Home » Tiziano Martini

Tag: Tiziano Martini

Graffiare il presente

Graffiare il presente

Paola Angelini, Mirko Baricchi, Paolo Bini, Lorenza Boisi, Thomas Braida, Alessandro Calabrese, Linda Carrara, Nebojša Despotović, Matteo Fato, Agostino Iacurci, Andrea Kvas, Francesca Longhini, Tiziano Martini, Isabella Nazzarri, Marco Pariani, Nazzarena Poli Maramotti, Alessandro Roma, Nicola Samorì, Alessandro Scarabello, Caterina Silva, Aleksander Velišček

Novate Milanese, Casa Testori
dicembre 2018 ― gennaio 2019


La mostraGli artisti
Non smettere di combattere
Daniele Capra & Giuseppe Frangi




Graffiare il presente muove dalla convinzione che vi siano opere realizzate oggi che hanno nelle loro ragioni programmatiche più profonde il desiderio di dare degli strumenti interpretativi, di carattere critico, poetico o anche militante, per interpretare la realtà che ci circonda; strumenti per arginarla o agire in essa, in opposizione all’idea rassicurante, ma sterile, di suggerire allo spettatore un luogo defilato al riparo dalle contaminazioni del mondo. A partire da questa necessità di insinuarsi attivamente nel nostro tempo, Graffiare il presente presenta delle opere realizzate nel corso del 2018 da ventuno artisti, tutti italiani, e tutti nati tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Si tratta di opere che mirano ad essere mattoni in grado di reggere il proprio e l’altrui peso, capaci di lottare per non scivolare nell’indistinto che fagocita ogni cosa in un tempo brevissimo. Tali lavori si offrono al fruitore come strumenti di pensiero, tesi e teoremi – sia visivi che ideali – in grado di sostenere la suggestione dell’utopia, l’ambizione a significare e il proposito di resistere alle tensioni e alle insidie del futuro. Che è il tempo più infido, pronto a dissolvere le nostre ambizioni come le onde che si frangono sulla spiaggia.


La mostra ha avuto tra i suoi intenti quello di verificare come la scelta e la pratica del medium pittorico vada ben oltre la sua supposta autoreferenzialità, le cure rivolte esclusivamente agli aspetti linguistico-stilistici o un’improduttiva forma di intimismo espressivo. La scelta della pittura non è casuale in un luogo come questo che nella sua storia è stato il teatro dell’avventura collezionistica Giovanni Testori, appassionatamente orientata proprio in direzione della pittura.
I lavori di particolare intensità di Graffiare il presente mirano a dimostrare come, per una generazione di artisti, la pratica pittorica nasca da esigenze di perseguimento di obbiettivi intellettuali significativi, come missione estetica, esistenziale o politica. Rifuggendo in ogni modo l’assertiva e rappacificante ripetizione della propria identità, il rassicurante ed inconcludente esercizio dell’arte come decorazione o didascalica addizione al mondo, la mostra rappresenta un tentativo anarchico di cogliere i più rilevanti tentativi di resistere e non dissolversi nella rapida mollezza della contemporaneità.


Come curatori del progetto ci preme sottolineare la risposta convinta e generosa da parte degli artisti all’invito a loro rivolto: la qualità, il desiderio frequente di partecipare alla mostra con opere di dimensioni impegnative, ma anche la viva partecipazione al processo ideativo e al confronto pubblico sono lì a confermarlo. Questo è un segno di quanto il medium pittorico venga vissuto come un linguaggio ricco di potenzialità ancora inespresse, la cui significatività è stata frequentemente ignorata dai luoghi espositivi istituzionali del nostro Paese: è una percezione testimoniata dalla forza sperimentale, a volte audace, ma sempre metodologicamente rigorosa, che caratterizza tanti dei lavori esposti. Del resto lo sperimentalismo è anche l’esito quasi obbligato di quella spiccata tendenza interrogativa che caratterizza gli artisti in mostra e di quella sentita necessità interiore di incidere il presente, per sua intrinseca natura informe, liquido ed impenetrabile.


Infine Graffiare il presente conferma il senso del fare una mostra collettiva, se costruita attorno a precisi criteri, come opportunità di confronti vis-à-vis con le opere di altri artisti e anche come possibilità di impreviste contaminazioni.
Questo catalogo nasce con l’intento di documentare la mostra che si è tenuta a Casa Testori tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019, attraverso foto documentative che restituiscono la situazione delle opere così come sono state allestite.
Al contrario di un’affermata prassi curatoriale che tende ad anteporre/sovrapporre l’interpretazione critica all’opera degli artisti, abbiamo preferito una struttura antigerarchica privilegiando lo strumento delle schede personali e affiancando una narrazione analitica di nostro pugno ad una riflessione personale dell’artista. Ci è parso infatti significativo – e necessario – dare spazio alla voce diretta degli artisti, chiamandoli a rendere conto intimamente le ragioni della pittura come esperienza viva, diretta e militante, da soldati che non smettono mai di combattere.
Gli artisti
Daniele Capra & Giuseppe Frangi




Paola Angelini
L’opera di Paola Angelini è incentrata su un’intensa figurazione costruita con un uso strabordante del colore, una bidimensionalità spinta dei soggetti – spesso isolati rispetto ai piani prospettici o allo sfondo – ed uno stile poliedrico e mai fermo su se stesso. L’artista infatti tende ad appropriarsi di modalità esecutive differenti a seconda non solo del tema scelto, ma anche secondo i dettami di un continuo cambio di prospettiva personale, dovuto anche al ricorrente esercizio del dubbio, che ne fanno una personalità in fluida ed inesausta evoluzione pittorica.
È frequente, nei suoi lavori, la presenza umana e dell’elemento vegetale, sia come semplice pianta o fiore, che nella forma più estensiva di albero e bosco. Molte delle sue opere sono caratterizzate dalla stratificazione anarchica di differenti episodi figurativi (come in Fuori luogo #3) che si sovrappongono al soggetto principale per semplice accostamento paratattico, talvolta instaurando relazioni di natura più marcatamente psicologica. La tecnica di Angelini rivela un approccio viscerale al soggetto e agli elementi pittorici che, devianti e spiazzanti, lei fa ribollire sotto il nostro sguardo in forma interrogativa, spiazzante ed urticante.
Ecco come l’artista dà conto di uno dei momenti più complessi, iniziare a dipingere una nuova opera. “Non è facile mettersi a dipingere. È il momento più complicato per me. Non c’è naturalezza: non è un semplice inizio. Da un lato è facile ripetersi e poi trovo limitante cercare una giustificazione ad un piacere visivo provocato dalla scelta di certi colori, o da un senso di commozione nel guardare un volto dipinto su una tela. Ci si compiace forse, ci si ripete e ci si sente di appartenere ad un’umanità. Per questo è complesso iniziare ogni volta, perché si ha la percezione di tutto questo, ma soprattutto del dato spirituale che fortemente caratterizza questa scelta espressiva.”


Mirko Baricchi
La pittura di Mirko Baricchi si è evoluta progressivamente negli anni dalla figurazione verso una pratica più libera ed aniconica, caratterizzata da una grande attenzione rivolta agli aspetti del colore e a quelli della forma. Benché permangano degli episodi – appena abbozzati – di elementi figurativi, la sua attenzione è principalmente focalizzata sul processo esecutivo dell’opera. Nella sua pratica è infatti centrale il lavoro fisico e la modalità generativa entro cui l’opera prende forma, aspetto che avviene in una sorta di performance, che, rispetto alla concatenazione delle azioni svolte dell’artista, assume anche una funzione esplorativa. Per Baricchi l’opera è cioè un tentativo, esattamente come quello messo in atto da un atleta che pratica il salto con l’asta: c’è un muro, simbolico, da oltrepassare, e si procede con prove finché quel livello non lo si è archiviato.
Le opere della serie Selva nascono dalla rapida ripetizione di pennellate e parziali asportazioni di colore – con le dita, i pennelli o dei canovacci – prima che esso si asciughi: il lavoro prende forma così grazie a gesti pittorici di carattere opposto. Il titolo è un rimando all’universo del bosco, all’intreccio di segni, al ricordo di quei micro-paesaggi che stanno nella memoria sia dell’artista che di colui che guarda.
Baricchi spiega il suo lavoro in questo modo. “Ho sempre un’idea di come dovrà essere un quadro che sto iniziando e negli ultimi tempi succede che l’idea sia in relazione con qualcosa che vedo, come il paesaggio fisico, ma i risultati spesso non sono quelli che avevo previsto. Lavoro sin dal primissimo mattino immerso nella campagna collinare, con luce che proviene dal nord. Il processo è inconscio, la questione tecnica si riduce a ritmo e pennellata, ma mi tengo a distanza dalle idee troppo brillanti, che spesso deludono. Il mio, alla fine, è un lavoro sulla profondità dell’agire e sulla luce naturale.”


