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Slaven Tolj. Craquelure. Pavo and me

Slaven Tolj
Craquelure. Pavo and me

Palazzo d’Accursio, Collezioni Comunali d’Arte, Bologna
gennaio ― marzo 2023

Non vedi una crepa, lì sulla pelle?
Daniele Capra




La personale di Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me è costituita da una quindicina di opere oggettuali e documentative e dalla performance Bologna, February 2023, concepita appositamente per le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio. Il progetto è una sintetica retrospettiva i cui lavori evidenziando la capacità di Tolj di porsi come elemento interstiziale rispetto alle dinamiche interiori, interpersonali e politiche, sviluppando un racconto intimo condotto sul doppio binario della vita personale e della ricerca espressiva. La mostra è dedicata al fotografo Pavo Urban, amico dell’artista morto in guerra a Dubrovnik il 6 dicembre 1991, del quale sono esposte delle fotografie della serie Rosarium che documentano una performance di Tolj realizzata nella città croata.

A partire dai suoi esordi alla fine degli anni Ottanta, fino a lavori recenti che testimoniano le vicissitudini dovute a un ictus che ha minato le sue capacità linguistiche, la pratica della body art e dell’arte concettuale sono state centrali nell’opera di Slaven Tolj, il cui lavoro è alimentato da un continuo scambio con gli eventi umani e professionali vissuti in prima persona. L’esperienza del dolore e i tormenti che sbrindellano l’esistenza segnandola con graffi profondi sono infatti i punti di partenza di tutta la sua pratica visiva. Tolj è artista in quanto essere senziente al massimo grado, capace non solo di percepire e registrare, come un sismografo, le più infinitesime variazioni di quel complesso universo tellurico che è l’essere umano, ma anche di elaborarle senza alcuna deriva patetica o finzionale.

La sua opera è radicale e parla candidamente di vita, di dolore, di memoria, di perdita, di incomunicabilità e di sconfitta, che vengono formalizzate in modo interrogativo nei confronti dello spettatore con geometrica e tagliente precisione. Tanto i suoi objet trouvé quanto le sue performance sono infatti prelievi e restituzioni di porzioni di vita reale nella loro inattesa essenzialità. A cambiare è il fattore di scala, poiché Tolj ha l’abilità di non limitarsi alla semplice trascrizione di un evento o di una storia, ma di restituirne, sotto forma di un lavoro oggettuale o di un’azione, la smodata e lacerante intensità.

L’opera è, nella poetica di Tolj, un dispositivo che consente la trasmissione di un’esperienza, ossia un congegno narrativo che amplifica e rende manifesto un elemento di significatività, il quale, diversamente, passerebbe inosservato. L’opera infatti evidenzia, sottolinea ed enfatizza ciò che affogherebbe nella banalità del quotidiano e dell’indistinto: genera domande rispetto al momento presente, al passato, alle relazioni o alla memoria. Ma essa è, inoltre, un elemento di mediazione e relazione tra l’artista, il suo corpo e il contesto in cui si è generata, poiché è una lente che rende visibile e leggibile una discontinuità nel tessuto ordinario, una crepa o una ferita non rimarginata.

Per mezzo della propria presenza, di azioni minimali condotte con il proprio corpo, di spostamenti di piccoli oggetti, Tolj mette infatti in luce le fessure e le scorticature che la vita e la storia causano sul tessuto della nostra esistenza, come la craquelure che si produce sulla superficie dei dipinti a olio col passare degli anni. Ed egli non ripristina, non restaura né ricompone quei margini frutto di opposte tensioni, ma, al contrario, rende eclatante il contrasto e il progressivo slabbramento.

L’opera è quindi per l’artista una modalità interrogativa di stare al mondo: è un habitus reiterato ma incerto. È uno spazio di frontiera e dissidio, con il quale – senza retorica e con un linguaggio scarno e necessario – si pone davanti all’osservatore investendolo di un intenso carico emotivo. Viene così a rivelarsi, agli occhi di chi guarda, l’immane e accecante crudezza della realtà e di quegli eventi che, probabilmente, si preferirebbe non conoscere.

La vita e la ricerca di Tolj sono state segnate dalle vicende storiche che hanno condotto alla tragica dissoluzione della Jugoslavia, dalla guerra fratricida alla morte senza senso di persone care, fino al profondo cambiamento politico e sociale che ne è seguito. Con la massima accortezza l’artista ha registrato nelle sue opere – ma, ugualmente, anche nella sua attività di curatore e direttore di istituzioni – la capillarità della penetrazione del consumismo e il mutamento antropologico che ne è conseguito, ma anche la drastica trasformazione della sua città, Dubrovnik, per l’effetto del turismo di massa.

