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Tag: Michelangelo Penso

Tree strategy

Tree Strategy
Ludovico Bomben / Paolo Gonzato / Michelangelo Penso

Venice (I), Galleria Upp
maggio ― agosto 2012

L’edera in galleria
Daniele Capra




Benché l’opera d’arte abbia frequentemente le parvenze di un semplice oggetto che in molti aspetti non si discosta dal manufatto di un abile artigiano, o nasca spesso come prelievo di realtà stessa (come ad esempio gli object trouveé), vi è almeno una differenza delle opere con tutto il mondo degli oggetti inanimati che ci circondano: le opere respirano e vivono, esattamente come una pianta o come noi stessi facciamo. Non sono creature inattaccabili dal mondo, fragili cristalli da guardare o mirabilia semplicemente da custodire. Al contrario, sono invece dispositivi in grado di subire modificazioni, di muoversi, adattarsi, stringersi, svilupparsi o arrampicarsi. Le opere sono cioè vitali come l’edera, in grado di ricrescere come il rosmarino trapiantato da un luogo ad un altro, o di continuare a fiorire come un ciliegio di cent’anni.

Non è così sempre corretto immaginare l’opera nella sua fissità ed immutabilità. Si pensi solo alle differenze che esistono tra le condizioni di luce/colore/rarefazione che vi sono generalmente in una galleria o in un museo rispetto a quelle di una casa standard: la forma delle stanze, la superficie del pavimento o la presenza delle tende fanno cambiare qualcosa in un lavoro, lo possono rendere differente. E – soprattutto – il lavoro stesso muta, parla più velocemente o più lentamente, cambia tono come un attore di teatro che non può presentarsi identico tutte le sere, pur sapendo a menadito come vive e respira il personaggio che interpreta sul palco. Ugualmente l’opera si adegua, dal momento in cui è stata pensata/progettata/realizzata, fino alla sua collocazione nel luogo espositivo, dove può mettere in essere metodi simili a quelli adoperati dalle piante e dagli alberi, in grado di impossessarsi dello spazio mutando fino ad arrivare, talvolta, ad avere il vigore necessario per mutare lo stesso contesto (come capita ad esempio agli alberi che deformano il terreno).

Ma quali sono le dinamiche di impossessamento dello spazio che spingono gli artisti a scegliere di realizzare un’opera dalle ridotte dimensioni o al contrario dall’ampia volumetria? L’opera può nascere da un’esigenza di una concentrazione spaziale, o può avere uno sviluppo su di un piano o stimola invece nell’osservatore un approccio emotivo/percettivo che esclude, o fa passare in secondo piano, la dimensionalità del manufatto. Le scelte in sé fanno ovviamente parte di quel irrinunciabile bagaglio di libertà espressive degli artisti, ma le opere possono essere viste e lette con una modalità in più, se si pensa che non solo siano vive, ma che la loro vita è in forma vegetale. Ed esistono come se fossero alberi, arbusti, tuberi, specie che vivono al di fuori del white cube cui ci riferiamo di solito.

Come scrive Brian O’Doherty nel suo celebre saggio Inside the White Cube, le gallerie hanno adottato il modello della “scatola bianca” sin dagli anni Sessanta, mettendo in una relazione di forte interdipendenza il contesto ed il contenuto. È venuto così a svilupparsi un approccio in qualche modo ideologico (e che ha risentito in qualche maniera della pratica dell’avanguardia) dal quale deriva la considerazione che l’opera sia come un fiore delicato che necessita di un atmosfera controllata, in grado cioè di non pregiudicarne la vita e la forza. Ma così non è, dato che il fiorire e il prestarsi ad essere differente dell’opera stessa è un esempio di come tarpare le ali all’opera. Il candore del white cube implica cioè in qualche modo che l’opera sia un campo finito di relazioni – presenti dal momento della sua realizzazione e quindi precedenti la sua collocazione, in qualsiasi luogo – che potrebbero andare perse nel caso in cui il contesto non rispettasse i vincoli desiderati: dell’opera andrebbe cioè evitata la contaminazione, l’evento nefasto in cui le parole che essa dice, o cerca di declamare, non siano accolte dal più rigoroso silenzio.

I lavori di Ludovico Bomben, Paolo Gonzato e Michelangelo Penso sono esempi evidenti di come sia necessario ripensare l’opera come materia cangiante, come campo “aperto” (per prendere in prestito l’aggettivo da Eco) che le rende malleabili. Nei lavori di Tree Strategy Ludovico Bomben occupa due muri contigui della galleria con un modalità che è propria delle piante rampicanti, Paolo Gonzato sceglie invece la trasversalità di tronchi caduti su cui rinasce spontanea una vegetazione, mentre Michelangelo Penso ricostruisce un’enorme e tesa volumetria, quasi una pianta tropicale che prepotentemente sboccia dal soffitto. Al paradigma che presupponeva, nelle sue intenzioni, una neutralità asettica tra spazio ed opera, i lavori della mostra contrappongono un modello concettuale in cui l’opera vive grazie alla sua forza e alla sua spontanea reattività vegetale. La galleria non è più così il semplice contenitore, ma è anche il luogo in cui può avvenire un’intelligente colonizzazione, in cui l’opera può praticare, per la gioia di chi guarda, una delicata occupazione che prevede dei cambi di forma. Chi l’ha detto poi che fuck the context teorizzato in architettura non funzioni anche in galleria?