Paolo Bini
Una saracinesca è calata sulla realtà. Tra un listello e l’altro quest’opera dalla grande complessità tecnica lascia intravvedere il bagliore di un orizzonte perduto. La tela di Paolo Bini, che si sviluppa in verticale come se fosse una vera finestra, in realtà gioca su un’ambiguità che crea un’attesa in chi sta guardando. Cosa c’è al di là? E l’effetto saracinesca creato dai nastri di carta neri tesi sulla tela è quello di un nascondere o di un lasciar trapelare? La pittura di Bini vive abitualmente di uno splendore che si impone senza intercapedini. La scansione geometrica delle linee sovrapposte accende tensioni cromatiche destinate ad abbagliare lo sguardo, con il risultato di produrre un effetto di luminosa folgorazione sulla nostra retina. Con Sentiero di Eden Bini fa invece i conti con questa griglia che ingabbia e oscura il libero distendersi delle tracce colorate. Quella folgorazione risulta così dolorosamente impedita, anche se ciò che filtra innesca un ancor più potente desiderio di luce e uno stupore rispetto a ciò che ci è velato. Come spiega l’artista questo processo compositivo, complesso e tecnicamente sofisticato, è dettato dalla volontà di restituire alla pittura un’energia visiva inedita e profondamente contemporanea: “Nella deframmentazione delle mie immagini astratte, le strisce dipinte si sovrappongono e compongono l’opera. Il modus operandi è fondamentale perché non si tratta di dipingere su di una sola campitura, ma sono i moduli che diventano superficie, in un ideale e contemporaneo bassorilievo. Le mie opere seguono un processo mentale e mediante la mia ricerca artistica su superficie e colore, sto cercando di comporre un’immagine originale che abbia in sé la caratteristica di manifestare il tempo in cui viviamo, perciò con un media antico (la pittura) intendo trasmettere un’immagine aderente alla realtà. Infatti nelle mie astrazioni è facile intuire il concetto di pixel, frame e scansione dell’immagine, ottenendo un’originalità originaria.”


Lorenza Boisi
Le opere pittoriche di Lorenza Boisi sono caratterizzate da una particolare verve coloristica, da pennellate vibranti e da un serrato ritmo visivo che prende forma grazie ai vividi accostamenti cromatici. La figura umana, il paesaggio e gli elementi vegetali sono i soggetti più ricorrenti, che sono delineati grazie ad un disegno nervoso ed una pittura sintetica, caratterizzata dall’impiego di colori antinaturalistici distribuiti sulla tela a zone, talvolta a macchie, sovente lasciando trasparire la superficie sottostante.
In Endymion Boisi rilegge la storia di Endimione, personaggio della mitologia greca cui Zeus concede di sostituire la morte con un sonno eterno in maniera che egli possa preservare la propria giovanile bellezza, su supplica della dea Diana, di lui innamorata. L’artista lo rappresenta nel paesaggio (secondo i dettami della tradizione che si diffonde a partire dal Rinascimento), ma da solo, appoggiato con la schiena ad una roccia, con gli occhi socchiusi e in un’atmosfera sognante, mentre legge l’omonimo poema di John Keats, che narra proprio la sua storia. È un riferimento incrociato alla vicenda del personaggio mitologico ed insieme un evidente anacronismo temporale, che spetta all’osservatore ricomporre, o re-immaginare in una storia ulteriore.
Taglienti e poetiche le riflessioni di Boisi sul narrare la propria pratica artistica. “Aspiro ad una pittura in sé contenuta per organica compiutezza, che da sé espanda in dimensione imprecisata. Ma non posso e non voglio più raccontare la mia pittura. Non scriverò più apparati didascalici per le mie opere, siano esse grandi o minime: le voglio libere dal giogo di una lingua impropria. Si racconti quanto è concesso, senza l’ambizione di voler descrivere l’indicibile. Dipinga chi sia davvero pittore. Ne parli e scriva chiunque altro.”


Thomas Braida
L’opera di Thomas Braida si sviluppa a partire da una fantasia iperbolica, da un eclettico poli-stilismo e dall’ironia, che frequentemente è testimoniata anche dal titolo. I suoi dipinti sono popolati da uomini, animali e strane creature, personaggi borderline partoriti dalla sua immaginazione che sono spesso dediti ad attività di difficile comprensione. Episodi narrativi aulici, ripresi dall’iconografia dei santi o della mitologia classica, e situazioni apparentemente triviali sono mescolati in scene che sfiorano il nonsense.
Il titolo delle opere è impiegato come supporto o burlesco contrappunto al racconto, e spiega ciò che è rappresentato, definisce il contesto in cui l’opera è stata realizzata o, spesso, tratteggia in forma sintetica dei fatti vissuti dall’artista. In Braida la pratica artistica è infatti costantemente mescolata alle sue vicende personali, alla condivisione di spazi ed istanze esistenziali con una comunità di colleghi artisti ed amici, come la Fondazione Malutta e l’Atelier F dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, presso cui egli stesso ha studiato.
Voglia di mare raffigura due ragazze che rivolgono la schiena all’osservatore e hanno sulle natiche e sulle gambe delle onde che sono state probabilmente dipinte in un’azione di body painting. La situazione e il paesaggio boschivo paiono improbabili, come pure il misterioso animale – un furetto o un gatto senza gambe? – che cala dall’alto e contribuisce a costruire una situazione in cui tutto è fuori posto. La progressione di storie che ora leggiamo abitualmente, innocui e apparentemente periferici, amanti dei gatti, che guardano video bianchi-nazionalisti-bianchi su YouTube e poi si uniscono a un gruppo neonazista su Facebook, ecco Hitler lì vicino al cranio di tuo zio evoca atmosfere da natura morta (benché vi sia un inquietante uomo baffuto), ma il titolo lunghissimo indirizza l’osservatore verso una riflessione più esistenziale sulla nostra contraddittoria condizione ideologica ai tempi dei social network.
“L’altro giorno qualcuno mi ha detto una cosa che altri gli hanno detto: che la pittura è una vocazione, e sono d’accordo”, ci racconta Braida. “Tutto quello che capita ad un pittore non ha importanza. È il tempo deciderà di tutti noi.”


Alessandro Calabrese
La presenza di un artista che lavora con mezzi tecnici come scanner e fotografia è un fuori campo che ha una sua ragion d’essere nel percorso di Graffiare il presente per la natura profondamente pittorica delle sue immagini. Calabrese nei suoi lavori più che inseguire la pittura sembra mettersi in fuga per sperimentare stati futuri della pittura stessa. Come spiega l’artista, The Long Thing: Re-assembling Images, già presentata alla Fiera di Amsterdam, “è un progetto partecipativo che riflette sul concetto di autorialità e la sfida da parte dei partecipanti a rinunciare ad essa in un’epoca di estrema proliferazione dell’immagine. Visitatori della fiera, colleghi artisti e varie figure legate al mondo dell’arte sono stati invitati a donare una o più fotografie presenti nel loro smartphone prima di eliminarle definitivamente. In seguito tutte le fotografie sono state prima stampate e successivamente inserite all’interno di un distruggi documenti. Il tutto è andato a creare un cumulo di carta che è cresciuto giorno dopo giorno per tutta la durate della fiera e che ciclicamente veniva scansionato attraverso l’uso di uno scanner piano. Infine i risultati di queste scansioni, disturbate dal mio intervento in fase di scansione attraverso il semplice movimento del dispositivo, sono stati stampati come opere collettive in cui la singola fotografia non è più riconoscibile ma contribuisce a dare vita a nuove immagini simili tra loro ma sempre diverse.”
L’esito è una serie di immagini che registrano una sorta di perturbazione psichica ed emotiva, come fattore che abbraccia le biografie di chi, attraverso la propria partecipazione e condivisione del progetto, è confluito nell’opera. Biografie convocate a condividere una situazione che la pulizia visiva di un artista come Calabrese rende orizzonte comune.


Linda Carrara
È l’azione stessa di dipingere il soggetto della pittura di Linda Carrara, che fa della figurazione uno strumento per interrogare l’osservatore rispetto la realtà e le aspettative di trovarne traccia sulla tela. La sua pratica mira, attraverso un ripensamento del processo pittorico, a riesaminare/rinegoziare gli stereotipi consolidati nelle dinamiche di rappresentazione, che, contrariamente a quanto si potrebbe a prima vista immaginare, per Carrara non sono assiomi indiscutibili. Le sue opere descrivono in modo non ortodosso piccole porzioni di realtà, con la quale spesso le superfici interagiscono direttamente e in forma non mediata dal gesto pittorico, quasi fossero dei calchi concettuali capaci di riportare (rappresentare?) l’elemento originale in forma bidimensionale.
È il caso di Frottage #1, realizzato disponendo la tela sul pavimento e distribuendo sulla superficie il colore affinché saturasse ogni interstizio tra i fili della trama. I segni di discontinuità delle mattonelle sono così diventati il soggetto inconsapevole dell’opera. Su questi l’artista è intervenuta dipingendo in forma iperrealistica due pezzi di nastro adesivo di carta, simile a quello impiegato nel processo di realizzazione, della quale è una traccia allusiva.
Carrara racconta il suo approccio in maniera molto limpida. “Se sfrego il pennello ripetutamente sulla superficie, cosa succede? Se metto tanto colore e poi levo tutto, cosa accade? Frotto sino a che la materia sfregata e quella sfregante abbiano dato la loro massima espressione. Si può dipingere la materia della pittura e non il soggetto? Non voglio sovrappormi. Non voglio ripetermi. Non voglio cancellare. Non voglio coprire. Voglio che tutto sia visibile, anche l’indecisione. Un sasso, è il Sasso e diventa parte del mio alfabeto. Lo uso tutte le volte che mi serve. Il risultato è solo una scusa per dar sfogo all’azione pittorica e mentale. Dipingo la pittura.”


