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Matteo Fato – Maria Elisabetta Novello. Il senso dell’ordine

Matteo Fato / Maria Elisabetta Novello
Il senso dell’ordine

Vicenza, AB23
dicembre 2010 ― gennaio 2011

Conversazione con Matteo FatoConversazione con Maria Elisabetta Novello
La pittura come liberazione
Conversazione con Matteo Fato

Daniele Capra



Prova a tracciare il tuo percorso artistico, dalla prima mostra fino alle recenti evoluzioni…


Direi che la mia ricerca si basa sull’analisi dei limiti del linguaggio, come modello del reale. Il disegno, la pittura non sono altro che strumenti di un processo linguistico atto ad indagare il valore della parola e quindi della realtà. Una ricerca della verità, in un certo senso. Ma della verità che appartiene ad ognuno di noi. La cosa più difficile è capire quale sia il linguaggio con cui possiamo esprimere la nostra “sincerità”. Io ho avuto la fortuna di capirlo abbastanza presto.


E come fai a saperlo?


Perché tracciare il mio percorso è anche quello su cui mi sto concentrando adesso. È una cosa che mi accade ciclicamente. Cerco di fermarmi e smettere di fare. Tentare di dimenticarmi di me stesso e trovare un nuovo inizio. Specialmente se sorrido troppo davanti ad un lavoro. Amo molto questa frase di Vincenzo Agnetti: “La cultura è l’apprendimento del dimenticare”.


Quali sono gli artisti che senti più vicini?


Coloro che sanno mantenere un’etica nel loro linguaggio e nella loro storia. Vicini e lontani che siano e qualunque sia il loro linguaggio. Non che questo necessariamente implichi la consapevolezza totale ed istantanea del proprio fare, ma per me un artista deve affrontare nel profondo le ragioni del proprio fare.


In che modo?


Non ci sono strade buone o cattive. Non si lavora per semplice ispirazione e forse nemmeno per il bisogno di fare. Penso che esistano parole che bisogna avere il coraggio di usare per scoprire cosa si sta dicendo. Inevitabilmente ogni volta bisogna ricominciare da zero. È la cosa più importante, ma anche per me, la più difficile. Mi vengono in mente le parole di Agamben: “essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare”.


Hai lavorato molto sul confine tra disegno e pittura, che sono stati sostanzialmente per te una cosa sola. Ce ne puoi spiegare le ragioni?


Cennino Cennini scriveva che praticare “il disegnare di penna […] ti farà sperto, pratico, e capace di molto disegno entro la testa tua” [1]. Questo pensiero spiega bene perché nella mia ricerca, allo stesso tempo, vi sia un incontro ed una separazione fra pittura e disegno. Una non può esistere senza l’altra, anche se in realtà mai utilizzo le due cose insieme. Non dipingo mai con il disegno né cerco di disegnare con la pittura. A volte penso che in un certo senso rappresentano due aspetti della calligrafia di una persona, due modi di approcciarsi alla parola. La pittura per me è una bellissima parola di cui – fortunatamente – non conosciamo le lettere. E forse disegno perché le parole so farle solo disegnate.


È per questo che hai dipinto con procedure simili a quelle della calligrafia cinese, in cui non si stacca mai il pennello dal foglio? Ma quanto conta per te l’abbandono e quanto il controllo?


Non posso concepire un lavoro di cui non ho il controllo. La disciplina che ho deciso di dare al mio lavoro, che nasce appunto dalle tecniche di scrittura orientale, è diventata importante per ragioni etiche. Nego a me stesso la possibilità di ripetere e di ritoccare un lavoro. Di conseguenza mi impongo di pensare davvero a cosa sto per fare, a cosa sto cercando di mettere al mondo, tralasciando momentaneamente le ragioni di fondo. A volte mi capita di stare giorni a fissare il foglio e di non essere pronto: l’abbandono, in fin dei conti, è qualcosa che concepisco solo attraverso il suo controllo.


