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Antonio Marchetti Lamera. Tempo subìto, tempo anticipato

Antonio Marchetti Lamera
Tempo subìto, tempo anticipato

Verona, Studio La Città
ottobre ― novembre 2019

Tempo subìto, tempo anticipato
Daniele Capra




Nella nostra esperienza quotidiana lo scorrere del tempo è percepito grazie agli eventi atmosferici e alla mutazione della luce che viene continuamente osservata sugli edifici, sugli alberi e in generale sugli elementi antropici e naturali. L’opera recente di Marchetti Lamera fa riferimento alla manifestazione fisica e cronologica del tempo, e al suo concretizzarsi nel movimento delle ombre originato dalla luce del sole. La sua pratica è incentrata sulla documentazione/registrazione, in un’immagine bidimensionale pittorica, dell’ombra che qualunque corpo proietta su altre superfici. L’immagine finale, condensata su tela o su carta, oscilla tra essere quindi il frutto di un tempo lineare subìto – ossia già passato, sfuggente ed inafferrabile – e la supposizione di un tempo ciclico anticipato, di una circostanza cioè destinata ad essere già annunciata e quindi pre-vista.
La nostra civiltà si è sempre dibattuta tra due antitetici modelli di concezione del tempo, basati sulle opposte idee di circolarità e linearità. È circolare quando gli eventi e le condizioni che li hanno determinati possono periodicamente riproporsi, nella stessa maniera in cui le stagioni si susseguono e i pianeti si muovono all’interno del nostro sistema solare, poiché, come sintetizzava Nietzsche, “l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta” [1]. È invece lineare quando vi è un unico verso di percorrenza, cioè un continuo avvicendarsi di eventi in forma cronologicamente susseguente ed irripetibile, come si registra nella tradizione giudaico-cristiana secondo la quale il mondo è stato creato e vi sarà, in futuro, la sua distruzione (come preconizzato ad esempio nell’Apocalisse di Giovanni).
Ciascuna delle modalità, le cui ricadute non sono sempre rigidamente in contrapposizione, tende ad evidenziare aspetti differenti del tempo, ponendo alternativamente l’attenzione sul carattere periodico e liberatorio della ripetizione o sulla malevola sfuggevolezza di istanti e situazioni che non potranno più presentarsi tali e quali. La ricerca condotta sulle ombre da Antonio Marchetti Lamera negli ultimi anni sembra svolgersi lambendo simmetricamente entrambe le concezioni del tempo, delle quali evidenzia gli aspetti di delicatezza, intimità e talvolta di sottilissima malinconia esistenziale.


Il soggetto ‘ombra portata’ scelto dall’artista fa riferimento agli aspetti di ciclicità delle condizioni di luce, che si presentano sostanzialmente identiche nella medesima giornata a distanza di brevi intervalli di tempo o nell’arco delle ventiquattro ore, se permangono le identiche condizioni meteorologiche. La luce solare, pur essendo cangiante per sua stessa natura, agisce infatti nella realtà che osserviamo come elemento interstiziale tra corpo e ombra portata, e, inoltre, si comporta come entità in grado di uniformare le nostre percezioni, senza realmente metterci in grado di cogliere i fenomeni di trasformazione istantanea (se non vi sono cambiamenti delle condizioni meteo), in una sorta di sospensione metafisica.
Ma l’ombra portata e il suo pur lento cambiamento sono indicativi dello scorrere del tempo e del suo consumarsi propri della concezione lineare, come capita di avvertire nella nostra esperienza quotidiana basata sulla consuetudine di misurare il tempo. Ne percepiamo il continuo srotolarsi e il flusso inarrestabile, e siamo consci dell’infinita transitorietà e di come non sia possibile, come già ammoniva Eraclito, bagnarsi due volte nello stesso fiume [2]. O, per analogia, vedere due volte la stessa medesima ombra. Tanto più perché, paradossalmente, anche noi stessi siamo in parte cambiati nel frattempo: la condizione lineare implica infatti un costante mutamento, anche del soggetto percepente. Opporsi a questo divenire pare umanamente non possibile.


Il lavoro dell’artista ha molte similitudine con la modalità di registrazione propri della fotografia, non tanto per la sua derivazione da uno scatto conservato nel proprio archivio, quanto invece per le dinamiche di campionamento che sono insite nel processo. L’immagine finale è infatti l’effetto di un prelievo di tempo, una testimonianza di una condizione passata, che è insieme la traccia di una presenza che è avvenuta, ma che si potrebbe presentare in forma analoga, non appena si verifichino le medesime condizioni (meteorologiche e di posizione del sole). Tale campionamento ha quindi plurime possibilità interpretative, a seconda che si prediligano gli aspetti di unicità o quelli di ripetitività: è insieme cioè tempo subìto e anticipato.


