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Matteo Negri. Amori estivi

Matteo Negri
Amori estivi

Cannobio
luglio ― ottobre 2021

Sciabordio di geometrie
Daniele Capra



Un soggetto senza libro (Preludio)
Ignoro perché nessun autore abbia mai scritto un romanzo o un racconto intitolato Amori estivi per narrare di vicende romantiche, o erotiche, che vengono vissute per poi dissolversi nell’arco di una stagione. Forse il titolo è stato scartato perché troppo diretto e prevedibile. Forse perché conterrebbe implicitamente un’anticipazione delle conclusioni. O, peggio ancora, un giudizio di valore sulle vicende, sulla loro supposta smaccata leggerezza. È da qualche mese che continuo a chiedermelo, perdendo tempo con ipotesi fantasiose e congetture del tutto campate in aria. Poi un’illuminazione. Ho scoperto che esiste a Zurigo, conservato presso un deposito a temperatura controllata, un inedito di Joseph Roth dal titolo Sommerlieben. È un racconto breve, a cui pochi hanno avuto accesso e che sarà pubblicato su indicazione dell’autore novantanove anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1939. È un racconto particolare, perché sono riuscito a scovarlo una notte di aprile senza che esso sia mai stato scritto. È il prodotto della mia aspettativa, una finzione, cui mi ero particolarmente affezionato nelle ultime settimane. Lo ammetto, ho dovuto fare un certo sforzo per demordere da tale fantasia. Ma non mi sono perso d’animo, e ho pensato poi che un libro con quel titolo avrebbe potuto scriverlo Milan Kundera, che con Amori ridicoli e Il valzer degli addii, aveva già lambito quel concetto di libertà del desiderio, grazie alla sua scrittura incisiva e mai troppo densa. E invece niente, quella combinazione di parole è stata evitata, non ci sono amanti che si rincorrono e desideri che cambiano direzione come il vento capriccioso di luglio. Ho deciso quindi di controllare per svariati giorni nei Sillabari, raccolti in un volume rosso mattone da mesi abbandonato sul tavolo di fronte al mio divano. Ho inizio a sperare che, riguardando il libro nelle ore successive, le parole potessero ricombinarsi e i titoli potessero cambiare, ma non sono una persona fortunata. Goffredo Parise, che forse quell’idea l’aveva accarezzata per davvero, apre i racconti con Amore e poi usa titoli come Affetto, Allegria, Bacio, Estate, Hotel, Libertà, Mare, Malinconia, Ricordo e Sesso. Emozioni, luoghi e concetti che hanno evidentemente a che fare con quello che cerco, ma che non hanno quella precisione geometrica di cui ho bisogno. Va osservato inoltre che, eccetto un solo caso, tutti i titoli dei racconti sono composti da un’unica parola, aspetto che rafforza l’ordine alfabetico dei titoli, a cui Parise si è strettamente attenuto. Inutile dire che nemmeno Italo Calvino mi è stato di aiuto, come invece capita spesso. La sua composta esattezza, il suo gioco combinatorio, il suo dettaglio hanno portato i leggeri amori “estivi” a essere degli amori “difficili”, con la prima parola preceduta dall’articolo determinativo, affogando poi malinconicamente nell’ironia e nell’incomunicabilità. E non trovo soddisfazione nemmeno con Tiziano Scarpa, nonostante i suoi amori ardenti, sperimentali e in forma di poesia, abbiano assunto l’aspetto di “groppi nella scuraglia”. O che, nella raccolta di storie intitolata Amore®, essi appaiano il frutto di un sentimento apparentemente codificato, di un marchio commerciale che indica una sorta di certezza normativa che cozza con la supposta, attesa, unicità; tutti aspetti che, sfortunatamente, non abbisognano del brio frizzante dell’estate. Niente, sono costretto a desistere, a rinunciare a ogni altro tentativo. Amori estivi è un titolo fintamente letterario, e se nessuno lo ha mai usato forse è perché probabilmente non merita di esserlo. Continuo così a chiedermi se abbia senso fissarsi su questa coppia di parole, con l’aggettivo che modera, in maniera sbarazzina, il peso della prima parola. Che cosa sono gli “amori estivi”? Sono forse un raggiro architettato dal caso? Un imbroglio che mette momentaneamente a soqquadro due vite, ma che non ha la forza necessaria per resistere l’arco temporale di qualche mese? Un’ubriacatura nata dalla combinazione di desiderio e di corpi meno coperti del solito? Un’allucinazione alimentata dal caldo e dalla perdita dell’inibizione? Mi interrogo, inoltre, se esista davvero un’esatta corrispondenza tra il nome di una cosa e la sua natura, tra un titolo e un contenuto. In testa mi risuona la massima “nomina sunt consequentia rerum”, i nomi sono l’effetto delle cose. Quindi, evitando di cadere nel determinismo nominativo, un “amore estivo” è essenzialmente un amore che prende forma in una determinata stagione dell’anno, foriera di tempo libero e di minore vincolo dalle regole della vita ordinaria. O, in modo più prosaico, è un amore che si consuma in un ristretto periodo, ma non per questo smette di farci palpitare. O, forse, è un amore che si è affrancato dai vincoli sociali ed emotivi che vedono nell’amore stesso qualcosa necessariamente di importante, ben più significativo di una voglia e un’infatuazione passeggere. Forse gli “amori estivi” sono essenzialmente una costruzione culturale, dei dispositivi di desiderio in grado di determinare programmaticamente, e in modo inconsapevole, il proprio celere disfacimento. Ma sono, in fondo, anche uno strumento che ci dà consapevolezza che stiamo ancora vivendo e che siamo parte di un flusso che non smette di rigenerarsi. In attesa che la passata malinconia preluda a una nuova fuga del nostro desiderio, a nuove visioni, a un nuovo batticuore.

