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Slaven Tolj. Craquelure. Pavo and me

Slaven Tolj
Craquelure. Pavo and me

Palazzo d’Accursio, Collezioni Comunali d’Arte, Bologna
gennaio ― marzo 2023

Non vedi una crepa, lì sulla pelle?
Daniele Capra




La personale di Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me è costituita da una quindicina di opere oggettuali e documentative e dalla performance Bologna, February 2023, concepita appositamente per le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio. Il progetto è una sintetica retrospettiva i cui lavori evidenziando la capacità di Tolj di porsi come elemento interstiziale rispetto alle dinamiche interiori, interpersonali e politiche, sviluppando un racconto intimo condotto sul doppio binario della vita personale e della ricerca espressiva. La mostra è dedicata al fotografo Pavo Urban, amico dell’artista morto in guerra a Dubrovnik il 6 dicembre 1991, del quale sono esposte delle fotografie della serie Rosarium che documentano una performance di Tolj realizzata nella città croata.

A partire dai suoi esordi alla fine degli anni Ottanta, fino a lavori recenti che testimoniano le vicissitudini dovute a un ictus che ha minato le sue capacità linguistiche, la pratica della body art e dell’arte concettuale sono state centrali nell’opera di Slaven Tolj, il cui lavoro è alimentato da un continuo scambio con gli eventi umani e professionali vissuti in prima persona. L’esperienza del dolore e i tormenti che sbrindellano l’esistenza segnandola con graffi profondi sono infatti i punti di partenza di tutta la sua pratica visiva. Tolj è artista in quanto essere senziente al massimo grado, capace non solo di percepire e registrare, come un sismografo, le più infinitesime variazioni di quel complesso universo tellurico che è l’essere umano, ma anche di elaborarle senza alcuna deriva patetica o finzionale.

La sua opera è radicale e parla candidamente di vita, di dolore, di memoria, di perdita, di incomunicabilità e di sconfitta, che vengono formalizzate in modo interrogativo nei confronti dello spettatore con geometrica e tagliente precisione. Tanto i suoi objet trouvé quanto le sue performance sono infatti prelievi e restituzioni di porzioni di vita reale nella loro inattesa essenzialità. A cambiare è il fattore di scala, poiché Tolj ha l’abilità di non limitarsi alla semplice trascrizione di un evento o di una storia, ma di restituirne, sotto forma di un lavoro oggettuale o di un’azione, la smodata e lacerante intensità.

L’opera è, nella poetica di Tolj, un dispositivo che consente la trasmissione di un’esperienza, ossia un congegno narrativo che amplifica e rende manifesto un elemento di significatività, il quale, diversamente, passerebbe inosservato. L’opera infatti evidenzia, sottolinea ed enfatizza ciò che affogherebbe nella banalità del quotidiano e dell’indistinto: genera domande rispetto al momento presente, al passato, alle relazioni o alla memoria. Ma essa è, inoltre, un elemento di mediazione e relazione tra l’artista, il suo corpo e il contesto in cui si è generata, poiché è una lente che rende visibile e leggibile una discontinuità nel tessuto ordinario, una crepa o una ferita non rimarginata.

Per mezzo della propria presenza, di azioni minimali condotte con il proprio corpo, di spostamenti di piccoli oggetti, Tolj mette infatti in luce le fessure e le scorticature che la vita e la storia causano sul tessuto della nostra esistenza, come la craquelure che si produce sulla superficie dei dipinti a olio col passare degli anni. Ed egli non ripristina, non restaura né ricompone quei margini frutto di opposte tensioni, ma, al contrario, rende eclatante il contrasto e il progressivo slabbramento.

L’opera è quindi per l’artista una modalità interrogativa di stare al mondo: è un habitus reiterato ma incerto. È uno spazio di frontiera e dissidio, con il quale – senza retorica e con un linguaggio scarno e necessario – si pone davanti all’osservatore investendolo di un intenso carico emotivo. Viene così a rivelarsi, agli occhi di chi guarda, l’immane e accecante crudezza della realtà e di quegli eventi che, probabilmente, si preferirebbe non conoscere.

La vita e la ricerca di Tolj sono state segnate dalle vicende storiche che hanno condotto alla tragica dissoluzione della Jugoslavia, dalla guerra fratricida alla morte senza senso di persone care, fino al profondo cambiamento politico e sociale che ne è seguito. Con la massima accortezza l’artista ha registrato nelle sue opere – ma, ugualmente, anche nella sua attività di curatore e direttore di istituzioni – la capillarità della penetrazione del consumismo e il mutamento antropologico che ne è conseguito, ma anche la drastica trasformazione della sua città, Dubrovnik, per l’effetto del turismo di massa.