Contractions

Contractions. L’opera tra implosione energetica ed espansione di senso

Bianco-Valente, Ludovico Bomben, Nemanja Cvijanović, Alessandro Dal Pont, Igor Eškinja, Nicola Genovese, Jacopo Mazzonelli, Giovanni Morbin, Michelangelo Penso, Roberto Pugliese

Sospirolo, Dolomiti Contemporanee
settembre ― ottobre 2011

Tra implosione energetica ed espansione di senso
Daniele Capra




In che modo un capannone che sembra raccontare l’ultimo scampolo produttivo del Novecento è in grado di intercettare la contemporaneità che pare fatta di idee, pensieri, bites? Che rapporto esiste tra un ambiente teoricamente inadatto ad ospitare un’opera d’arte e l’opera d’arte stessa?

Quali sfide e quali le difficoltà di mostrarsi al di fuori non solo dell’auspicabile white cube, ma anche in un contesto che non è neutro, ma che diventa narrativo ed evocativo nel momento in cui ha perso la funzione per cui è stato pensato e realizzato? Quali sono le strategie grazie a cui gli artisti riescono a prelevare dalla realtà non tanto la classica porzione da decontestualizzare (l’objet trouvé), quanto le potenzialità insite in un contesto per aggiungere nuovi stimoli interpretativi ad un’opera o per crearne una ex novo?

Il fascino seducente e silenzioso del poderoso complesso industriale di Sass Muss di Sospirolo è l’occasione per indagare le modalità e gli approcci grazie a cui un’opera d’arte può nutrirsi e sostenersi non tanto (e non solo) nella sua irripetibile unicità, quanto nel suo essere ricettacolo di stimoli esterni, straordinario magnete capace di attirare a sé le energie del contesto. Gli input ambientali hanno così la funzione mediale di “campi di senso”, di vettori che permettono all’opera di deflagrare e di polverizzarsi nel contesto in cui essa stessa è collocata. Mai come in questo caso, l’artista svolge il doppio ruolo di maieuta e attivatore di fuochi d’artificio, mentre l’opera diventa innesco, punto di partenza di connessioni interno/esterno, luogo di incrocio tra micro e macrocosmo.

La mostra nasce dal lavoro coordinato di dieci artisti chiamati a realizzare o a ripensare/ricollocare una propria opera relazionandola alla non neutralità del contesto. Gli artisti invitati sono Bianco-Valente, Ludovico Bomben, Nemanja Cvijanović, Alessandro Dal Pont, Igor Eškinja, Nicola Genovese, Jacopo Mazzonelli, Giovanni Morbin, Michelangelo Penso, Roberto Pugliese. Ciascun artista, a partire da una tessera della matrice a scacchiera del capannone (lo spazio è diviso in navate a matrice regolare) si fa così carico di radunare l’energia del luogo e per far esplodere le potenzialità del proprio lavoro.

Michelangelo Penso. Blue genetic

Michelangelo Penso
Blue Genetic

Parigi (F), Galerie Alberta Pane
settembre ― ottobre 2010

La leggerezza di un mondo che non c’è
Daniele Capra




Capita sempre così: prima o poi il peso delle cose diventa insostenibile, solo che ce ne rendiamo conto tardi, molto più lentamente di quanto dovremmo. Tutto ciò che ci capita di fare ripetutamente nel tempo, anche la più piccola azione o il più semplice dei gesti, non tarda infatti a rivelare e mostrare il fardello che a lungo per leggerezza si era ignorato; anche qualora fossimo stati noi stessi a volere quella cosa, a mettere in scena quello spettacolo e a decretarne l’inizio. Capita così a Tomáš, il protagonista del più celebre romanzo di Milan Kundera [1], il quale, giunto ad un punto di non ritorno della sua esistenza, sceglie di cambiare totalmente direzione, di prendere una strada differente. Una sterzata energica, che permette l’avvio di una nuova vicenda che vede il personaggio in un ruolo prima inaspettato.

È quello che è capitato anche a Michelangelo Penso negli anni scorsi, quando nella sua ricerca è avvenuta una prepotente spinta aniconica o concettuale, che per qualche aspetto può dirsi perfino iconoclasta. Benché ovviamente di immagini l’artista si serva, non c’è in pratica quasi nessuna traccia del suo lavoro passato nella produzione attuale, nessun sentore diretto. Ad un lavoro critico sul patrimonio esistente, sulla riconoscibilità e sulla storia che sta dietro alle immagini (basato comunque sulle dinamiche della rappresentazione), si è progressivamente sostituito un nuovo aspetto creativo, ispirato alla costruzione di un estetica biologica e scientifica. Questo ha permesso all’autore di indagare fenomeni complessi come le serie frattali ed i circuiti genetici, immaginando di realizzarli di prima persona, anche grazie a delle simulazioni elettroniche.