Un’ombra portata, che è intrinsecamente instabile ed impalpabile, è difficilmente classificabile dal punto di vista iconografico come un vero ed autonomo soggetto, poiché essa è solo l’effetto – la testimonianza – di qualcosa che è esistito, altrove. L’ombra portata prova cioè che gli oggetti e i manufatti esistono, che sono estesi e possiedono un volume la cui presenza determina delle aree con minore illuminazione rispetto a quella in cui la luce arriva in modo diretto. È una sorta di documentazione, un dispositivo concettuale comune indistintamente a tutti i corpi che garantisce che qualcosa esiste, pur non possedendo i requisiti standard del soggetto.
L’ordinaria classificazione che contrappone figurazione e immagine aniconica risulta in questo caso totalmente priva di significato. Quello scelto dall’artista è a tutti gli effetti un anti-soggetto – ossia un soggetto inconsapevole, nascosto ed elusivo – simile ad un seme di una pianta ignota che il vento ci ha portato casualmente in mano, e che pianteremo nel terreno senza sapere da quale pianta provenga. In questo continuo tentativo di mostrare quello che è transitoria proiezione (l’ombra) celando del tutto ciò che esiste (il corpo che la produce), l’opera di Marchetti Lamera porta al massimo grado le possibilità dell’arte di generare contenuto visivo rielaborando in forma eversiva gli stimoli fenomenologici che provengono dalla realtà.
Le ombre, private di ogni relazione con gli elementi primari che le hanno generate – come tralicci, architetture urbane ed industriali, alberi – sono infatti come dei morfemi che l’artista impiega e ricombina rispetto alle proprie necessità compositive. Ne escono dei brevi testi poetici, degli haiku costituiti da pochi versi e dai toni quasi ermetici, che condensano la complessità in poche parole. Le zone di confine tra le forme scure e il contesto sono sfumate, benché si possano cogliere delle forme elaborate, realizzate a grafite o con il colore. L’atmosfera è impalpabile e sospesa, permeata da malinconico struggimento: è come se le sue immagini fossero mappe di luoghi una volta vitali, ma che ora non esistono più, e dei quali è rimasta solo labile memoria nella testa canuta di un geografo ormai prossimo a soccombere alla vecchiaia.


Il disegno è il fondamento di tutta la pratica di Marchetti Lamera. Non solo per gli aspetti esplorativi propri di tale disciplina, ma perché è il medium centrale per elaborare e sintetizzare le immagini a partire dallo sterminato archivio fotografico che l’artista ha raccolto. Inoltre esso è fisicamente alla base di ogni opera, anche su tela: dopo la consueta preparazione l’artista realizza innanzitutto un disegno a grafite sulla superficie; solo successivamente, infatti, interviene con il colore. La memoria dell’ombra portata, che cronologicamente è avvenuta nel passato, nella sua pittura-disegno rivive quindi non solo come evocazione concettuale, ma anche come ineludibile base materiale. Ogni suo lavoro è infatti un disegno o lo è stato in forma momentanea. In quest’ultimo caso su di esso sono stati poi stesi svariati strati di colore allo scopo di moltiplicare e amplificare gli effetti della luce che colpisce l’opera. La pittura realizzata dall’artista – caratterizzata dall’impiego di campiture dalle minime oscillazioni cromatiche e da un’estrema liquidità del segno – conserva in questo modo anche la traccia di una memoria del medium che fisicamente l’ha preceduta, a cui accenna e allude. Questioni concettuali e tecniche vanno così di pari passo, in una continuità di particolare interesse.