Ugualmente anche questioni più strettamente personali, quali per esempio, il cambiamento del suo corpo, sono stati per l’artista una fondamentale lente di osservazione della realtà. La sua storia personale, il suo corpo segnato dall’ictus, gli esercizi di riabilitazione per riprendere l’uso del linguaggio, ma anche la difficoltà a esprimere compiutamente in forma verbale i propri pensieri, sono diventati l’humus che ha prodotto la nascita di nuove opere. E non c’è nel suo caso alcuna forma di esibizionismo, poiché il corpo è per lui un ineguagliabile strumento di indagine e rilevamento, capace di sondare e fornire un’immagine poetica dei temporali, degli squarci di luce e dei venti che agitano le nuvole della nostra vita. Tolj è frontale e diretto, e mostra la propria intima verità senza compromesso, anche quando rivela una profonda e umana fragilità.

In Community Spirit in Action (1998) Tolj performa in un peep show di Zagabria insieme a una spogliarellista, presentando il proprio corpo disteso del tutto inerme, coperto da un panno. L’opera evidenzia la condizione paradossale di essere un body artist la cui presenza passa socialmente quasi inosservata, mentre il corpo di donna – pur sfruttato ed eroticamente oggettivato – è, al contrario, ricercato e desiderato dallo sguardo.

La fotografia Untitled (1997) testimonia la rimozione dei maestosi lampadari della Chiesa di Sant’Ignazio, a Dubrovnik, affinché non potessero cadere sulle persone, avvenuta durante i combattimenti nelle guerre nell’Ex Jugoslavia. Gli oggetti sono stati così sostituiti con delle semplici lampadine industriali senza identità.

Nell’azione A tattoo of the logo of Rijeka’s Museum of Modern and Contemporary Art Rijeka (2013), realizzata nelle settimane successive alla sua nomina a direttore del museo MMSU, l’artista si fa tatuare il logo del museo sulle spalle. È un’opera insieme intima e politica, nella quale l’artista testimonia la sua dedizione personale al nuovo ruolo istituzionale; ma, essendo egli anche artista, evidenzia il fatto di come i musei siano percepiti come un marchio e un metro di valore del proprio lavoro.

Nella performance Dubrovnik-Valencia-Dubrovnik (2003) Tolj rimane a torso nudo dopo essersi tolto una dozzina di indumenti, ciascuno dei quali provvisto di un bottone nero che simboleggia un amico perso in guerra. A quel punto strappa uno dei bottoni e decide di cucirlo sulla propria pelle, usando ago e filo, come se fosse una medaglia da appuntarsi al petto. Ma, al contrario, questo gesto diventa il segno di un lutto, di un dolore che denuda e dal quale non ci si può più liberare.

Il segno nero che indica il lutto è l’elemento centrale anche del lavoro Untitled (1991), costituito da un specchio collocato a terra che ha un angolo superiore con una striscia di tessuto scuro. Lo specchio, quasi perpendicolare al pavimento, riflette la parta bassa del corpo dell’osservatore e i suoi piedi rendendo più evidente il contesto e consentendo una lettura più accurata dello spazio. L’opera parla di un’assenza, di una perdita che si palesa, di tanto in tanto, in maniera inattesa, subliminale e dolorosa.

Untitled (1999) è costituita da due bandiere croate, una delle quali stinta, annodate dall’artista. L’opera è una presa di posizione politica rispetto al culto dell’identità personale, completamente smarrita, e al nazionalismo, fortemente accresciuto nei Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia, e poi, a partire dagli inizi del nuovo secolo, in tutta Europa. Con l’opera l’artista evidenzia l’impossibilità di trovare una posizione adeguata rispetto alle logiche della geopolitica, ma anche il suo personale il disagio di non sentirsi rappresentato compiutamente da nessuna delle due bandiere. L’opera, nel contesto della Sala Urbana caratterizzato dalla numerosa presenza di stemmi e insegne, può essere inoltre letta come un sarcastico riferimento alla folle polverizzazione dell’identità.