Nebojša Despotović
Il lavoro di Nebojša Despotović nasce da una matrice figurativa e si è sviluppato progressivamente, incamerando sulla tela modalità gestuali e mascheramenti dell’immagine, alla ricerca del limite tra gli elementi riconoscibili e la loro dissoluzione nel puro evento pittorico. Le sue opere sono caratterizzate dalla presenza di un disegno scarno e dall’utilizzo di colori piatti e densi, con una prevalenza di tinte scure che portano ad una intensa concentrazione dello sguardo e a rivelare la profonda complessità psicologica dei soggetti rappresentati.
Zum blauen Stern è un ritratto della propria famiglia (con i propri genitori, moglie e le due figlie) in cui si avvertono molteplici istanze primitiviste, la figura umana sembra liquefarsi in un ambiente domestico sintetizzato in forma bidimensionale e dalla prospettiva incerta. Sin dai suoi esordi il soggetto umano, nella forma del ritratto, è uno delle modalità esecutive più impiegate dall’artista. Non si tratta però di rappresentazioni mirate al riconoscimento fisiognomico del volto o all’analisi formale del contesto, quanto invece di ruvidi prelevamenti tra gli abissi insondabili della mente, tra sottili lame di luce e le asprezze degli elementi inconsci.
Despotović spiega l’attività della pittura in questo modo. “Quando dipingiamo, noi artisti, dovremmo immaginare di avere in mano non un pennello, ma un coltello affilato. Non certo per tagliare la tela, ma per difenderci dalle definizioni, dalle classificazioni e dalle regole imposte dalla nostra stessa ragione. Per liberarci dall’ansia e dalla volontà del controllo, ed essere invece consapevoli che dipingere non è difficile, ed è per noi naturale. E in ultima istanza dipingere e l’esperienza stessa dell’atto artistico sono un lusso assoluto, che per noi però è cruda necessità.”


Matteo Fato
Per l’artista abruzzese la pittura è una pratica intrinsecamente implicata dai richiami lanciati dall’attualità. La sua però è una concezione carsica dell’attualità, grazie alla quale spezzoni di passato possono venire a galla per rivelare profondi nessi con il presente. Matteo Fato lavora sui livelli profondi, come in quest’opera realizzata appositamente per Graffiare il presente. Il protagonista è un personaggio misterioso e insieme iconico della storia del 900, il fisico Ettore Majorana, misteriosamente scomparso nel 1938. L’approccio di Fato al geniale scienziato è mediato dalla lettura di un recente libro di Giorgio Agamben. Secondo il filosofo veneziano Majorana aveva intuito che nella fisica quantica la realtà deve dissolversi nella probabilità. Quindi, scomparendo, lui stesso era entrato in questo orizzonte probabilistico ipotizzato dalla fisica contemporanea. Fato lavorando sulla figura di Majorana e in particolare sul suo volto è come se avesse posto alla pittura stessa la domanda di fondo su cosa sia la realtà. Una domanda che resta ancora senza risposta, mentre la virtualità dilagante rende sempre più confusi i confini. La pittura perciò riprende con umiltà e con passione il filo del discorso, come dimostra anche il gesto della pittura del pennello nella tela piccola che completa il dittico. Ecco le motivazioni di Matteo Fato rispetto alla scelta di ricorrere ad un genere antico come il ritratto: “Il ritratto credo che sia tutt’ora (come in passato) un importante mezzo di osservazione del paesaggio del nostro tempo; come la pittura è stata, lo è adesso e sempre lo sarà un importante riflesso del nostro tempo. Parlando di linguaggio della pittura, credo che la cosa più importante da chiedersi sia sempre: sto utilizzando la pittura perché non ho altra scelta? Così come con qualsiasi altro linguaggio, penso che la pittura vada utilizzata quando semplicemente non si hanno altre parole per dirlo. Mi viene da pensare a quello di cui parlava Deleuze, ne L’immagine-movimento e L’immagine-tempo: Deleuze parlando di movimento dell’immagine lo concepisce come un passaggio regolato da una forma all’altra, cioè in ordine delle pose o degli istanti privilegiati; e ci dice che in età moderna la rivoluzione consistette nel ricondurre il movimento non più a degli istanti privilegiati ma all’istante qualsiasi. Ho sempre amato questa definizione pensando alla pittura: l’istante privilegiato. La pittura, il disegno, la loro potenza deriva da questa possibilità di definirsi appunto momenti privilegiati, che evidenziano più di altro, una qualsiasi condizione e mutazione della realtà del nostro tempo.”


Agostino Iacurci
Agostino Iacurci è noto per essere autore di grandi e affascinanti wall painting pubblici nelle città di ogni angolo del mondo. Ha un repertorio visivo inconfondibile, che si impone per la sintesi delle forme e per la brillantezza dei colori. Iacurci, in parallelo all’attività di street artist, ha sempre tenuto vivo il lavoro da studio, con opere contrassegnate da una stessa pulizia stilistica e popolate dall’identico immaginario dei suoi lavori pubblici. Lo stile di Iacurci è regolato da una sincerità espressiva che porta tutto in superficie. A volte il contenuto sembra passare in secondo piano per la natura decorativa del suo segno e delle sue composizioni. Invece il processo si semplificazione che lui opera ogni volta accoglie un fattore straniante che innesca discorsi e suggerisce visioni del mondo. Come accade in questi due Busti, dove il profilo classico e celebrativo proposto con ironia è chiamato a fare inaspettatamente i conti con l’elemento della pelle nera. Un tocco leggero che apre una breccia su uno dei grandi temi che attraversano il tempo presente. Il colore è comunque l’elemento portante della ricerca pittorica di Iacurci, come lui stesso conferma: “L’interesse mi è nato in particolare dopo è nata dopo una visita alla mostra El color de los Dioses. Policromía en la Antigüedadclásica y de Mesoamérica, a Città del Messico. Nella mostra erano presentate delle riproduzioni di statue antiche greche e romane ricolorate con i colori e le decorazioni originali, accostate a sculture ed architetture mesoamericane, anch’esse ricolorate secondo lo stesso metodo. Così ho iniziato ad interessarmi più seriamente al tema dell’uso del colore nel mondo antico e di come, nonostante le evidenze scientifiche, prevalga ancora nell’immaginario collettivo questa visione di un mondo classico occidentale bianco ed eroico e le sue conseguenze politiche e sociali.”


Andrea Kvas
Il lavoro di Andrea Kvas è mirato a liberare la pittura dalle costrizioni bidimensionali e dalle sue istanze emotive, trasformando la sua pratica in una continua e spiazzante sfida ad estendere il suo campo di applicazione verso ogni possibile superficie e supporto. Per l’artista la pittura è un’azione processuale che altera la natura di ciò che è visibile, a partire dal suo colore, dalla lucentezza o dalla sua consistenza, e manifesta, in ultima istanza, il desiderio di cambiare l’epidermide degli elementi e degli oggetti che costituiscono la realtà. Abbia essa la forma di una tenda, del legno, di un pezzo di muratura o della tela, per Kvas la pittura è spazio del possibile, gioco intellettuale ad essere diverso da ciò che sembra e, sopra ogni cosa, possibile metamorfosi.
I lavori Senza titolo in mostra, dipinti e ridipinti dall’artista in modo processuale/maniacale nel corso di svariati anni (spesso le sue opere sono finite solo quando escono dallo studio), sono stati realizzati combinando layer di materiali differenti e presentano una superficie che pare essere stata intaccata da fenomeni organici ed agenti chimici. Sono una sfida a superare la modalità di fruizione frontale dell’immagine, ad abbandonare la posizione statica dello spettatore per guardare l’opera da più punti di vista, nella sua semplice e più pura essenza visibile.
“Mi interessano quegli oggetti, dagli smalti all’eosina di Zsolnay al piumaggio del tragopano satiro, che fanno del colore e della materia di cui sono composti un elemento quasi magico”, racconta Kvas. “Subisco il fascino delle superfici che si comportano in modi per me inaspettati. Nelle mie opere cerco dei risultati analoghi a quello che vedo, utilizzando dei procedimenti non ortodossi dai quali nascono materie che faccio reagire sul supporto. Quello che voglio ottenere è un impasto disomogeneo, imprevedibile e autonomo, tale da poter diventare esso stesso oggetto della mia fascinazione.”