Ugualmente anche questioni più strettamente personali, quali per esempio, il cambiamento del suo corpo, sono stati per l’artista una fondamentale lente di osservazione della realtà. La sua storia personale, il suo corpo segnato dall’ictus, gli esercizi di riabilitazione per riprendere l’uso del linguaggio, ma anche la difficoltà a esprimere compiutamente in forma verbale i propri pensieri, sono diventati l’humus che ha prodotto la nascita di nuove opere. E non c’è nel suo caso alcuna forma di esibizionismo, poiché il corpo è per lui un ineguagliabile strumento di indagine e rilevamento, capace di sondare e fornire un’immagine poetica dei temporali, degli squarci di luce e dei venti che agitano le nuvole della nostra vita. Tolj è frontale e diretto, e mostra la propria intima verità senza compromesso, anche quando rivela una profonda e umana fragilità.

In Community Spirit in Action (1998) Tolj performa in un peep show di Zagabria insieme a una spogliarellista, presentando il proprio corpo disteso del tutto inerme, coperto da un panno. L’opera evidenzia la condizione paradossale di essere un body artist la cui presenza passa socialmente quasi inosservata, mentre il corpo di donna – pur sfruttato ed eroticamente oggettivato – è, al contrario, ricercato e desiderato dallo sguardo.

La fotografia Untitled (1997) testimonia la rimozione dei maestosi lampadari della Chiesa di Sant’Ignazio, a Dubrovnik, affinché non potessero cadere sulle persone, avvenuta durante i combattimenti nelle guerre nell’Ex Jugoslavia. Gli oggetti sono stati così sostituiti con delle semplici lampadine industriali senza identità.

Nell’azione A tattoo of the logo of Rijeka’s Museum of Modern and Contemporary Art Rijeka (2013), realizzata nelle settimane successive alla sua nomina a direttore del museo MMSU, l’artista si fa tatuare il logo del museo sulle spalle. È un’opera insieme intima e politica, nella quale l’artista testimonia la sua dedizione personale al nuovo ruolo istituzionale; ma, essendo egli anche artista, evidenzia il fatto di come i musei siano percepiti come un marchio e un metro di valore del proprio lavoro.

Nella performance Dubrovnik-Valencia-Dubrovnik (2003) Tolj rimane a torso nudo dopo essersi tolto una dozzina di indumenti, ciascuno dei quali provvisto di un bottone nero che simboleggia un amico perso in guerra. A quel punto strappa uno dei bottoni e decide di cucirlo sulla propria pelle, usando ago e filo, come se fosse una medaglia da appuntarsi al petto. Ma, al contrario, questo gesto diventa il segno di un lutto, di un dolore che denuda e dal quale non ci si può più liberare.

Il segno nero che indica il lutto è l’elemento centrale anche del lavoro Untitled (1991), costituito da un specchio collocato a terra che ha un angolo superiore con una striscia di tessuto scuro. Lo specchio, quasi perpendicolare al pavimento, riflette la parta bassa del corpo dell’osservatore e i suoi piedi rendendo più evidente il contesto e consentendo una lettura più accurata dello spazio. L’opera parla di un’assenza, di una perdita che si palesa, di tanto in tanto, in maniera inattesa, subliminale e dolorosa.

Untitled (1999) è costituita da due bandiere croate, una delle quali stinta, annodate dall’artista. L’opera è una presa di posizione politica rispetto al culto dell’identità personale, completamente smarrita, e al nazionalismo, fortemente accresciuto nei Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia, e poi, a partire dagli inizi del nuovo secolo, in tutta Europa. Con l’opera l’artista evidenzia l’impossibilità di trovare una posizione adeguata rispetto alle logiche della geopolitica, ma anche il suo personale il disagio di non sentirsi rappresentato compiutamente da nessuna delle due bandiere. L’opera, nel contesto della Sala Urbana caratterizzato dalla numerosa presenza di stemmi e insegne, può essere inoltre letta come un sarcastico riferimento alla folle polverizzazione dell’identità.


Nella performance Bologna, February 2023, Tolj sta svestito nello spazio della Sala Urbana in attesa che qualcosa succeda, che si renda manifesta una relazione. Nelle sue orecchie la canzone Bella ciao, una delle prime cose che ha riconosciuto del mondo dopo il risveglio seguito all’ictus. Poi quella musica diventa esplicita, presente, a indicare la presenza di un interlocutore, di un nuovo possibile dialogo o di una rinascita. Pur nel suo peso insostenibile, la vita è una sfida tragica che merita di essere accettata.

In Rosarium (1988) l’artista è nudo ed eretto di fronte all’altare di una chiesa, in condizione di attesa e di candore, aspetto che può essere letto sia come un velato riferimento all’aspetto della nudità di Cristo bambino, comune a tanta iconografia cristiana, ma anche come una affermativa dichiarazione di volontà di Tolj – allora molto giovane – ad affrontare le sfide che la vita pone, come uomo e come artista. La performance allude inevitabilmente alla condizione umana e al destino già scritto a cui non ci si può sottrarre. Tale aspetto ha acquisito ulteriore dolorosa intensità poiché la documentazione della performance è stata realizzata dal fotografo Pavo Urban, amico dell’artista, venuto a mancare durante l’assedio di Dubrovnik nel 1991.