Nella performance Bologna, February 2023, Tolj sta svestito nello spazio della Sala Urbana in attesa che qualcosa succeda, che si renda manifesta una relazione. Nelle sue orecchie la canzone Bella ciao, una delle prime cose che ha riconosciuto del mondo dopo il risveglio seguito all’ictus. Poi quella musica diventa esplicita, presente, a indicare la presenza di un interlocutore, di un nuovo possibile dialogo o di una rinascita. Pur nel suo peso insostenibile, la vita è una sfida tragica che merita di essere accettata.

In Rosarium (1988) l’artista è nudo ed eretto di fronte all’altare di una chiesa, in condizione di attesa e di candore, aspetto che può essere letto sia come un velato riferimento all’aspetto della nudità di Cristo bambino, comune a tanta iconografia cristiana, ma anche come una affermativa dichiarazione di volontà di Tolj – allora molto giovane – ad affrontare le sfide che la vita pone, come uomo e come artista. La performance allude inevitabilmente alla condizione umana e al destino già scritto a cui non ci si può sottrarre. Tale aspetto ha acquisito ulteriore dolorosa intensità poiché la documentazione della performance è stata realizzata dal fotografo Pavo Urban, amico dell’artista, venuto a mancare durante l’assedio di Dubrovnik nel 1991.

Intermezzo

Giovanni Morbin, Slaven Tolj
Intermezzo

Trieste Contemporanea, Trieste
ottobre ― dicembre 2021

Daniele Capra




Intermezzo presenta una decina di opere che spaziano dalla scultura al video, dall’intervento site-specific alla performance. La mostra analizza come l’opera possa essere intesa quale elemento interstiziale di relazione tra il corpo dell’artista e il contesto in cui si manifesta. Nel linguaggio teatrale l’intermezzo è un intervallo di pausa che segna la divisione tra più parti di una rappresentazione o di uno spettacolo, e viene considerato quale elemento di interruzione del flusso narrativo: è una parentesi transitoria che prevede la sospensione della finzione e segna momentaneamente il ritorno alla realtà del quotidiano. È uno spazio breve di ibridazione in cui lo spettatore avverte la sovrapposizione tra la scrittura di finzione dell’opera e quella della propria vita (realizzata dalla realtà, dal proprio sistema di relazioni, dall’ideologia, dal contesto). Intermezzo sottolinea come l’opera, tanto più nel caso di autori che praticano la body art e la performance come Morbin e Tolj, sia un habitus incerto e aperto, uno spazio di mediazione e di frontiera, ma anche di straniamento, poiché lo spettatore non sempre conosce le convenzioni che in quel contesto si praticano o ha consapevolezza di ciò che sta accadendo. Nel suo essere elemento di mezzo tra le istanze espressive e l’ambiente in cui si muove lo spettatore, l’opera diventa una sorta di seconda pelle, dotata anche di funzioni espressive. Essa riveste e tiene al caldo gli aspetti più intimi e complessi del soggetto, ma, contemporaneamente, veicola all’esterno le percezioni e l’energia fisica e psichica che possiede.


La ricerca di Giovanni Morbin è caratterizzata dall’analisi del comportamento e della postura, dell’ingombro, della presenza del corpo e delle sue proiezioni all’esterno attraverso la performance e la scultura. Nella serie Non sto più nella pelle, l’artista sposta sulla superficie esterna porzioni significative del proprio corpo, realizzando degli autoritratti concettuali grazie all’impiego dei propri fluidi ematici: in tale modo il suo corpo prende una forma liquida e diventa intimamente elemento di scrittura, di segno e disegno, ma anche di traslazione del proprio volume al di fuori del proprio corpo. Scultura sociale è un’opera in costante divenire costituita da elementi modulari semisferici in metallo, liberamente componibili, che si mettono in relazione con l’esistente, potendo accoppiarsi con sedie, tavoli, porte, armadi, o qualsiasi altro oggetto. È una scultura “sociale” proprio per la sua capacità di introdursi in un contesto e interagire con esso in forma funzionale e visiva, essendo capace, anche ironicamente, di attaccare bottone spontaneamente con l’esistente.


