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Dario Lazzaretto. Jailhouse Rock

Dario Lazzaretto
Jailhouse Rock

Cittadella, Palazzo Pretorio
dicembre 2016 ― febbraio 2017

Chiare, fresche et dolci acque
Daniele Capra




La fontana ha un ruolo centrale nell’arte del Novecento, non solo come manufatto architettonico dedicato all’impiego civile – essenzialmente per dispensare acqua ai cittadini – o alla decorazione di spazi pubblici attraverso la sua forma monumentale (si pensi ad esempio alla fontana di Piazza Tacito di Terni di impianto razionalista, con decorazioni musive di Corrado Cagli). È una Fontana, almeno nel titolo beffardo, una delle più celebre opere di Marcel Duchamp, sommo sacerdote dei ready-made, che con il celebre pissoir contribuisce in maniera definitiva a far saltare la convenzione di opera come manufatto realizzato dall’artista. Va notato però come in realtà l’orinatoio non sia fontana in sé o nelle sue funzionalità, ma solo in senso traslato, poiché esso accoglie passivamente il prodotto di un atto umano fisiologico, cioè la minzione, che origina gli effetti visivi e sonori che tutti conoscono essere propri della fontana.

Capita solo mezzo secolo dopo, con l’opera omonima di Bruce Naumann, che titolo (sostantivo) e gesto (azione) coincidono. In una performance documentata da una celebre foto l’artista americano si fa infatti egli stesso fontana, producendo schizzi di acqua con la propria bocca, non solo in omaggio – o parodica citazione? – del maestro Duchamp, ma anche con l’intento di impiegare il proprio corpo all’espletamento di una funzione riservata esclusivamente ai blocchi di pietra o alle statue che abitualmente decorano le fontane.

Nessuna di queste polarità interessa però a Dario Lazzaretto, per il quale la fontana rimane essenzialmente una fontana, cioè una “fonte d’acqua artificiale con uno o più getti, in genere costruzione di carattere prevalentemente ornamentale, destinata a regolare l’efflusso all’aperto dell’acqua proveniente direttamente dalla sorgente o da acquedotto”[1], anche se le sue finalità sono del tutto differenti da quanto apparentemente si potrebbe intuire. S.P.A. sonic portable aid è infatti un lavoro che trae origine dalle terapie che si praticavano nell’ospedale di Aleppo in Siria per coloro che, con terminologia moderna, definiremmo malati di depressione o persone con problemi mentali. Nelle intuizioni di coloro che costruirono a metà del XIV secolo il Māristān Arghūn, ora in rovina in una città martoriata dal conflitto civile, la presenza ed il rumore dell’acqua delle fontane sarebbe servita alla guarigione dei pazienti, i quali disponevano di camere collocate attorno alla fontana stessa, ricevendo nel contempo cure basate sui principi della musicoterapia e della cromoterapia. La fontana è infatti, negli intenti poetici di Lazzaretto, un dispositivo di benessere – di cui il titolo tiene traccia – immaginato per le sale di Palazzo Pretorio che sono state storicamente impiegate come carceri. L’artista sceglie cioè di aprire la porta della prigione, sovvertendo le funzionalità di privazione e contenimento originarie del luogo che viene così trasformato in uno spazio di libertà e (auto)terapia. Lazzaretto si avvicina così, per sensibilità antropologica e approccio idealistico, al ribaltamento del ruolo oppressivo dell’istituzione psichiatrica che fu teorizzata e messa in pratica da Franco Basaglia nel corso della sua vita: il carcere, esattamente come il manicomio, è una struttura di detenzione e limitazione delle persone che deve essere trasformata in un luogo dedito alla cura e alla vita, che sono innanzitutto libertà. “Nel nostro mestiere la finalità è quella di affrontare la contraddizione che noi siamo: oppressori ed oppressi, e dinanzi a noi abbiamo una persona che si vorrebbe opprimere. […] Noi rifiutiamo questo discorso. Noi diciamo di affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia”[2], spiegava lo psichiatra. L’artista – con motivazioni libertarie che spaziano dal desiderio interiore di rompere l’inquadramento tassonomico imposto dal sistema al senso di riscatto che ogni pratica artistica non mirata esclusivamente alla piacevolezza istantanea sottende – agisce di conseguenza facendo deflagrare la destinazione d’uso dello spazio, in maniera limpida e semplice.

Indirizzando la sua attenzione sugli aspetti sonori e più marcatamente psicologici, Lazzaretto costruisce infatti una piccola fontana con materiali di recupero il cui suono viene amplificato e reso più intellegibile al visitatore grazie a degli speaker. Il rumore dell’acqua è percepibile prima ancora di avere accesso allo spazio, mentre la vista restituisce allo spettatore le forme dell’opera, dal sapore cheap, con la sorpresa di una brandina e degli speaker. La sala infatti pare essere abitata da un improvvisato campeggiatore (o un paziente, la differenza quasi non c’è) che si è portato per il suo viaggio svariate bottiglie di acqua. L’assenza di vesti o di cibo ci avvisa come ora però non ci sia più nessuno che abiti quello spazio. È probabile che quel luogo di terapia sia stato appena lasciato perché non indispensabile: le cure messe in pratica dall’istituzione non sono probabilmente più necessarie per chi ci ha preceduto, e appare evidente come invece siano destinate ai visitatori, bisognosi forse essi stessi di qualche forma di guarigione.

Tale intuizione ha a che fare, in termini più ampi, con il ruolo dell’arte, poiché è ipotizzabile che quelle terapie possano essere, quantomeno nelle volontà dell’artista, di qualche conforto per lo spettatore, anche in forma di placebo. Petrarca ricordava in un brano del Canzoniere che “cantando il duol si disacerba”[3], intendendo che la poesia (il canto) era per lui stesso uno sfogo per purificarsi dal tossico che la vita e l’amore producevano. In tale caso non è fondamentale per l’osservatore sapere se su Lazzaretto l’arte abbia i medesimi effetti terapeutici che la poesia ha sul poeta toscano, mentre risulta più significativo capire come invece l’opera si relazioni allo spettatore invitandolo a superare concettualmente e mentalmente le rigidità del contesto, inducendolo al raggiungimento di una condizione psicofisica di rilassatezza, di pace interiore, di pacifica e piacevole letargia simile a quella che talvolta segue ad un’intensa eccitazione alcolica o a un vigoroso amplesso.

Nel suo essere opera dotata anche di funzionalità del tutto estranee al campo delle arti visive, nel non ricercare necessariamente spiazzamento, disappunto o situazioni che inducano ad una riconsiderazione dello status quo, S.P.A. è uno strumento di fuga dal protocollo delle reciproche aspettative artista/spettatore: l’artista cioè non ricerca né si attende alcun tipo di reazione da parte del fruitore, il fruitore non attende né reagisce ad alcun tipo di contenuto pungente da parte dell’artista. L’opera è così nel suo complesso un dispositivo che rende possibile l’esercizio della non-conformità, che sfugge al dover essere qualcosa di certo, consono, spiazzante. L’opera è invece fuga, piacere, evasione innescata dal sommesso gorgoglio di “chiare, fresche et dolci acque”[4].




[1] Dizionario Treccani, lemma “fontana”, www.treccani.it/vocabolario/fontana/ (consultato il 15 gennaio 2017).
[2] F. Basaglia, Lezione/conversazione con gli infermieri, in G. Gallio, O. De Leonardis, M. G. Giannichedda, D. Mauri in La libertà è terapeutica?, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 41.
[3] F. Petrarca, Nel dolce tempo de la prima etade, in Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), XXIV.
[4] F. Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque, op. cit., CXXVI.

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