La matematica e la biologia son così entrate nel bagaglio dell’artista diventando punti di partenza da cui sviluppare sculture e strutture tridimensionali, che hanno il ruolo essenzialmente di dispositivi visivi che a quel mondo alludono, non essendone necessariamente la letterale trasposizione. Tanto più perché si deve considerare come spesso lunghe serie di formule siano sostanzialmente già rappresentazioni di realtà chimiche o matematiche: Penso, dopo aver spezzato il meccanismo di rappresentazione che tradizionalmente è insito nelle immagini e nell’idea di mimesys, si è messo alla ricerca di qualcosa che ancora non esiste, che non può essere espresso per interpretazione, ma creato dal nulla.

Ad un’azione ex post, realizzata con modalità manipolatorie e combinatorie sul preesistente patrimonio iconografico, si è così sostituito un lavoro ex ante, di anticipo, di previsione su ciò che ancora non ha alcuna forma. L’indagine però non è mirata a perseguire l’interesse o la piacevolezza retinica, quanto rispettivamente a stabilire connessioni e a sviluppare nuove prospettive. Questo approccio ricorda molto uno dei passi più celebri di Carl Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta però di mutarlo» [2]. È lo stesso battagliero atteggiamento che troviamo nella figura di Penso, il quale, resosi conto di appartenere ad un sistema ormai chiuso ed afasico ed ormai stanco di subire passivamente il sistema delle immagini, ne propone uno nuovo ed alternativo, che ha tutt’altre radici e che conduce radicalmente altrove. E gli effetti sono visibili.

È difficile dire che cosa siano le sue sculture tridimensionali realizzate con nastri in materiale plastico o in gomma, fissate al soffitto e alle pareti con i ganci ad uncino di acciaio che i macellai usano per appendere i quarti sventrati degli animali. Sembrano esoscheletri di strani e spaventosi animali di enormi dimensioni; oppure virus e batteri enormi in grado di annientarci. O forse apparati militari misteriosi o dei modelli di basi spaziali di gusto modernista. Non lo sapremo mai, e cercare corrispondenze con qualcosa che già esiste è solo un gioco da bambini che ci allontana dal centro della questione: sono strutture ordinate che interagiscono con lo spettatore proponendogli un nuovo mondo, una realtà possibile che si nutre di un’estetica nuova. Fatta tabula rasa di un mondo che non lo soddisfa e a cui non crede intimamente più, Michelangelo Penso si fa carico di proporre la propria personale palingenesi in forme pure, nude e crude. Ma in maniera violenta con chi guarda, per opposizione al forzoso nichilismo in cui siamo, per reazione in qualche modo politica al «disincanto del mondo e il suo abbandono alla violenza dell’interpretazione e della storia» [3].

Sono però forme sperimentali, con una spiccata vocazione progettuale, sarebbe scorretto leggerle in altro modo. Sono pezzi di una proposta destrutturata per indirizzarci ad avere esperienze estetiche non omologate e non rassicuranti, mirate non tanto a perseguire lo spiazzamento dello spettatore ma a stimolarne l’attiva partecipazione: chi guarda in qualche modo offre – anche in forma sovversiva – il suo contributo alla costruzione di un mondo diverso. In questa ottica sia i disegni sulle Moleskine che sulle lastre fotosensibili utilizzate per l’offset (supporto che per sua stessa natura è soggetto al cambiamento per l’interazione tra la luce e la superficie trattata chimicamente) hanno la funzione di promemoria e di appunto, simile alle notazioni che ci segniamo su un taccuino o sulla mappa di una città che non conosciamo prima di apprestarci a visitarla. Hanno cioè una funzione topologica propedeutica, perché ci permettono di muoverci più agevolmente in un tessuto urbano che ci sfugge.

Con queste modalità anche le sculture realizzate con differenti tipologie di sostanze chimiche – Penso lavora nel mezzo di uno dei maggiori poli industriali e chimici italiani, nella terraferma veneziana, dove le possibilità di sperimentazione sono molteplici – mettono lo spettatore in una forma di curiosità cinetica, innanzitutto di ordine materiale, e successivamente di natura intellettuale (che cosa sono? che forme hanno? a che servono?). Dopo qualche istante ci si accorge di essere spostati, di salire e di essere traghettati altrove. Ma per godersi il viaggio fino in fondo, forse, la mappa conviene dimenticarsela a casa.




[1] M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, 1985.
[2] C. Marx, XI tesi su Feuerbach, Editori Riuniti, 1950, p. 80.
[3] «I am a nihilist. I observe, I accept, I assume the immense process of the destruction of appearances in the service of meaning that is the fundamental fact of the nineteenth century. The true revolution of the nineteenth century, of modernity, is the radical destruction of appearances, the disenchantment of the world and its abandonment to the violence of interpretation and of history». J. Baudrillard, Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, 1995, p. 105.