La pratica di Slaven Tolj è frutto di un profondo scavo interiore, in cui sono frequentemente fusi elementi della vita personale dell’autore e lucida analisi del contesto socio-politico, che vengono condensati nella forma della performance e della scultura. The site of the stroke è un ready-made dal sapore esistenzialista costituito un abito da uomo di taglio sartoriale che è stato reso sostanzialmente inservibile, poiché molte delle aperture sono state cucite con del filo rosso: è uno spazio vuoto, un volume che è dotato di forma ma non riesce ad avere una funzione poiché un vincolo (visibile) lo blocca, riconducendolo a essere un complemento, un oggetto che non produce effetto, come spesso capita agli uomini nelle questioni più salienti della propria vita. L’opera A tattoo of the logo of the Museum of Modern and Contemporary Art Rijeka è stata realizzata nelle settimane successive alla sua nomina a direttore del MMSU, quando Tolj decide di farsi tatuare sulle spalle il logo del museo. È un’opera intima e insieme sottilmente politica rispetto alla condizione di essere artista e al sistema dell’arte. L’artista testimonia infatti da un lato il suo totale impegno personale verso il nuovo ruolo istituzionale; ma anche il fatto che, in qualità di artista, spesso i musei sono un marchio e un metro di giudizio rispetto alla significatività del proprio lavoro durante la propria carriera.

Point of Interrupted Departures

Izvor Pende, Slaven Tolj, Marijana Pende

Point of Interrupted Departures

Venezia, Arsenale, Tesa 100
maggio ― novembre 2019

Contrasti continui
Note sulla pratica artistica di Marijana Pende

Daniele Capra




Guardare verso più direzioni
La pratica di Marijana Pende, dedicata in forma esclusiva alla scultura, si sviluppa lungo due direttive principali, tra loro differenti ed apparentemente in contraddizione. L’artista si muove infatti tra un approccio di carattere estetico-sensoriale, orientato a sviluppare una relazione diretta e sensoriale con lo spettatore (A), ed una modalità più impegnata, che si è sviluppata invece da un interesse verso le forme con cui i sistemi di produzione condizionano il presente, le vite delle persone e l’ambiente (B). Nel primo caso (A) l’attenzione è rivolta direttamente allo spettatore, ossia al destinatario finale, che condivide il proprio spazio fisico con l’opera, in una relazione di prossimità visiva: l’artista, grazie all’opera, mira cioè ad indagare le potenzialità percettive ed emotive della scultura. Nel secondo caso (B), invece, il focus dell’artista è rivolto alla società, entità fisicamente distante dallo spettatore nel momento in cui egli sperimenta direttamente l’opera: l’artista pone l’attenzione agli aspetti collettivi, alle dinamiche sociali, economiche e politiche in cui l’opera è immersa, ossia al contesto culturale che l’ha generata.
Come dimostrano i recenti lavori Looking forward to seeing you, (A) e (B) coesistono nella ricerca di Pende. (A) limita il campo d’indagine all’esperienza con l’opera, cioè ad una relazione personale in cui l’opera agisce catturando lo sguardo e le percezioni del fruitore in forma centripeta, in una sorta di contrazione sugli aspetti emotivi dei lavori. Al contrario (B) espande l’attenzione verso l’esterno, il contesto, focalizzando sulle potenzialità centrifughe dell’opera, in una sorta di espansione verso la dimensione politica. Entrambi gli aspetti sono per l’artista equamente necessari, nella loro complementarietà, e le consentono di guardare in due diverse direzioni contemporaneamente, come fa Giano bifronte, in una forma di strabismo particolarmente fecondo.
Le opere realizzate per la mostra di Venezia nascono dalla combinazione di parti di metallo e plexiglas, colorate e razionali, con altri elementi più materici e seducenti, che sono invece il frutto di un’intensa sperimentazione condotta da diversi anni presso la TUP, un’azienda di Dubrovnik che realizza componenti in carbonio-grafite per le industrie meccaniche, elettriche e dei trasporti. La differenza tra i materiali è molto evidente, per il loro disegno, la loro consistenza e anche per il loro colore: linee rette e superfici omogenee si contrappongono infatti a forme morbide e grigi opachi, che ricordano i tessuti e, più in generale, la pittura aniconica. Quello messo in atto da Pende è cioè un dialogo tra due universi distanti percettivamente e concettualmente, che conferiscono allo spettare stimoli di natura sensoriale differente: nel primo caso di tipo visivo, poiché basati sul colore, il volume e la luce; nel secondo invece di tipo tattile, dato che sono messe in rilievo le caratteristiche epidermiche e materiche della superficie.