Francesca Longhini
La pratica artistica di Francesca Longhini si sviluppa a partire da una grande sensibilità per i materiali e le loro proprietà fisiche e simboliche, maturata nella pratica della scultura. I suoi lavori bidimensionali nascono da un approccio minimalista e geometrizzante in cui non sono estranei riferimenti alle avanguardie del Novecento, in particolare di matrice astratta e suprematista, e, nella lirica leggerezza del disegno, al lavoro di autori come Fausto Melotti e Alexander Calder. L’artista impiega frequentemente la tela grezza, su cui dipinge delle forme bidimensionali a tinte piatte, quali rettangoli e quadrati, o pone delle lamine di materiale prezioso. Tali poligoni vengono poi messi in relazione grazie ad un sistema ordinato e razionale di linee, come fossero dei diagrammi di flusso che costituiscono un sistema aperto di relazioni.
Gli ultimi lavori, come The sleeper who wants to be awakened is dreaming lions, sono invece caratterizzati da una grande libertà compositiva e da forme complesse, che alternano curve sinuose ad aree realizzate con linee spezzate. Ai semplici colori viene affiancato l’impiego della foglia d’oro, d’argento e di rame, e il colore marmorizzato, come se la superficie del dipinto fosse un intarsio continuamente cangiante.
Longhini intende il suo lavoro come una corsa continua. “Credo che la pittura sia un lungo percorso, una maratona con il passaggio del testimone. Ogni tanto c’è un atleta che inverte la direzione per correre dove altri hanno già corso, ma può non essere sbagliato tornare su strade già battute, se lo si fa a modo proprio. Anche perché i corridori corrono in un ovale, qualsiasi senso di marcia intraprendano.”
L’artista spiega poi che non ama guidare l’interpretazione dei propri lavori. “Quello che mi interessa davvero è invece che lo spettatore sia in effetti tale, ovvero che dedichi del tempo alla visione. Penso infatti che i miei quadri si schiudano solo dedicandovi il dovuto tempo.”


Tiziano Martini
Il lavoro di Tiziano Martini è basato su una pratica pittorica processuale in cui è fondamentale la fase esecutiva dell’opera. L’artista, infatti, agisce sulla superficie dell’opera distaccando il colore parzialmente asciutto, che prima ha distribuito sulla tela grazie all’impiego di un supporto monotipico, con un’azione di strappo (in parte casuale, in parte controllata) che frantuma e lacera lo strato cromatico più esterno. Il gesto viene reiterato più volte fino al raggiungimento della composizione desiderata, ossia quando il quadro non abbisogna più di niente ed è concluso, poiché ogni altra azione porterebbe ad una perdita di energia visiva, ad un peggioramento del suo status. Tale processo porta alla creazione di trame e grumi di colore dotati di piccoli rilievi di carattere fortemente scultoreo/materico che spingono l’osservatore a moltiplicare i punti di vista nel tentativo di ricomporre lo sguardo in forma unitaria.
Il Brian Eno del black metal è realizzato intervenendo con i colori su una limitata porzione di tela, mentre la maggior parte del lino è lasciata grezza e permette di immaginare, grazie a piccole macchie e allo sporco presenti, alcuni dei passaggi esecutivi dell’opera nello studio dell’artista. Martini racconta la sua pratica in questo modo. “Ricevo gli stimoli maggiori fuori dallo studio e nei momenti in cui sono fisicamente distante dal lavoro: ho bisogno quasi sempre di spinte fortissime per percepire il mio coinvolgimento emotivo. Vado in studio perché sento una sorta di responsabilità addosso. Devo sempre forzare e lottare per vincere le resistenze iniziale, che forse io stesso, per carattere, mi sono imposto. La parte più bella e fluida sono le fasi di manualità e nel lavoro pratico cerco di assecondare gli imprevisti. Da anni conservo inutilmente scarti e residui, per i quali non trovo una forma.”


Isabella Nazzarri
Sul fondo screpolato preparato per la tela dipinta ad acrilico si scatena un inseguimento di elementi fluidi, come suggerisce il titolo dell’opera, che sembrano appartenere ad un altro regno. Durezza contro liquidità. Ma anche vecchio contro nuovo. Nella tela di Isabella Nazzarri, pur segnata da quella temperatura lirica che contraddistingue i suoi lavori, pittura o installazioni che siano, si consuma un silenzioso conflitto. È appunto il nuovo, che cerca uno spazio libero nel quale emergere e nel quale stabilire un altro possibile ordine, che non rinnega il movimento. Isabella è un’artista che dietro la leggerezza di tante sue immagini svela percorsi coerenti di pensiero. Pensiero in particolare sulla materia che viene indagata e sperimentata operando ogni volta delle metamorfosi e dei cortocircuiti inattesi. La sua è inoltre un’esperienza giocata continuamente tra le due polarità di rigore e libertà; di disciplina compilatoria e di visioni che determinano ogni volta un’improvvisa accelerazione. Da qui la tensione poetica che contraddistingue le sue immagini, capaci di conciliare le dimensioni per lei imprescindibili dell’equilibrio e del movimento.
Così Isabella Nazzarri spiega la sua opera: “Gli elementi si rincorrono è una grande tela viola, che è il colore della metamorfosi, nella quale si sovrappongono piani di diverse materie immaginate ed elementi che vi danzano dentro fluttuando nello spazio. Per molti aspetti questo lavoro ricorda una composizione musicale, il colore è usato come timbrica ed i segni come accenti. Non vi è alcuna rappresentazione, ma piuttosto appaiono delle evocazioni che possono lasciare domande aperte. Mi piace che la pittura possa essere una palestra per l’autocoscienza e portare chi osserva a un momento di maggiore consapevolezza. Quando dipingo faccio lo stesso, non premedito mai che cosa avverrà ma piuttosto mi esercito ogni giorno a sorprendermi.”


Marco Pariani
L’onda lunga dell’espressionismo astratto americano non ha ancora esaurito la sua spinta. Marco Pariani è esponente di questa nuova generazione di artisti che soprattutto oltreoceano hanno riscoperto la pittura per la sua energia aggressiva, capace di scalfire e di dinamitare ogni status quo visivo. Non è un caso che dalla nativa Busto Arsizio da qualche anno si sia spostato a Brooklyn, dove oggi ha lo studio. La sua pittura emerge per strati, attraverso processi molto disciplinati e anche sofisticati, dove trova spazio anche la casualità del colore versato sulla tela. La spinta di una pittura gestuale, deve fare sempre i conti con uno spazio definito e compresso che lascia un’area libera ai margini della tela. Per quanto senza soggetto, le opere di Pariani nei titoli evidenziano un antagonismo polemico, ironico e a volte anche rabbioso rispetto alle tante mode imposte alla vita di oggi. Perfect Body è infatti il titolo di questa tela. Non c’è evidentemente nessuna corrispondenza letterale tra titolo e opera, ma la carica destabilizzante della pittura evoca un orizzonte di più grande e possibile libertà. È un aspetto che Marco Pariani conferma, nel raccontare il suo rapporto con l’azione pittorica: “Il lavoro che ho deciso di esporre fa parte di un ciclo di opere al quale ho lavorato nel 2018, la prima però, dopo lungo tempo, nella quale ho utilizzato i colori a olio, la prima di una nuova serie dove proprio il colore ha nuove texture e campiture. Dipingere è parte integrante delle mie giornate, è diventata un’esigenza con la quale convivo e che riempie i pensieri e le mani. Dare sfogo alla mia idea di pittura è un divertimento per me, e fino a quando lo sarà non farò caso a regole e dimensioni, ho trovato una via di fuga da tutto quello che non mi piace e cerco di divertirmi il più possibile.”


Nazzarena Poli Maramotti
La pittura di Nazzarena Poli Maramotti sonda in maniera fluida, sensuale e viscerale il limite tra la figurazione e il gesto pittorico, le cui rispettive forze si rincorrono sulla tela mettendo l’osservatore in una condizione di incertezza e sospensione di giudizio. L’artista scompone il soggetto in grandi, sintetiche pennellate e aree di colore, agendo in maniera tale da sottrarre dettagli ed elementi che conducono troppo direttamente alla realtà. In questo modo Poli Maramotti fa parlare la pittura silenziando l’invadenza del mondo e risolvendo la questione della mimesi in chiave libera, aperta e polisemica. Ecco così degli alberi e degli arbusti sconfinare in zone cromatiche, una rosa diventare una macchia omogenea di colore che la rende irriconoscibile diventando pura pittura.
Roma è un paesaggio caratterizzato dalla presenza dell’acqua, quasi un ritaglio di una vista più ampia di elementi naturali, che si sviluppa con una costruzione simmetrica ed una limitata palette di colori. La vegetazione è resa in maniera concisa, i riflessi sullo specchio d’acqua sono aerei ed ondivaghi, come un ricordo annebbiato nella memoria che tarda a manifestarsi nel nostro pensiero.
L’artista spiega la sua pratica in relazione al pensiero e al tempo. “Considero il dipingere, e più in generale il fare arte, una disciplina. Il processo creativo avanza come un essere vivente, per il quale fermarsi troppo a lungo nello stesso posto significa perdere slancio e autenticità. Ciò accade quando ragiono troppo prima di dipingere. Solamente osservando meglio il mio lavoro a posteriori riesco a individuare e focalizzare quali siano i miei obiettivi, cosa io stia cercando. L’azione fisica del fare spesso preconosce e anticipa gli schemi della mente, la quale segue, raccoglie e riordina i pensieri cercando di tradurli in parole.”