Le immagini realizzate dall’artista raccolgono e fissano in una forma statica la scrittura che la luce fa e sono dotate di un’aura contemplativa vagamente mistica. È minimo l’alfabeto visivo impiegato, sono semplici ed essenziali le forme impiegate. Eppure in quella reale e disarmate semplicità è come si fossero asciugati la prosopopea e il rumore di tanta roboante stupefazione. Pare, quasi, non esserci spazio per altro, come se ciò che fosse transitorio fosse realmente transitato, mentre a rimanere è ciò che realmente è fondamentale trattenere e conservare. La figurazione e la realtà vengono così meno, sciolte nell’informe fluidità dell’ombra come neve al sole. Il tempo sembra liberato dalle ansie di avanzare e sostenere il cambiamento. La luce viene a diluirsi in segno e riflessione, in raggi ombrosi [3] che sono contraddizione che si addolcisce, stasi, quiete.
L’unica cosa a muoversi pare essere l’osservatore, che, inclina la testa, si muove lateralmente a piccoli passi per cogliere le differenze nei riverberi di luce, nelle riflessioni dei pigmenti stesi sulla superficie. Un po’ a destra, un po’ più a sinistra, muovendosi leggermente indietro per non rimanere abbagliato dalla luce del sole che si riflette su di un’ombra, che per altro il sole stesso ha prodotto. La luce infatti, che non è tenuta a non contraddirsi, può accecare lo sguardo se riflette il piccolo buio che essa ha creato su di un piano levigato. Gira gli occhi lo spettatore, che “vede spuntare un’ombra in lontananza crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire. […] Non si può osservare un’ombra senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa dà luogo. Questi aspetti variano continuamente, per cui un’ombra è sempre diversa da un’altra ombra; ma è anche vero che ogni ombra è uguale a un’altra ombra, anche se non immediatamente contigua o successiva.”[4].




[1] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Aforisma n. 341, Adelphi, Milano, 1977.
[2] Eraclito, frammento DK 22 B 91, in Giovanni Reale, I presocratici, Bompiani, Milano, 2006.
[3] L’espressione, che nei fatti un ossimoro, ricalca interamente il titolo di una serie di opere su carta dell’artista realizzate nel 2019.
[4] Le ultime righe del testo sono la trascrizione di un brano del primo capitolo di Palomar, scritto da Italo Calvino (Einaudi, Torino, 1983), in cui ho sostituito la parola «onda» con «ombra». È un riadattamento poetico, spero non percepito come irriverente, di un testo perfetto e per alcuni spetti sacro. Chiedo venia al lettore e al gigante Calvino.

Recursions and mutations

Recursions and Mutations

Vincenzo Castella, Lynn Davis, Jacob Hashimoto, Roberto Pugliese

Venezia, Giudecca Art District
maggio ― luglio 2019

Recursions and Mutations

Daniele Capra



In dialogo

Le ragioni che hanno dato origine a Recursions and Mutations sono tutt’altro che accademiche e vanno ricercate non tanto nell’arte stessa come campo d’indagine, quanto invece nelle relazioni tra le persone. Benché possa sembrare ingenuo o fuori luogo sottolinearlo in un contesto come quello del contemporaneo – caratterizzato da una naturale competizione e dalla presenza talvolta invadente del mercato – le relazioni e la stima tra le persone sono invece dei valori che assumono, mai come in questo caso, particolare rilevanza. Recursions and Mutations nasce dall’intuizione di Jacob Hashimoto di realizzare un’esposizione confrontandosi direttamente con alcuni dei colleghi da egli più stimati e scegliendo di lavorare con loro a più mani. La mostra è infatti il frutto di un progetto svolto dall’artista insieme a Vincenzo Castella, Lynn Davis e Roberto Pugliese. Le opere sono state scelte o realizzate appositamente per l’occasione in stretto legame coi colleghi, basandosi su un approccio comune o sugli stimoli visivi provenienti dai lavori stessi, in una dinamica di coinvolgimento diretto. La mostra si è sviluppata cioè in forma di confronto, grazie al quale gli aspetti di negoziazione e dialogo hanno avuto la priorità sulle scelte poetiche degli artisti. In questo modo le opere sono così state messe nella condizione di parlarsi, poiché la loro relazione e la loro presenza negli spazi è l’esito di un processo partito da lontano.

Una questione di strategie

Recursions and Mutations analizza come la ripetizione, il suo riscontro e il successivo atto di deviazione/mutazione rispetto al percorso immaginato, possano essere un metodo ed un significativo dispositivo analitico per scrutare e leggere la realtà che ci circonda. E, allo stesso modo, tale modalità risulta essere anche uno straordinario strumento per la costruzione dell’opera nell’articolazione delle sue parti. In particolare la mostra prende in esame i processi di reiterazione e modificazione nella pratica di Castella, Davis, Hashimoto e Pugliese, il cui lavoro incorpora modalità e approcci ricorrenti, aspetti dovuti essenzialmente a tre fattori. Il primo è la scelta tematica del soggetto, sia dal punto di vista iconografico che concettuale, che testimonia l’interesse e la continua sollecitazione dell’artista nei confronti del medesimo campo d’indagine. Il secondo aspetto è dovuto alla dinamica realizzativa dell’opera, la cui costruzione incorpora necessariamente modalità note in cui viene applicata e reiterata una procedura consolidata e zone invece di carattere evidentemente più esplorativo, dovute alle differenze contingenti. Il terzo fattore dipende invece dalle questioni temporali, ambientali e spaziali, che possono presentare condizioni e variabili tecniche simili, o, al contrario, evidenziare la modificazione di un singolo aspetto, pur rimanendo invariate le altre condizioni (cioè ceteris paribus).