Le eredità del Modernismo
Le lastre di plexiglas colorato di forma rettangolare (montate su dei tubi di metallo a sezione quadrata) conferiscono alla struttura ritmo visivo ben definito, caratterizzato dalla presenza di più piani, paralleli o disposti ortogonalmente. I colori intensi ed omogenei e la disposizione a moduli delle superfici rendono evidenti i riferimenti agli elementi primari tipici delle avanguardie dell’architettura modernista, in particolare rispetto all’uso di superfici semplificate e alla costruzione del volume per accostamento successivo di piani, come avviene ad esempio nell’opera di Theo van Doesburg o Gerrit Rietveld. Di quest’ultimo, in particolare, l’artista eredita la capacità di spezzare lo spazio in elementi dissociati come poligoni e parallelepipedi, che conferiscono alle sculture una spazialità sintetica e mai massiccia. Inoltre – come frequentemente accade a molte delle architetture di Ludwig Mies van der Rohe – il volume dell’opera è determinato dalla presenza di piani che non determinano mai forme chiuse, ma, al contrario, sono disposti in forma libera e permettono allo sguardo di non interrompersi rigidamente.
Un altro elemento che rafforza la percezione di leggerezza e di assenza di volume è la trasparenza del plexiglas (che è in parte anche specchiante). Tale aspetto, infatti, suggerisce la continuità tra l’esterno e l’interno della scultura, poiché gli elementi che caratterizzano il contesto possono essere visti perfettamente all’interno dei rettangoli colorati, come fossero dei ritagli di mondo che si guardano da una vetrata. Grazie a tale modalità l’opera tende a confondersi con ciò che la circonda, suggerendo allo spettatore una sostanziale continuità tra scultura e contesto, che continuamente si sovrappongono. Un ulteriore elemento di dialogo tra contesto e le opere Looking forward to seeing you deriva dalle proiezioni colorate a terra (o sulle pareti) dei pannelli di plexiglas: l’ambito dell’opera si allarga, i limiti si confondano, ed essa amplifica la propria presenza interagendo con il luogo, in cui si mescola, grazie alla luce che la attraversa.


Il tatto e la storia operaia
Di natura radicalmente diversa sono le parti morbide delle sculture, realizzate manualmente dall’artista impiegando lattice e polvere di carbonio (carbonio-grafite), che sono caratterizzate da una consistenza simile a quella di un tessuto opalescente ed organico che evoca la morbidezza della pelle umana e che, in presenza di vento, si muove leggermente. Sono superfici cromaticamente neutre, che stimolano lo spettatore ad avere un’esperienza tattile, a leggere e conoscere i dettagli della superficie servendosi dei polpastrelli, come sono soliti fare i non-vedenti, benché non sia ovviamente consentito. Se da un lato questo mette in discussione la convenzione della scultura come dispositivo dotato di volume che occupa lo spazio e ne condiziona l’interazione, dall’altro Pende – consapevole del fatto che le regole standard di interazione tra spettatore ed opera nello spazio espositivo siano basate in forma esclusiva sull’uso vista – spinge l’osservatore ad immaginare quello che le dita non potranno mai provare. O che probabilmente solo i bambini faranno di fronte all’opera non curandosi delle convenzioni, approfittando di un momento di disattenzione da parte dei genitori.
Le parti morbide delle sculture, ricordano facilmente all’osservatore coperte e altri sistemi di protezione, oggetti che servono cioè a conservare e a tenere al sicuro le persone dal freddo, dalla pioggia o da altre intemperie: sono cioè sistemi per prendersi cura del corpo, ed è possibile estendere idealmente tali funzionalità all’opera di cui sono parte. Avviene quindi, almeno dal punto di vista concettuale, che una parte di opera si prenda cura di essa stessa, come potrebbe fare una persona che si copre il corpo con una coperta mentre, in un pomeriggio d’inverno, fa un pisolino. Inoltre tali parti della scultura sono realizzate in un materiale che ha dei forti elementi seducenti, dovuti non solo alla sua consistenza avvolgente, ma anche alle sue capacità di evocare un immaginario erotico di sapore sadomasochista, caratterizzato dall’uso di particolari sex toy e di sensuali abiti fascianti portati direttamente sulla pelle.
Pende ha cominciato a sperimentare l’impiego del carbonio e della polvere di grafite successivamente ad una ricerca svolta sul lavoro operaio e sulle condizioni di lavoro della TUP, una vecchia industria nata nella Yugoslavia degli anni Cinquanta situata nel centro di Dubrovnik e transitata inalterata dal periodo socialista al capitalismo odierno. Durante un colloquio viene a conoscere che, nelle fasi di lavorazione dei componenti, la fabbrica produce una grande quantità di scarti, che sono ritenuti dei semplici rifiuti improduttivi espulsi dal sistema produttivo. L’artista chiede istintivamente di poter prendere per sé quei materiali di risulta, anche se a prima vista non ha alcuna idea di un loro possibile uso. Ne è però incuriosita e sente un’istintiva attrazione per la lucentezza metallica dei neri del carbonio e per i grigi profondi della polvere di grafite.
Nei mesi seguenti Pende comincia ad utilizzare quegli scarti nelle proprie sculture, prima in blocchetti solidi e successivamente come polvere da impiegare combinandola con altre sostanze. Questa sperimentazione conduce l’artista a creare un vero e proprio materiale morbido ed avvolgente, con una colorazione a toni di grigi e la morbidezza tipica dei tessuti, che è diventato poi una delle parti costitutive di Looking forward to seeing you, insieme agli elementi visivi in metallo e plexiglas. Quello messo a punto dall’artista è un materiale artificiale ed organico insieme: artificiale per le modalità di produzione, organico perché basato sull’impiego di carbonio e lattice.