Alessandro Roma
C’è una parola che incarna meglio di ogni altra la pittura di Alessandro Roma: è la parola vertigine. Roma viene da una ricerca che negli anni lo ha portato a raffinare sempre di più una percezione del mondo liberata dal senso di gravità, di peso, proprio delle cose. La leggerezza via via conquistata lo ha portato anche a sperimentare supporti nuovi, liberati dalla rigidità del telaio, come accade per Forms in transition l’opera portata a Casa Testori e che è stata esposta alla personale al Mic di Faenza. È l’aria che determina le forme e che fa muovere il disegno sulla tela, come il vento fa con le foglie. In questo suo percorso Roma intercetta anche il senso di caducità, senza alterare il profilo sereno della sua pittura: usando la candeggina scolora parte della tela dipinta, e in questo modo lascia un alone quasi sindonico. È un’opera che interloquisce con il presente con discrezione: si offre come una tenda che protegge lo sguardo dalla vista delle rovine.
Ecco come Alessandro Roma spiega la sua scelta di lavorare levando colore: “Ho iniziato a lavorare sui tessuti di cotone perché cercavo una leggerezza del supporto su cui dipingevo. Ho fatto diverse prove sul tessuto e continuo a farne, fino a quando non ho trovato la semplice tecnica di candeggio su una superficie di cotone colorato. Il liquido in cui intingo il pennello, anziché colorare rimuove il colore, ma al mio occhio non è semplicemente cosi. Non è come l’impressione di lavorare come con la xilografia in cui si rimuove per ottenere il segno. Nel mio caso era come toccare il supporto con leggerezza e dare il tempo al segno di apparire. Ecco questo tempo di apparizione è quello che più mi affascina. Il mio controllo sul disegno è limitato o meglio non è subito evidente. Questo mi lascia ogni volta incapace di decifrare cosa stia disegnando. Leggerezza, attesa, imprevedibilità, e puro segno sono le caratteristiche che mi affascinano nell’uso di questa tecnica.”


Nicola Samorì
La pittura per Nicola Samorì è un sofisticato rituale di recupero e scomposizione di immagini del passato. Il senso di questa operazione è sempre quella di portare allo scoperto quel nervo che è stato anestetizzato dalla patina del tempo. Samorì presenta due opere realizzate su onice, materiale a cui si lega la memoria di preziosi manufatti del passato. Le immagini dipinte sulla pietra sono una ripresa di un’Assunzione di Tiziano conservata nel Duomo di Verona e di un Sogno di Giacobbe di Ribera conservato al Prado. Samorì usa i difetti dell’onice, caricandoli di una funzione strategica nella composizione. Nell’Assunzione il foro coincide con lo spazio in cui avrebbe dovuto esserci la figura di Maria. Il buco è un foro che inghiotte il cuore dell’opera, riaccendendo di tensione e di inquietudine un’immagine per la quale si avevano solo sguardi scontati. In questo modo la pittura riscopre una sua vocazione destabilizzante: riflettendo sulla propria transitorietà si offre come interlocutrice preziosa e affidabile per gli sguardi feriti del nostro tempo. La strategia dell’uso di un supporto minerale come l’onice è una strategia curata nel dettaglio, come emerge dalle parole dell’artista: “La pietra scelta come supporto per i due dipinti è l’onice, ricavata dagli avanzi di un blocco utilizzato per tre sculture da me realizzate fra il 2013 e il 2015. La pietra di scarto è diventata così un campo dei miracoli, dove l’apparizione e il sogno coincidono con qualcosa che non ha mai visto la luce: il cuore della pietra e la sua cavità invasa dai cristalli. Sono, infatti, i geodi che – sezionati – diventano lacune nelle lastre dipinte ad olio, e punto di sfogo dell’immagine o cicatrici minerali incorniciate dalle figure. Nell’Assunzione colei che è senza macchia diventa la macula, il male della pietra, un episodio che catalizza l’attenzione della folla. Nel Sogno di Giacobbe sul volto del dormiente una fessura minerale sembra essere lo spioncino attraverso il quale scrutare l’insorgere dell’inconscio. Dipingere su pietra costringe l’immagine a una stabilità fossile, ma anche al rischio elevato della frattura e al paradosso della porcellana, incorruttibile e fragilissima.”


Alessandro Scarabello
Il lavoro di Alessandro Scarabello sviluppa in maniera poliedrica alcuni stimoli figurativi, che sono andati negli anni progressivamente a diluirsi, a favore di una sensibilità più surreale e ad un approccio talvolta gestuale, cui non sono estranee delle istanze meta-pittoriche. Nella costruzione dell’immagine l’artista agisce frequentemente per mascheramento/sottrazione degli elementi visivi: nelle sue tele è ricorrente sia la presenza umana, appena delineata con una pittura sintetica, che situazioni ambientali nelle quali, grazie alla costruzione della scena, se ne avverte psicologicamente la mancanza. Scarabello opera infatti rimuovendo alcuni dettagli che svolgono un fondamentale ruolo descrittivo o narrativo, in modo da conferire alla scena un senso di sospensione e tensione emotiva.
Le opere della serie Phoenix mostrano situazioni indecifrabili, come un tavolo apparecchiato in attesa di essere occupato dai commensali, un pezzo di pavimento su cui si legge l’ombra si un oggetto incomprensibile, una figura misteriosa che si nasconde dietro ad un poligono. Non c’è tra gli elementi visivi alcuna logica razionale, e spetta all’osservatore tentare di sciogliere/ricomporre l’enigma. Solo se possibile.
Per Scarabello dipingere è una pratica intima di straniamento che egli descrive in questo modo. “La pittura mi consente di uscire dal flusso incessante dell’umano agire, così da vederlo fluire davanti a me. Considero un privilegio creare immagini dipinte in un contesto ormai saturo di immagini digitali. Sono consapevole di assumere una posizione che può essere considerata radicale, ma è solo in questo modo che riesco a fissare e far emergere la mia natura più profonda, e a preservare la mia autonomia di individuo. Il mio è un continuo tentativo di interpretare gli eventi, non solo personali, attraverso le infinite possibilità che la pittura mi offre.”


Caterina Silva
“Il mio lavoro parte sempre da una distruzione”, dice di sé Caterina Silva. La sua ricerca si muove in direzione di una pittura che conserva sempre una valenza performativa. La scelta del supporto instabile diventa quindi come un prolungamento del gesto che ha fatto essere l’opera: le forme si agitano, dentro un’immagine che non trova assestamento. La pittura di Caterina Silva sembra generarsi sul tessuto per un processo di emersione, che cresce su se stesso, e che l’artista suscita con la forza di irradiazione delle sue visioni. Autoritratto di un Paesaggio 3 è un titolo che suggerisce un’idea di fedeltà oggettiva di un contesto chiamato ad un’autorappresentazione. È un lavoro di scandaglio fatto nel sottosuolo, che lascia affiorare sul piano della pittura la realtà che sta sotto la realtà, con il suo portato di incertezza e di turbamento.
Così l’artista spiega la genesi della sua opera: “Autoritratto di un Paesaggio 3 è stato realizzato tra gennaio e febbraio 2018  in uno studio affacciato su un fiordo, sulle montagne norvegesi. Il colore liquido è lasciato ghiacciare all’aperto in blocchetti e poi fatto sciogliere sulla tela dal calore dello studio. Le sequenze che si generano corrispondono alla routine cui sottopongo quotidianamente il mio corpo, all’alba, prima che il sole illumini per tre ore scarse la valle. Il quadro è poi abbandonato varie notti all’aperto sotto la neve. Il paesaggio intorno cambia senza sosta, le nuvole sfrecciano, il colore dominante che resta nella mente e sulla tela è il grigio. Io cerco di esercitare il minor potere possibile sull’immagine che vuole affiorare. Tento di allineare sullo stesso piano lo spazio esterno con quello interno, secondo un andamento transitivo e continuo in cui il mio respiro guida ogni singolo movimento. L’io non scompare mai del tutto ma di certo si assenta spesso.”