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Un soggetto in mostra (Fuga)
Il progetto espositivo di Matteo Negri Amori estivi è una mostra atipica, per certi aspetti un’anti-mostra, poiché non concentra le opere che hanno tra loro una relazione di prossimità in uno spazio uniforme, ma diluisce la loro presenza in luoghi differenti nel tessuto urbano di Cannobio, cittadina situata sulla sponda occidentale del Lago Maggiore. Le opere sono quindi strettamente interdipendenti rispetto al contesto architettonico, alla topologia e alle caratteristiche ambientali di ciascuna collocazione. Potremmo dire che reagiscono allo status di ciascun luogo, poiché da intruse vi si trapiantano e, inevitabilmente, in esso si contaminano (tale aspetto è ancora più evidente se consideriamo il fatto che l’artista impiega di frequente materiali trasparenti o capaci di specchiare, e quindi di sporcarsi visivamente con il contesto). Se infatti idealmente in uno spazio espositivo le opere sono collocate in una dimensione atemporale e di uniformità sensoriale, la scelta di Amori estivi è stata così invece quella opposta: i lavori dell’artista dialogano con i luoghi, con le loro volumetrie, le ombre e i colori del paesaggio – urbano e naturale – ogni volta differenti, con i cambiamenti di luce imposti dalla luce solare e, di notte, da quella artificiale. Inoltre l’orizzonte sonoro e visivo non sono neutri, ma condizionati dalle variabili ambientali (vento, nuvole, pioggia), dalla presenza casuale dei cittadini o dei turisti, dai giochi estivi dei bambini, e più in generale dalle abitudini sociali e dalle attività economiche del luogo. L’osservatore è così invitato a leggere l’opera non come un elemento che si astrae dal mondo e che da esso si distingue nel suo essere radicalmente alternativo o disomogeneo, bensì come un fattore che lo svela indicandolo, consentendo di cogliere ciò che nell’ordinarietà non avremmo mai consapevolmente visto. La fruizione dei lavori che sono parte di Amori estivi avviene essenzialmente in via incidentale, passeggiando dal centro verso il lungo lago, prendendo il sole o scegliendo di partecipare al book-crossing. L’osservatore-casuale, al contrario dell’osservatore-informato che ha già avuto esperienza dell’opera, è infatti nella condizione del flâneur che si imbatte in un imprevisto, in una circostanza inattesa. Immersa nel contesto, l’opera è in ultima istanza un evento inatteso, un fuoriprogramma rispetto al panorama visivo ordinario.
L’installazione Pensando a Gaudenzio nasce dopo un sopralluogo realizzato a Cannobio da cui è emersa una coincidenza visiva. In modo del tutto casuale i rapporti dimensionali tra l’altezza degli archi e l’ampiezza dell’intercolumnio del Palazzo Mandamentale sono infatti gli stessi della celebre pala d’altare di Gaudenzio Ferrari, conservata presso il Santuario della SS. Pietà a poche centinaia di metri, visitata dall’artista qualche minuto prima. Da quella perfetta sovrapponibilità tra La salita al Calvario di Ferrari e l’architettura è nata l’idea di trasportare idealmente all’aperto alcuni degli elementi concettuali della pala. L’artista ha realizzato così un intervento che sintetizza in forma geometrica l’opera rinascimentale evidenziando alcune delle linee costruttive che determinano le relazioni tra i personaggi. Tali matrici sono state trasformate in poligoni trasparenti – realizzati in pvc, pellicole trasparenti o specchianti – che interagiscono con il contesto modificandone la percezione, sia proiettando delle aree di colore che riflettono dei ritagli dell’ambiente circostante. Dalla strada, guardando attraverso la volta a botte che costituisce l’ingresso del palazzo, si coglie in questo modo una nuova vista, in cui la luce non abbaglia con la sua forza accecante, ma diventa combinazione cromatica, costruzione geometrica ritmata. Negri riconduce l’opera originaria di Ferrari al suo grado zero, concettualmente alla sua naturale e ontologica aura, senza però dichiarare manifestamente la sua fonte all’osservatore. Pensando a Gaudenzio – il cui titolo è insieme leggero, preciso e calviniano – presenta infatti due essenziali elementi iconografici de La salita al Calvario, appena accennati: la Maddalena e il cagnolino. I quali, oltre a essere un tributo al maestro del Rinascimento lombardo, hanno nei confronti di chi guarda l’opera una funzione interrogativa. Prestando orecchio, sembra di sentirli chiedere allo spettatore distratto: “sai chi siamo?”, “chi sei tu?”, “perché siamo in questo posto?”.