Mi hai raccontato che hai lottato per far sì che la pittura non prendesse la mano sul tuo lavoro, conducendoti o compiacendoti. La pittura è così una brutta bestia?


La pittura è una bellissima e paradossale bestia. La cosa di cui ti parlavo riguardo la sincerità: se sai ascoltarla, la pittura non mente mai, ma è molto facile decidere di non prestarle orecchio. È un po’ come i paradossi di Eubulide, che diceva ai suoi concittadini che stava mentendo! La pittura è esattamente così: se ti mente allora sta dicendo la verità, e se sta dicendo la verità allora sta mentendo. Ecco perché è facile decidere di non ascoltarla. Ma più non l’ascolti più la voce diventa lontana…


Raccontaci invece come è nato il tuo intervento site specific per AB23…


L’intervento nasce dalla suggestione che ho avuto entrando nel luogo [2] la prima volta. Mi è sembrato di entrare in uno spazio presente ma senza tempo. Ho subito capito che dovevo cogliere l’occasione per provare a confrontarmi davvero per la prima volta con uno spazio senza pensare solo di riempirlo. Ho portato avanti cioè un ragionamento pittorico: scrivere e tracciare un segno, non usare un segno semplicemente per riempire un vuoto. Se non lo avessi fatto sarei potuto scadere nell’essere decorativo, atteggiamento da cui ho sempre cercato di allontanarmi. Pasolini stesso diceva nella vita sia opportuno scappare da ogni forma di decorazione nella vita.


E come hai operato?


Ho cercato di lavorare con lo spazio negativo della decorazione. È qualcosa su cui rifletto da tempo e che ho iniziato a sviluppare dopo la residenza della scorsa estate ad Art Omi [3]. All’interno della chiesa ho individuato un oculo situato molto in alto ed ho deciso di decomporre e riempire quel vuoto, quello spazio negativo attraverso una serie di processi pittorici. Quello che mi interessava era la creazione di una sorta di scenografia, di oggetti e spazi pittorici, in una visione quasi rinascimentale dello spazio. Per questo motivo è stato fondamentale disegnare progettualmente lo spazio: a partire proprio dal disegno gli oggetti reali mutavano, ma senza mai abbandonare il loro stato iniziale di sorgente di-segnativa, alla quale sono rimasti sempre profondamente legati. Yuanji Shi Tao, poeta e pittore cinese del XVII secolo, scriveva che “il vuoto sviluppa la percezione della profondità e la cosa dipinta si fa mondo. Il vuoto non è il nulla. Un pittore ci si muove dentro”.


L’intervento per AB23 risponde quindi a logiche più ambientali rispetto a lavori precedenti. Perché è diventato per te importante misurarsi con il contesto?


Volevo tentare di disegnare appunto con lo spazio ed avere come risultato finale una messa in scena pittorica, una sorta di natura morta, da utilizzare come modello linguistico per la pittura. Il quadro finale dello spazio dovrebbe essere appunto una composizione che decido e che forse mi impongo di non dipingere. Un esercizio preparativo, come sempre del resto. Per questo la scultura principale dell’istallazione è un tondo di legno (della misura dell’oculo) che ho foderato con tela di lino e preparato alla maniera antica con colla di coniglio. Un supporto pittorico che diviene in questo caso una scultura per rileggere la pittura. Ma è anche per me un preannuncio al voler tornare, successivamente, a dipingere.



[1] C. Cennini, Il libro dell’arte, cap. XIII.
[2] Lo spazio AB23 di Vicenza, sede della mostra, è una chiesa medievale sconsacrata con soffitto a capanna in travi lignee.
[3] Omi International Arts Center, Columbia County, New York.

