo anglosassone viene chiamato humanities, esercizio cioè di una disciplina umanistica. Al pari dell’arte visiva o della musica, l’architettura dovrebbe essere insegnata, praticata, comunicata e dibattuta come una disciplina che appartiene al mondo della cultura. Estremizzando potremmo dire che una qualsiasi architettura, indipendentemente dalla sua destinazione, vada discussa come un nuovo romanzo, come un ciclo di quadri o uno spettacolo di teatro, in cui si analizzano le forme adottate, il ritmo, il processo, la funzionalità, gli elementi di novità, il suo portato esperienziale, la sua relazione con il destinatario.


Uscire dalla torre
Il dibattito sull’architettura, nel nostro Paese, è vittima del sistema culturale in cui l’intellettuale avverte con particolare distanza il popolo. Una cosa “popolare” è avvertita come una cosa di “scarso valore”, da parte dell’intellettuale, come scriveva Gramsci negli anni Trenta. Inevitabilmente ci dibattiamo ancora nelle secche della stessa questione: in ciò che l’intellettuale fa ― e l’architetto è un intellettuale, e se non lo fosse sarebbe un banale costruttore ― egli non sente necessità di confrontarsi col popolo, di negoziare le proprie idee, poiché si sente membro di élite che non deve giustificare il proprio agire (e nel caso dell’architettura l’agire ha inevitabilmente un effetto collettivo). Ecco, chi scrive, chi legge, godrebbe invece nel confrontarsi pubblicamente, nel misurarsi con uomini che sono usciti e scesi dalla propria torre d’avorio.


A questo pubblico, con grande modestia e rispetto, penso, quando vedo e scrivo di architettura.