Le opere

Nelle fotografie di Castella realizzate nei giardini botanici e nei boschi della Finlandia è possibile cogliere la tendenza alla ricorsività dovuta alla scelta della medesima tipologia di soggetto in luoghi fisicamente diversi. L’artista è fortemente legato ad una metodologia attenta e ricorsiva nella registrazione attraverso lo scatto. Egli però capovolge la questione, poiché grazie ad una metodologia rigorosa, costruisce delle immagini in cui è lo spettatore ad essere nella condizione di ricercare, ed eventualmente cogliere, la mutazione. La natura gioca qui un ruolo centrale: sia essa effimera e costretta all’interno di una serra, o selvaggia e incontaminata come nei paesaggi scandinavi, è all’interno delle sue manifestazioni che si manifesta, come un’epifania, il divenire.
Gli scatti in bianco e nero di Davis nascono da un approfondito studio dei ghiacciai della Groenlandia, cominciato negli anni Ottanta e proseguito per più anni. Le sue fotografie, scattate come se l’obiettivo della fotocamera dovesse immortalare la maestosità di un tempio antico, testimoniano la scelta poetica di un medesimo soggetto ripreso però in tempi differenti, a distanza di anni. Tale modalità mette in evidenza le mutazioni dell’ambiente dovute ai cambiamenti climatici. È cambiato l’assetto dei ghiacci ed è diminuito il loro volume imponente, mentre il loro scioglimento pare irreversibile. La domanda che tale opera genera nell’osservatore è evidente: è realmente questo ciò che vogliamo?
Le opere di Hashimoto sono caratterizzate dalla ripetizione degli elementi visivi, quali le trame delle superfici e le forme degli elementi, ma anche dei materiali impiegati, come ad esempio il bambù ed il sistema di sospensione realizzato con il filo. Il suo è un lavoro pittorico processuale ed ibrido, in cui egli smembra e poi ricompone in forma tridimensionale l’immagine, grazie all’impiego di più piani visivi collocati parallelamente. Tale approccio rompe l’assunto della planarità della pittura e della prospettiva come modalità di rappresentazione della profondità dello spazio, spingendo l’osservatore a praticare una lettura dell’opera in una condizione di dinamismo del corpo.
Nel suo lavoro Pugliese usa di frequente sia elementi materiali ricorsivi (come ad esempio succede con le ampolle in vetro soffiato che costituiscono Liquide emergenze future), che di carattere immateriale, grazie ad algoritmi che producono le tracce sonore di molte sue opere. Nel caso dell’installazione veneziana un apposito software impiega ricorsivamente il livello della marea della laguna, reperito in tempo reale da internet, portando la cellula musicale ad una continua modificazione. L’innalzamento del livello del mare, causato dal riscaldamento globale, ritorna a noi ciclicamente, con un’opera che presenta il suono come fonte di monito del tutto immateriale.