Aleksander Velišček
La pittura di Velišček non è mai in debito di sincerità. È pittura dichiarativa, che trova energia nell’esporsi sul mondo, nell’elaborare sguardi che si mettono di traverso rispetto al pensiero dominante. La sua forza e il suo fascino stanno in questa esplicitezza che lo porta ogni volta a essere diretto, negli amori come nelle antipatie. È un artista che per natura è sempre portato a graffiare il presente o ad affrontarlo cavalcando la verità di personaggi fuori moda. In questo caso Velišček ha lavorato attorno ad una delle presenze che stanno segnando il nostro tempo, quella del presidente americano Donald Trump. Di Trump ha colto il tratto somatico più emblematico, quello che fissa la sua identità: la capigliatura. Quel dettaglio, replicato nella sua arrogante improbabilità, assume la forza non più di un simbolo, ma di una zavorra che grava sul tempo che viviamo. C’è ironia nella reiterazione quasi fumettistica dell’opera di Velišček, ma anche una coscienza dolorosa e poetica di un destino che forse vorremmo fosse diverso.
Così Aleksander Velišček spiega la sua scelta di lavorare su una molteplicità di elementi. “Impostando contemporaneamente diversi filoni tematici quest’anno, nella mia pittura si sta consolidando sempre di più il decentramento prospettico. La prospettiva decentrata o periferica mi permette una leggibilità più nitida dei fatti e i continui scivolamenti laterali di visuale aiutano a rinnovare gli strumenti analitici più adatti per una lettura del presente. L’essere nel mondo quindi viene catturato dentro le coordinate del sapere. L’apertura è sul mondo e su quell’insieme di rapporti di forze che si creano fra un punto e l’altro, tra un quadro e l’altro e si articolano attraverso il discorso, il quale dev’essere concepito come una molteplicità di elementi che talvolta possono apparire o essere contraddittori, ma comunque tesi a sviluppare la stessa strategia.”

Tiziano Martini. Die Tücken der Neuen Freiheit

Tiziano Martini
Die Tücken der Neuen Freiheit

Düsseldorf (D), Achenbach Hagemeier
ottobre ― novembre 2017

Lavoro fisico
Daniele Capra




Siamo soliti classificare le opere pittoriche rispetto al soggetto dell’opera, rispetto cioè al loro contenuto visivo. Consideriamo cioè un’opera esattamente come un’immagine, come un dispositivo bidimensionale da valutare essenzialmente in merito alla tipologia di informazioni che veicola. Nella nostra testa un’opera può essere così definita: figurativa, quando essa trasferisce a noi delle indicazioni di carattere rappresentativo rispetto alla realtà; o aniconica (cioé non-figurativa), quando essa non è basata sull’idea di mimesi, ossia quando non riporta alcun contenuto diretto del mondo per come lo osserviamo con i nostri occhi [1]. In questa classificazione l’astrazione è parte del secondo genere, e, come evidenziato dalla storia delle avanguardie del secolo scorso, è figlia di un allontanamento dal mondo, aspetto evidenziato anche dall’etimo della parola “astrazione” [2].


L’opera di Tiziano, di genere aniconico, è animata invece da un desiderio opposto rispetto a quella che è stata una delle tendenze più feconde del Novecento. La sua pratica artistica è mirata infatti a sviluppare una procedura di sedimentazione che permette al colore e, in senso più ampio alla realtà, di depositarsi sulla tela. Quello che attua nel suo studio è infatti un lungo processo di ordine organico, per le modalità lente e reiterate di lavoro, ed industriale per la tecnica e la tipologia dei materiali impiegati.


Martini infatti deposita sulla superficie pittorica del colore acrilico contro cui vengono premute delle superfici/matrici. Successivamente, quando è fissato stabilmente, attendendo cioè il tempo necessario all’asciugatura, l’artista strappa il colore con un’azione di forza, in modo che rimanga una traccia con una parte più o meno grande di materiale. Similmente a quanto accade ad alcune rocce che si sono formate nelle ere geologiche per il continuo depositarsi, strato dopo strato, di miliardi di molecole di elementi minerali, Martini realizza così decine di livelli fino a occupare visivamente la tela, fino a quando cioè la superficie manifesta un equilibrio e non si mostra più bisognosa di attenzioni. Diventa così centrale, nella sua pratica, la ricerca di un bilanciamento in cui interagiscono aspetti fisico-gestuali-psicologici (la necessità individuale da parte dell’artista di imprimere e strappare personalmente delle impronte cromatiche), e di ordine visivo, data la tendenza del medium pittorico a saturarsi, ad essere sazio di cure e di pigmenti acrilici.


Con tale modalità processuale si alternano momenti di lavoro in prima persona ad attese, a periodi cioè di stasi in cui l’artista deve attendere il tempo necessario affinché il colore si solidifichi. Il suo lavoro è così diviso in tanti intervalli alla fine dei quali si presenta sempre la sfida di un nuovo strappo, rispetto al quale è necessario governare la casualità, nella condizione mentale tale per sovvertire un’eventuale complicazione in una ulteriore possibilità espressiva. Risulta fondamentale in tale situazione possedere un’elevata capacità di reazione, che insieme all’esperienza maturata, permette di reagire agli eventi portando a compimento l’azione prestabilita (in questo Martini eredità evidentemente una maturità che gli deriva anche dalla pratica sportiva in montagna, vivendo l’artista tra le Dolomiti).


La composizione dei colori sulla tela nasce dalla combinazione di elementi volontari con aspetti aleatori, dovuti al riuso degli strumenti di lavoro e alla continua stratificazione nel suo studio di croste originate da strappi precedenti, di polvere, pigmenti e differente altro materiale residuale. Ciò che rimane dall’opera precedente è infatti anche parte dell’opera successiva, la quale porterà quindi in dote l’effetto di quello che è accaduto prima. C’è così, in questa continuo flusso, la riproposizione in forma pittorica di un concetto generativo che è proprio del ciclo della natura, ma, ancor di più, della tendenza alla trasformazione continua degli elementi della nostra realtà che è già stata evidenziata dal pensiero di Eraclito [3]. Proprio per questo le opere di Martini, vista la centralità dell’esecuzione ed il continuo reimpiego degli elementi materici costitutivi, vanno lette anche come degli aforismi visivi in cui si confrontano variabili come il tempo, la casualità ed il colore, con fenomeni di condensazione, intensificazione e rarefazione.


Nelle sue opere il mondo – attraverso le particelle di colore raccolte dal pavimento, grazie al continuo lavoro operaio dell’artista, a un senso temporale ciclico e umano – entra con forza indicibile nella tela.




[1] Cfr. R. Arnheim, Visual Thinking. Berkeley: University of California Press, 1969.
[2] Astrazione deriva dalla parola latina “abstractus”, composta dal suffisso “abs-” (“da distante”) and “trahere”, (“tirare”).
[3] Cfr. “Tutto si muove e nulla sta fermo” e “non si può discendere due volte nel medesimo fiume”, frammenti 91 e 49a, in H. Diels e W. Kranz, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Einaudi, Torino, 1976.

Superficial

Superficial
Tiziano Martini, Alberto Scodro, Eugenia Vanni

Verona (I), Studio La Città
febbraio ― marzo 2016

La superficie come medium
Daniele Capra




Sostanza e apparenza, cioè profondità e superficie. È frequente dibattersi tra questi due estremi, sin dalla nostra infanzia, quando persone più grandi e più autorevoli di noi ci ammoniscono a scoprire ciò che sta lontano dai nostri occhi, che giace ad un livello non istantaneamente visibile. Per l’uomo occidentale andare in profondità convoglia indiscutibilmente dei significati ulteriori rispetto al fidarsi del proprio sguardo, alla probabilmente fallace visione frutto dei sensi, la cui capacità di indagine rispetto il mondo è troppo poco stimata e abbassata al rango di sensazione.

A questa modalità di lettura hanno contribuito evidentemente vari fattori. Innanzitutto (1) la concezione morale ascetica del mondo antico mirata al controllo o al rifiuto del piacere – propria di molta filosofia della tradizione greco-romana e giudaico-cristiana – che porta al dubbio o al rifiuto degli stimoli, anche conoscitivi, che provengono dai sensi. Poi (2) la tradizione cristiana medievale la quale, seppur con varie sfumature nelle sue diverse articolazioni, ha ereditato dal mondo antico la condanna al piacere sensibile, poiché non finalizzata alla ricerca dell’elemento spirituale e divino. (3) Ultima, ma non per importanza, la tradizione filosofica e scientifica che deriva da Cartesio, e di cui inevitabilmente siamo figli, che ha praticato uno stretto dualismo opponendo res cogitans a res extensa, con una netta predilezione gnoseologica per l’aspetto cognitivo mentale a quello materiale dei sensi. Ad una lettura più accorta, la (disprezzabile) supposta superficialità dei sensi ci conduce così ad un imbuto di carattere etico, suggerendo come sia auspicabile fidarsi della propria mente e di ciò che è prodotto dalla logica anziché dubitare dei sensi. E tale precetto, che affida alla mente il primato conoscitivo, è anche uno dei presupposti che stanno alla base del «cogito ergo sum», la cui portata è andata ben al di là delle disquisizioni tra filosofi.