La serie di opere Piano Piano è caratterizzata dalla presenza di due piani incidenti che si incrociano in modo non ortogonale rispetto agli assi cartesiani. Sono sculture essenziali e di grande dimensioni, realizzate in metallo e vetro, i cui piani sono in parte rivestiti da pellicole specchianti e cangianti. L’opera è una riflessione sulla percezione delle geometrie e la possibilità di creare del volume attraverso l’impiego di semplici superfici bidimensionali. In particolare tali lavori mostrano come lo spazio sia una costruzione complessa, rispetto al quale hanno un ruolo centrale i materiali, ma anche la possibilità di avere superfici dotate di colore, capaci di trasparenze o di riflettere il contesto ambientale. Le opere di Piano Piano sono infatti dei dispositivi che trasformano la secca linearità della geometria in qualcosa di fluido e da negoziare con lo sguardo, spostandosi anche fisicamente in maniera non ordinata: viene così a frammentarsi l’idea unitaria dello spazio, che diventa invece un’esperienza visiva parcellizzata e in prima persona. A Cannobio i due Piano Piano di Negri sono collocati in una delle corti dei palazzi del centro e nel lungolago, dove interagiscono, rispettivamente, con uno spazio urbano delimitato da muri sul quale sono affacciate porte e finestre, e con il lago e il paesaggio nello sfondo. Sono due tipologie di interazione agli antipodi: la prima caratterizzata dalla misura e dalle geometrie razionali dell’architettura urbana; la seconda invece caratterizzata dalla dismisura, dovuta alla presenza degli elementi naturali e ai continui cambiamenti di luce. Nella corte è così una città, fatta di persone e relazioni, a contaminarsi con l’opera, grazie a superfici specchianti e trasparenze. Mentre sul lungo lago è tutto l’ambiente, dall’orografia al cielo, dagli alberi agli uccelli.
La presenza dell’ambiente lacustre è centrale anche in Amori estivi (letture), intervento site-specific di Negri realizzato rivestendo con dei film colorati le pareti in plexiglas del box comunale destinato al book-crossing. È uno spazio geometrico, che in pianta ha la forma di una V con due elementi che si protendono all’esterno, a partire da un corpo centrale. Il box è caratterizzato da una volumetria semplice che l’artista ha scelto di scomporre intervenendo sulle lastre che delineano i bordi, e sulla copertura creando delle lame di colore giallo, bianco, blu e specchianti. L’osservatore che entra nello spazio, guardando fuori, è messo in questo modo nella condizione di vedere il paesaggio cambiare, caricarsi di colore, risemantizzarsi. Ma, allo stesso modo, il passante che sta fuori coglie dei ritagli di paesaggio riflettersi su alcune porzioni delle superfici esterne, combinandosi visivamente con il volume e le geometrie della costruzione. Amori estivi (letture) consente così al paesaggio percepito dall’interno e quello percepito dall’esterno di sovrapporsi visivamente, di scambiarsi reciprocamente qualcosa. Esattamente come accade con i libri che nello spazio, ogni giorno, i lettori prendono per sé o lasciano agli altri.
In Cartoline da Saturno Negri sceglie di mescolarsi al contesto con un’opera visivamente mimetica rispetto al paesaggio urbano. L’artista ha realizzato infatti dei manifesti d’artista che, durante il periodo della mostra, saranno ospitati negli spazi comunali riservati alle affissioni pubblicitarie. È un intervento di arte pubblica in cui le informazioni commerciali lasciano il posto a delle immagini aniconiche caratterizzate da geometrie incisive ed essenziali. Lo spazio diventa pura immagine, con un testo a margine che riporta i dettagli della mostra, scritto in piccole dimensioni: lo si può leggere solo se si è personalmente disposti ad avvicinarsi. In questo modo il cittadino, il passante casuale e il visitatore di Cannobio sono messi sullo stesso piano, accomunati dalla condizione di osservatori che si imbattono in un’immagine che gioca a nascondino rispetto all’orizzonte visivo ordinario, che si occulta senza urlare. Così, mentre Pensando a Gaudenzio o i Piano Piano sono degli inneschi loquaci per vedere o rivelare qualcosa nell’ambiente in cui sono collocati, le Cartoline da Saturno sono invece dispositivi di discrezione, di silenzio: dei forestieri che si innestano e quasi si nascondono nella città. Gli amori estivi, molto spesso, spingono anche a parlare sottovoce.