Recursions and Mutations

In generale il fenomeno della ricorsività indica l’impiego di un criterio, un algoritmo – ma anche un approccio – in maniera tale che i risultati da esso ottenuti contengano e manifestino sé stessi in forma riconoscibile. Il risultato è cioè una sorta di filiazione diretta, una forma atipica di partenogenesi, nella quale gli elementi costitutivi sono visivamente reiterati, seppure in modalità che li trasforma. La mutazione risponde invece alla tendenza al cambiamento, alla variazione significativa ma non totale, capace cioè di rendere ancora percepibile la forma precedente da cui essa è originata. Tale modalità è presente nella letteratura (come ad esempio alla figura retorica dell’anafora), nella musica (si pensi alle variazioni su un tema dato, o ai campionamenti di porzioni di musiche che si realizzano a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso), ma anche nelle arti visive, in cui la mutazione è impiegata sia come fenomeno di micro-cambiamento dei dettagli visivi, quanto come impianto concettuale dell’opera.
Le questioni della ricorsività e del cambiamento hanno costruito alcuni degli elementi centrali del pensiero di un filosofo rivoluzionario come Gilles Deleuze. Quando scrive Differenza e ripetizione egli mira ad abbattere il monolite dell’identità e la logica che proviene dall’idealismo di matrice kantiana, a favore di un pensiero basato sulla molteplicità. Nei suoi intenti la mutazione, che deriva dalla ricerca della differenza, è essa stessa l’elemento propulsivo del pensiero e non, come si potrebbe tradizionalmente immaginare, la ruggine che ne intacca la superficie continua. Similmente potremmo affermare che la modalità concettuale di Recursions and Mutations – in molti aspetti legata all’idea della ciclicità del tempo, nonché alle teorie dei corsi e ricorsi storici – è fondamentale per consentire che il lavoro di un artista risponda formalmente e poeticamente al divenire, al cambiamento inesausto cui siamo costretti a reagire.

Superficial

Superficial
Tiziano Martini, Alberto Scodro, Eugenia Vanni

Verona (I), Studio La Città
febbraio ― marzo 2016

La superficie come medium
Daniele Capra




Sostanza e apparenza, cioè profondità e superficie. È frequente dibattersi tra questi due estremi, sin dalla nostra infanzia, quando persone più grandi e più autorevoli di noi ci ammoniscono a scoprire ciò che sta lontano dai nostri occhi, che giace ad un livello non istantaneamente visibile. Per l’uomo occidentale andare in profondità convoglia indiscutibilmente dei significati ulteriori rispetto al fidarsi del proprio sguardo, alla probabilmente fallace visione frutto dei sensi, la cui capacità di indagine rispetto il mondo è troppo poco stimata e abbassata al rango di sensazione.

A questa modalità di lettura hanno contribuito evidentemente vari fattori. Innanzitutto (1) la concezione morale ascetica del mondo antico mirata al controllo o al rifiuto del piacere – propria di molta filosofia della tradizione greco-romana e giudaico-cristiana – che porta al dubbio o al rifiuto degli stimoli, anche conoscitivi, che provengono dai sensi. Poi (2) la tradizione cristiana medievale la quale, seppur con varie sfumature nelle sue diverse articolazioni, ha ereditato dal mondo antico la condanna al piacere sensibile, poiché non finalizzata alla ricerca dell’elemento spirituale e divino. (3) Ultima, ma non per importanza, la tradizione filosofica e scientifica che deriva da Cartesio, e di cui inevitabilmente siamo figli, che ha praticato uno stretto dualismo opponendo res cogitans a res extensa, con una netta predilezione gnoseologica per l’aspetto cognitivo mentale a quello materiale dei sensi. Ad una lettura più accorta, la (disprezzabile) supposta superficialità dei sensi ci conduce così ad un imbuto di carattere etico, suggerendo come sia auspicabile fidarsi della propria mente e di ciò che è prodotto dalla logica anziché dubitare dei sensi. E tale precetto, che affida alla mente il primato conoscitivo, è anche uno dei presupposti che stanno alla base del «cogito ergo sum», la cui portata è andata ben al di là delle disquisizioni tra filosofi.

L’azione combinata di questi fattori ci ha portato a considerare il dualismo profondità/superficie in favore del primo elemento, trascurando le potenzialità dell’ultimo. Risulta invece particolarmente significativo non considerare la superficie in opposizione alla sostanza, a ciò che realmente caratterizza un oggetto, come se, in ultima istanza, quella esterna fosse la parte meno importante e nobile di un manufatto o la meno stimolante di un processo. Se frequentemente la superficie viene letta come tentativo furbesco di catturare l’attenzione e lo sguardo di chi non è nella condizione di possedere gli strumenti per leggere un fenomeno, per entrarne realmente in profondità, tale approccio conduce a considerare la superficie come area non degna di interesse, poiché parte di rilevanza esclusivamente cosmetica; incapace cioè di andare oltre una ricercata, ruffiana, piacevolezza. Al contrario si consideri le capacità che essa possiede di portare informazioni di rilievo di carattere non meramente utilitaristico, quali ad esempio la storia di un materiale, le sua qualità chimico-fisiche o tattili, l’uso che ne è stato fatto, al pari a quanto può accadere ad una roccia analizzata da un geologo. Si scopriranno così, come evidenzia Giuliana Bruno in un recente saggio mirato ad analizzare le dinamiche di superficialità [*], il suo essere mezzo, aspetto «che rimanda alla sua condizione di medietà e alla qualità del divenire, come un elemento connettivo, diffuso o avvolgente. Come materia che avviluppa consentendo che le impressioni siano conferite ai sensi, un medium è una vivida espressione del contesto, la sua trasmissione e la sua memoria».