L’azione combinata di questi fattori ci ha portato a considerare il dualismo profondità/superficie in favore del primo elemento, trascurando le potenzialità dell’ultimo. Risulta invece particolarmente significativo non considerare la superficie in opposizione alla sostanza, a ciò che realmente caratterizza un oggetto, come se, in ultima istanza, quella esterna fosse la parte meno importante e nobile di un manufatto o la meno stimolante di un processo. Se frequentemente la superficie viene letta come tentativo furbesco di catturare l’attenzione e lo sguardo di chi non è nella condizione di possedere gli strumenti per leggere un fenomeno, per entrarne realmente in profondità, tale approccio conduce a considerare la superficie come area non degna di interesse, poiché parte di rilevanza esclusivamente cosmetica; incapace cioè di andare oltre una ricercata, ruffiana, piacevolezza. Al contrario si consideri le capacità che essa possiede di portare informazioni di rilievo di carattere non meramente utilitaristico, quali ad esempio la storia di un materiale, le sua qualità chimico-fisiche o tattili, l’uso che ne è stato fatto, al pari a quanto può accadere ad una roccia analizzata da un geologo. Si scopriranno così, come evidenzia Giuliana Bruno in un recente saggio mirato ad analizzare le dinamiche di superficialità [*], il suo essere mezzo, aspetto «che rimanda alla sua condizione di medietà e alla qualità del divenire, come un elemento connettivo, diffuso o avvolgente. Come materia che avviluppa consentendo che le impressioni siano conferite ai sensi, un medium è una vivida espressione del contesto, la sua trasmissione e la sua memoria».

Le opere di Superficial mirano a superare tale l’approccio manicheo proprio della nostra cultura raccontando come la superficie possa essere l’oggetto della ricerca artistica o quanto meno il campo di battaglia dentro cui l’artista si muove. Ricorrendo a modalità processuali e pittoriche, a dinamiche di ordine concettuale, all’azione chimica, cromatica, termica, la superficie diventa infatti essa stessa medium, che può assurgere nel contempo ad essere obbiettivo e metafora della pratica artistica, ma anche meta-narrazione che ne spiega ed argomenta le ragioni. Il vitale e incessante lavoro sulla/della superficie è così il diario ultimo di una metamorfosi che avviene grazie al pensiero e alla mano dell’artista, capace di proporre vie alternative per superare l’impasse, di controllare le variabili ambientali, di sfruttare a proprio vantaggio casualità imprevedibili. Nel suo dipanarsi materico, la superficie è così la ragione d’essere della ricerca artistica, il centro di un’azione che produce e registra sulla propria materia uno slittamento di senso, un accadimento, uno spostamento, un trapasso. Trasformazioni che conviene cogliere non solo con lo sguardo.

Tiziano Martini
Tiziano Martini mette in pratica una pittura esplorativa in cui la funzione del colore è accessoria rispetto al piacere esecutivo dell’artista, alla realizzazione manuale dell’opera. I lavori Untitled presentati in galleria sono infatti caratterizzati da un continuo e rigoroso aspetto processuale in cui si alternano azione ed attesa, tentativo e verifica del risultato. L’artista sovrappone sulla tela differenti livelli di pigmenti acrilici, direttamente con il pennello o più frequentemente attraverso l’uso di monotipi, di matrici che, opportunamente colorate, consentono alla materia pittorica di stratificarsi come successive impronte. La tela trattiene così elementi casuali, lo sporco dello studio o i residui di opere precedenti, che diventano variabili aleatorie che l’artista usa/dispone liberamente, in una continua improvvisazione jazzistica.

Alberto Scodro
La pratica artistica di Alberto Scodro è caratterizzata da un doppio filone di indagine: uno rivolto all’architettura degli spazi, rispetto ai quali egli scova ed evidenzia linee di forza e aspetti di tensione ideale, l’altro verso la materia stessa, che ama interrogare e mettere alla prova nelle sue proprietà alla ricerca dei suoi limiti d’utilizzo. Nella serie Autumn egli sviluppa una ricerca in cui vengono analizzate le capacità generative che nascono dalla mescolanza di elementi differenti, quali sabbia, vetro, ossidi. L’artista indaga infatti le possibilità combinatorie della materia cuocendo ad elevata temperatura in forno industriale materie prime di diversa origine, che subiscono un processo chimico-fisico simile alla vetrificazione. Scodro realizza così delle sculture alchemiche da parete, lastre in cui la superficie è ruvida come la roccia, ma fragile e colorata come la porcellana.

Eugenia Vanni
La ricerca artistica di Eugenia Vanni è caratterizzata da una pratica concettuale poliedrica, che declina con modalità e media differenti, spaziando agilmente dalla pittura all’installazione. L’artista impiega frequentemente, risemantizzandole ed attualizzandole, tecniche pittoriche della tradizione italiana del Quattrocento e Cinquecento. Nei dittici Ritratto l’uno dell’altro Vanni esplora concettualmente le potenzialità mimetiche della pittura fino a giungere agli esiti più estremi. Grazie all’utilizzo dell’olio e di differenti ricette di imprimitura della tela, l’artista arriva a ritrarre su lino l’immagine del tessuto di cotone e viceversa. Ne esce così un doppio ritratto, essenzialmente meta-pittorico, in cui il soggetto è la pittura nella sua essenza materiale/materica, il suo essere palinsesto che accoglie l’immagine potenziale dell’altro. In un chiasmo logico ciascun elemento del dittico è così negazione della propria identità e nel contempo rappresentazione del suo contrario.




[*] G. Bruno, Surface: Matters of Aaestetics, Materiality and Media, The University of Chicago Press, London, 2014, p. 6.

The Intruders

The Intruders

Ivan Dal Cin, Veronica De Giovanelli, Francesca Longhini, Tiziano Martini, Elena Mazzi, Jacopo Mazzonelli, Laurina Paperina, Gianni Politi, Roberto Pugliese, Alberto Scodro, Eugenia Vanni

Venezia, sedi differenti
maggio ― giugno 2015

Diluiti ed intrusi
Daniele Capra




Verifica
Una mostra è un evento che nasce per dare corpo ad un’idea, per alimentare un pensiero ed un punto interpretativo su opere e pratiche artistiche. Una mostra è la verifica fattuale di un concetto, un esperimento intellettuale – e visivo – che avviene dopo una ricognizione sulla realtà fenomenologica della produzione artistica, benché frequentemente sia essa stessa origine per gli artisti di nuovi lavori ed evoluzioni espressive. Una mostra è secondo questa ottica un insieme di elementi eterogenei che vengono accomunati metodicamente da una legge, da un criterio che li caratterizza e li unifica: è cioè l’analisi di un punto di vista, che assume la funzione di paletto delimitativo nel complesso ed intricato fluire del presente o di ciò che è appena passato, rispetto ai quali non vi sono mai teorie ed interpretazioni del tutto soddisfacenti o compiute.
Indipendentemente dal fatto che la mostra sia di natura affermativa-descrittiva (una diagnosi che vuole dimostrare un teorema che si è intuito) o interrogativa (una prognosi che non si vuole sciogliere, e  quindi un dubbio o un quesito da porre), la condizione di fare una mostra è simile a quella di colui che, di notte, vuol scattare una foto senza flash ad un gruppo di persone mentre tutti si stanno muovendo. Se il tempo di esposizione è sufficientemente lungo per imprimere il sensore (o la pellicola) tutti i soggetti risulteranno mossi e non ben definiti nelle loro fattezze; mentre se il tempo di esposizione sarà breve e tale da permettere di catturare/congelare ciascuna persona, ne risulterà una foto sottoesposta in cui i connotati di ciascuno e molti dei dettagli andranno persi.
Tale impasse deriva quindi, in buona sostanza, dalla diversa rapidità con cui la realtà si muove rispetto all’evoluzione dei nostri strumenti interpretativi. Ma l’inadeguatezza può essere anche una leva ulteriore per maturare delle capacità inattese, per l’elaborazione di altre strategie, altri percorsi, altri format.


Opera
Ciascuna opera d’arte dotata di significatività (che non sia cioè un banale esercizio di stile), e che non abbia delle funzionalità pratiche evidenti (che non sia cioè dal suo concepimento ascrivibile a quel settore che siamo soliti chiamare arte applicata), né che sia strettamente site-specific (vale a dire nata per interagire rispondendo alle esigenze peculiari di un determinato ambiente), possiede un tasso minimo di eversività rispetto all’ambiente di approdo. Poiché infatti essa è il prodotto di una serie di istanze intime, estetiche, costruttive, altre rispetto a qualsiasi luogo in cui essa può essere collocata (come ad esempio galleria, casa, studio, museo, magazzino), con gradi differenti risulterà essere intellettualmente sempre un fuori luogo, e se non lo fosse perderebbe inevitabilmente la sua carica concettuale o psichica. L’opera nasce cioè per sovrabbondanza rispetto all’esistente, grazie alla fertilità dell’artista naturalmente spinto a generare e affidare al mondo contenuti che ancora non esistono.
Se l’opera deve inevitabilmente misurarsi con il mondo rivendicando una forte alterità, una grande autonomia su ciò che le è attorno a partire dalle ragioni stesse che la hanno determinata e catapultata tra noi, essa può essere considerata a tutti gli effetti un intruso rispetto alla realtà fenomenologica che ci si pone di fronte al nostro sguardo. L’opera è estranea alla realtà, ma deve giocoforza averne accesso. È un fuori contesto, un irregolare cui abbiamo consentito l’accesso al ritaglio di mondo che ci appartiene. E a nulla valgono i nostri tentativi di addomesticarla, di integrarla o renderla propria fino in fondo: rimane altro da noi, differente e straniera.