Nuova dignità
Il processo innescato da Pende è una dimostrazione di come quei residui possano avere una storia ulteriore e contribuire al nostro presente, capovolgendo la loro condizione di scarto del sistema produttivo, situazione che nel nostro modello economico contemporaneo accomuna cinicamente le cose e gli uomini. Quello portato avanti dall’artista è, infatti, un tentativo poetico di ricondurre al centro della nostra attenzione i rifiuti, gli elementi abbandonati e negletti, dando loro una nuova dignità, una nuova ragione esistenziale, un’ulteriore possibilità non preventivata. L’azione dimostra una forte tensione ideale e rende esplicita, in maniera non retorica, una critica al nostro sistema produttivo, che è basato sullo spreco di risorse e su una quantificazione prettamente economica delle nostre azioni, senza la benché minima valutazione di tipologia ambientale basata sulla reale sostenibilità del nostro agire. Impiegare quello che è un rifiuto non è però solo un gesto anarchico o situazionista di ribaltamento del valore attribuito convenzionalmente alle cose, ma è un’azione politica.
È infatti la dimostrazione di credere a un altro mondo in cui le merci o le risorse che impieghiamo non sono solo banalmente fattori di costo, ma sono degli elementi concreti dotati di fisicità, peso, storia e finalità di cui ci dobbiamo necessariamente fare carico, nel momento in cui sono parte della nostra vita. Inevitabilmente c’è in questo forse inconsapevole atteggiamento una (piccola) dose di utopia: il desiderio cioè da parte dell’artista di suggerire un cambiamento di coscienza nella gestione delle risorse, ponendo attenzione allo spreco e alle altre distorsioni del nostro sistema economico. E tutto questo non è suggerito sotto forma di manifesto, ossia come una manifestazione generica di volontà, bensì con l’esempio, che è la forma più alta di concretizzazione di un pensiero che si vuole rendere vivo.


Dialoghi
In Looking forward to seeing you Pende mette insieme una quantità enorme di stimoli contrastanti. Non solo gli opposti centripeto/centrifugo rispetto alle interazioni tra lo spettatore e l’opera nel contesto, il dualismo vista/tatto, l’opposizione tra i materiali razionali/emotivi (plexiglas/carbonio-grafite), che sono riconducibili all’opposizione freddo/caldo o all’antitesi inorganico/organico. Ma si registra anche il contrasto tra realtà/utopia, rispetto a cui l’artista dimostra una relazione possibile grazie alla propria azione.
L’opera di Pende è, in ultima analisi, un dispositivo estetico-dialogico che evidenzia e pone sotto il nostro sguardo le contraddizioni culturali, estetiche, filosofiche proprie dell’uomo e del nostro tempo. Ma è anche la dimostrazione che, più in generale, un’opera d’arte può essere interpretata solo con la consapevolezza che essa è un coacervo di forme, intenzioni, spinte di natura eterogenea o, talvolta, opposta. Elementi che ne fanno un sistema aperto, polisemico, dotato di istanze ugualmente necessarie, urgenti, ineludibili. Spetta all’osservatore – dopo aver prestato attenzione alle infinite controparti – non smettere mai di ricomporle.