Le opere di Superficial mirano a superare tale l’approccio manicheo proprio della nostra cultura raccontando come la superficie possa essere l’oggetto della ricerca artistica o quanto meno il campo di battaglia dentro cui l’artista si muove. Ricorrendo a modalità processuali e pittoriche, a dinamiche di ordine concettuale, all’azione chimica, cromatica, termica, la superficie diventa infatti essa stessa medium, che può assurgere nel contempo ad essere obbiettivo e metafora della pratica artistica, ma anche meta-narrazione che ne spiega ed argomenta le ragioni. Il vitale e incessante lavoro sulla/della superficie è così il diario ultimo di una metamorfosi che avviene grazie al pensiero e alla mano dell’artista, capace di proporre vie alternative per superare l’impasse, di controllare le variabili ambientali, di sfruttare a proprio vantaggio casualità imprevedibili. Nel suo dipanarsi materico, la superficie è così la ragione d’essere della ricerca artistica, il centro di un’azione che produce e registra sulla propria materia uno slittamento di senso, un accadimento, uno spostamento, un trapasso. Trasformazioni che conviene cogliere non solo con lo sguardo.

Tiziano Martini
Tiziano Martini mette in pratica una pittura esplorativa in cui la funzione del colore è accessoria rispetto al piacere esecutivo dell’artista, alla realizzazione manuale dell’opera. I lavori Untitled presentati in galleria sono infatti caratterizzati da un continuo e rigoroso aspetto processuale in cui si alternano azione ed attesa, tentativo e verifica del risultato. L’artista sovrappone sulla tela differenti livelli di pigmenti acrilici, direttamente con il pennello o più frequentemente attraverso l’uso di monotipi, di matrici che, opportunamente colorate, consentono alla materia pittorica di stratificarsi come successive impronte. La tela trattiene così elementi casuali, lo sporco dello studio o i residui di opere precedenti, che diventano variabili aleatorie che l’artista usa/dispone liberamente, in una continua improvvisazione jazzistica.

Alberto Scodro
La pratica artistica di Alberto Scodro è caratterizzata da un doppio filone di indagine: uno rivolto all’architettura degli spazi, rispetto ai quali egli scova ed evidenzia linee di forza e aspetti di tensione ideale, l’altro verso la materia stessa, che ama interrogare e mettere alla prova nelle sue proprietà alla ricerca dei suoi limiti d’utilizzo. Nella serie Autumn egli sviluppa una ricerca in cui vengono analizzate le capacità generative che nascono dalla mescolanza di elementi differenti, quali sabbia, vetro, ossidi. L’artista indaga infatti le possibilità combinatorie della materia cuocendo ad elevata temperatura in forno industriale materie prime di diversa origine, che subiscono un processo chimico-fisico simile alla vetrificazione. Scodro realizza così delle sculture alchemiche da parete, lastre in cui la superficie è ruvida come la roccia, ma fragile e colorata come la porcellana.

Eugenia Vanni
La ricerca artistica di Eugenia Vanni è caratterizzata da una pratica concettuale poliedrica, che declina con modalità e media differenti, spaziando agilmente dalla pittura all’installazione. L’artista impiega frequentemente, risemantizzandole ed attualizzandole, tecniche pittoriche della tradizione italiana del Quattrocento e Cinquecento. Nei dittici Ritratto l’uno dell’altro Vanni esplora concettualmente le potenzialità mimetiche della pittura fino a giungere agli esiti più estremi. Grazie all’utilizzo dell’olio e di differenti ricette di imprimitura della tela, l’artista arriva a ritrarre su lino l’immagine del tessuto di cotone e viceversa. Ne esce così un doppio ritratto, essenzialmente meta-pittorico, in cui il soggetto è la pittura nella sua essenza materiale/materica, il suo essere palinsesto che accoglie l’immagine potenziale dell’altro. In un chiasmo logico ciascun elemento del dittico è così negazione della propria identità e nel contempo rappresentazione del suo contrario.




[*] G. Bruno, Surface: Matters of Aaestetics, Materiality and Media, The University of Chicago Press, London, 2014, p. 6.