Contenitore
Una mostra si sviluppa per raggruppamento fisico di elementi significativi. In particolare essa è l’occasione per radunare e mettere in relazione delle opere cercando di dimostrare l’assunto interpretativo che le lega. Il contenitore, il luogo scelto, funziona cioè come campo di verifica, come spazio entro cui viene giocata la partita intellettuale e visiva, a favore tanto del pubblico di visitatori che degli addetti ai lavori. L’evento mostra agisce cioè grazie ad un fenomeno di concentrazione: all’interno del perimetro deputato le opere sono accostate, messe in dialogo, confrontate, consentendo all’osservatore di compiere un’esperienza di natura estetica e mentale in un luogo prescelto. Uno degli elementi fondamentali è che l’esperienza sia determinata e continua, temporalmente e fisicamente. Il modello del white cube adottato da musei e gallerie serve anche a questo, a cucire tempo e spazio oltre che a fornire un contenitore neutro che non interagisce con le opere.
Il principio espositivo alla base di The Intruders nega proprio tale assunto, spiazzando il visitatore non solo con le singole opere, bensì frazionandone la visione all’interno della città di Venezia, lasciando che ciascuna opera agisca in un luogo differente, seppure in coordinazione con le altre. La fruizione dei lavori degli artisti viene cioè frantumata attraverso un percorso espositivo che si snoda in svariati spazi, spingendo l’osservatore a provare l’esperienza non tanto del visitatore, quanto invece del flâneur, della persona che interagisce con il contesto urbano cogliendo le diversità e gli aspetti relazionali, estetici, significativi della città. Il contenitore della mostra non è quindi isolato, tale da escludersi dal fluire della vita quotidiana, ma si sovrappone ad essa innervandosi proprio degli elementi che tradizionalmente sono estromessi. Si richiede così a ciascun osservatore di attuare una sintesi, consci che ciascuno avrà una visione parziale della mostra, in relazione ai luoghi e alle opere viste, ma anche al suo desiderio di compiere un percorso fisico che è anche cammino tra i campi e le calli della città. Alla concentrazione dello sguardo, The Intruders oppone così la diluzione dell’esperienza visiva.


Doppia Intrusione
Le opere di The Intruders non sono però intrusive esclusivamente per la loro carica ontologica di opera o per la loro diradamento nella città, quanto per un’azione di strategia, furbizia e scaltrezza ricercate e messe appunto insieme agli artisti rispetto al contesto finale in cui sono state collocate, o alla processualità dovuta alla loro esecuzione. Agendo in maniera mimetica nascondendosi nello spazio, traendo in inganno il visitatore, spiazzando per l’utilizzo di materiali o l’azione compiuta, compiendo un prelievo-furto, mostrando allo spettatore ciò che non si può vedere, esse perseguono doppiamente la propria stessa clandestinità, anche dal punto di vista della topologia espositiva, del posizionamento spaziale e dell’approccio fruitivo. Sono cioè dispositivi che sfidano l’intelligenza, intrusi da vegliare e che costringono a non abbassare mai la guardia.

#painting. about, around & within

#painting. about, around & within

Johanna Binder, Manuele Cerutti, Matteo Fato, Tiziano Martini, Jochen Mühlenbrink, Valerio Nicolai, Andreas Plum

Venezia, Galleria Upp
maggio ― settembre 2014

Je peinse, donc je suis
Daniele Capra




Non c’è niente di più amato ed odiato della pittura, ed è essenziale non prestare più di tanto orecchio all’insanabile dicotomia tra i sostenitori e i detrattori del medium che ha alimentato inutili fiumi di inchiostro.

Se è infatti amata perché elemento che agisce in continuità e progressione con la tradizione, vivendo grazie alle continue fioriture dai rami di un albero millenario le cui fronde non somigliano in nulla al fusto, essa è anche disciplina trattata con malcelato disprezzo, a tal punto da essere considerata un episodio ormai chiuso, infertile e che si è stanchi di (ri)vedere. Tanto più perchè, tra molte diffidenza, frequentemente il mondo accademico richiede, all’artista che usa esclusivamente la pittura, di saper argomentare tale scelta con una forza ed una coerenza sconosciuta a chi adopera altre forme espressive: il pittore deve cioè spesso argomentare non solo le proprie opere ma anche il fatto di aver scelto tale mezzo.
Si pensi inoltre, all’insulsa vulgata che la vuole il medium in sè abbandonato o recuperato da parte degli artisti, e in cui si sono confusi i piani della critica con quelli fenomenologici: è la critica e l’attenzione degli esperti (cioè la moda intellettuale, o, se si preferisce una lettura più politica, il pensiero dominante in grado di monopolizzare il dibattito) a guardare verso la pittura o, al contrario, ad ignorarla volgendo lo sguardo altrove. Ma gli artisti, con differenti gradi di consapevolezza, non hanno mai smesso di praticare la disciplina, anche come semplice prodromo transitorio a ricerche che conducono ad altri lidi e ad altre discipline.

Fortunatamente i nostri anni sono maturi non solo per capovolgere il preconcetto che la pittura sia passatista o conservatrice, al contrario degli altri media, ma per affermare come l’adozione di un particolare mezzo espressivo non è in sé garanzia di nulla, tantomeno di qualità o di una supposta contemporaneità. È cioè solo il linguaggio ed il contenuto – e non ideologicamente il supporto che lo veicola – a dover essere presi in considerazione. Il resto sono chiacchiere da bar sport dell’arte contemporanea.

La pittura infatti, in maniera inequivocabile, è. Ed esiste, anche se noi non la guardiamo o se non c’è la luce sufficiente per renderla visibile ai nostri occhi. Le sue ragioni giacciono nella pratica quotidiana degli artisti, nel «nulla dies sine linea» che Plinio attribuisce ad Apelle, ossia nel suo raccontare non solo il mondo (tutto ciò che è altro da essa), ma anche il sé, nell’intimità dove giacciono le ragioni del proprio esistere, declinate nel lavoro giorno dopo giorno.

Una nuova generazione di artisti ha fatto propria tale istanza argomentativa che veniva rivendicata con forza già in Documenta6 del 1977, in cui una sezione era intelligentemente intitolata «pittura come tema della pittura». I lavori di #painting. about, around & within che dimostrano infatti come sia necessario, nella pratica contemporanea, sviluppare la propria ricerca anche come un racconto, una meta-narrazione che sia in grado di spiegare ed argomentare all’osservatore le ragioni – intime, ideali ed espressive – della propria esistenza all’interno di un dibattito ontologico sulle proprie ragioni d’essere. Le continue e polistilistiche evoluzioni, visive e concettuali, l’inesausta sperimentazione linguistica, nascono infatti dalla necessità di fornire all’homo videns possibilità interpretative poli-causali, poli-foniche, in cui la frammentazione sperimentale non fa altro che aggiungere infiniti addendi ai propri argomenti.

Ad essere raccolte, nella mostra, sono opere che partono da o sviluppano un approccio meta-pittorico a partire dagli aspetti strutturali del dipinto, fino al soggetto stesso della rappresentazione. Sono quindi un microcosmo che non manca di niente, comprese le regole proprio esistere, o di quella che potremmo impropriamente chiamare le funzioni sociali.

#painting. about, around & within testimonia le sfide che la pittura stessa rilancia, attraverso le possibilità di spiegarsi che essa stessa possiede, indagando senza limite la propria natura polimorfica. In maniera multipla e polifonica, je peinse donc je suis [*].




Johanna Binder
#frame #structure #canvas #flatcolors #space #stripes #geometry #architecture #rythm #holes #cutting #behindthecanvas #wall #reflectingsurface #sculpture #3dimensions


Manuele Cerutti
#oil #objects #iconic #mimesis #smallsize #concentration #softvision #impressions #supernatural #mysterious #dream #suspensionofdisbelief #memory #narration


Matteo Fato
#wood #box #oil #vortex #realism #figurative #portraiture #landscape #mountains #metapictoricalapproach #expandedpainting #repetion #psycology #disease


Tiziano Martini
#color #opensurface #oil #tempera #time #aniconicsubject #objects #waiting #oxidation #chemical #processpainting #minimalism #wallpainting #architecture


Andreas Plum
#colors #stripes #paper #canvas #paste #plots #composition #rythm #control #process #aniconic #energy #mentaltrip #aesthetics #lightness


Valerio Nicolai
#structure #rawcanvas #dirtiness #colorspots #metapictoricalapproach #detais #invisibilematter #upside-down #backsidepainting #hiddenspace #trick #freespace #wysiwyg


Jochen Mühlenbrink
#wood #canvas #adesivetape #packaging #geometry #technique #preciousness #hyperrealism #wit #deceit #humour #socraticmethod #trick #interactionwithspectator #theatre




[*] Il titolo del testo è una deformazione del cartesiano «je pense donc je suis» («penso, quindi sono») in «dipingo, quindi sono».