Quel che rimane invisibile
Conversazione con Maria Elisabetta Novello

Daniele Capra



Prova a descrivere il tuo lavoro ad uno sconosciuto. Raccontaci quello che fai…


Posso dire che lavoro con la cenere. Mi sono resa conto che nel tempo sono sempre stata affascinata da tutto quello che è al limite tra visibile e invisibile. Mi interessa l’incerto, il non perfettamente definito, tutto quello che non ha trovato un punto fermo. Ho trovato nella componente materica della cenere quel mezzo fisico che mi trasmetteva quell’emozione e quel concetto che mi affascinavano. Leggo la cenere come materia del dubbio, poiché è materia che contiene in sé gli elementi che sono drammaticamente propri dell’esistenza stessa: la bellezza e la sua sostanziale instabilità. Da qui la ricerca e il tentativo di svelare e di riordinare la cenere in qualcosa d’altro.


La tua ricerca mette insieme l’instabilità con l’idea di residuo, di elemento organico passato ad altra vita. Da cosa nasce l’interesse per la storia di questi materiali?


Mi piace l’idea di residuo perché identifica qualcosa di visivamente identificabile: ciò che rimane di un processo, qualcosa che proviene da un ciclo, da un percorso. Ma comunque una materia che contiene dentro infinite stratificazioni, che non sempre si colgono ad una prima vista. Sono affascinata da questo invisibile che sta nella cenere, ed il mio è, in ultima istanza, un tentativo di svelarne l’intima identità. È una modalità per restituire le micro-informazioni latenti, le evocazioni che la cenere contiene come memoria nascosta e invisibile.


Alcune tue opere, come i tappeti realizzate con la cenere sul pavimento, raccontano una stratificazione temporale doppia. Quella della storia del materiale e quella del lungo tempo di esecuzione. Che cos’è per te il tempo?


La somma dei minuti che vivo. Un qualcosa che si rincorre. Il vissuto. Gli eventi che modificano la mia vita. Quello che Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali chiama il “non poter impa¬rare a dimenticare”…


E che valore ha la tecnica minuziosa nel tuo lavoro?


C’è l’intenzione di invadere il tempo e di darne in qualche modo forma. Dettagli domestici e labili tappeti di cenere prendono forma dopo un lungo e paziente lavoro di precisione. Durante la realizzazione vengono a crearsi degli intimi e segreti rapporti con se stessi. Nell’azione temporale prolungata è evidente infatti il desiderio di comprensione ed affermazione della propria esistenza, che però – in modo paradossale – coincide con un progressivo percorso di perdita.


Che effetto ti fa l’idea che una tue opera sia cancellata dal tempo, dal vento o dalla presenza umana di chi l’osserva?


Mi piace che questo accada. Il mio è lontano dall’essere un segno indelebile. Anzi voglio proprio che sia manifestato il senso di instabilità, precarietà e fragilità che io avverto. Da parte dello spettatore vorrei ci fosse comunque la consapevolezza di quello che potrebbe accadere: vorrei cioè che il lavoro fosse in anche una pausa, una riflessione indotta anche dal fatto che lo spettatore avverta, o meno, la necessità di muoversi con accortezza.


Nelle teche di cenere sotto vetro che hai realizzato è possibile riconoscere un orizzonte e vedere le tracce di un’orografia immaginaria. Ma che cos’è per te un paesaggio?


Come ha scritto Calvino nelle Lezioni Americane, è “la conoscenza del mondo attraverso la percezione di ciò che è infinitamente minuto”. Per paesaggio si intende di solito ciò che “è altro dal sé”. I miei invece vorrei fossero dei paesaggi interiori, che raccontano l’infinito o l’indefinito. In qualche modo li avverto come delle lenti d’ingrandimento sul nostro microcosmo, quasi dei racconti sulla nostra realtà che è fatta di corpuscoli invisibili…


Ma che cos’è in realtà l’interiorità?


“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto” [4].





[4] J. L. Borges, L’artefice, Adelphi, Milano, 1999, Epilogo [I ed. italiana Rizzoli, Milano, 1963].