La pelle del serpente

Enzo Cucchi / Nebojša Despotović
La pelle del serpente

Treviso, TRA
March ― May 2015

La pelle del serpente
Daniele Capra




La pelle del serpente è un’indagine mirata a sviscerare le potenzialità rigenerative che la pittura possiede rendendo manifeste le istanze grazie alle quali tale disciplina continuamente evolve/muta la propria forma e la propria grammatica, alla ricerca di nuovi equilibri visivi che ancora sfuggono alla realtà che siamo in grado di percepire. Al contempo essa nasce dalla necessità di porre in essere di una contaminazione intellettuale tra due poetiche: una segnata da una matura ricerca che si esprime con un simbolismo ermetico ed un tratto nervoso, energico e vitale; l’altra caratterizzata da una malinconica introspezione in cui la realtà trasfigura in visione metafisica ed inquietudine psichica.

La pelle del serpente esemplifica come la pittura sia tentativo, sforzo e prova che si condensano sulla superficie nel tentativo romantico – non negli esiti o nella poetica, ma nello slancio – di superare lo status quo, di liberarsi dalle secche in cui il presente ci incaglia. È un esercizio continuo di equilibrismo e di coraggio, di capacità di calcolo e desiderio di spingersi più in là. Ed è l’artista stesso che mira a superarsi senza ripetersi, finanche ad arrivare alla distruzione, praticando una feroce selezione tra ciò che abortisce in un fiotto di sangue morto e quello che invece ha la forza di vivere e di crescere, una volta espulso e messo al mondo.

In La pelle del serpente gli artisti si sono spinti all’elaborazione di soluzioni visive non ordinarie e non precostituite, in maniera tale da poter liberamente declinare la pratica pittorica con modalità estensive ed eversive. L’incisività della mostra nasce proprio dalla ricerca delle evoluzioni polimorfiche in grado di germinare dalla combinazione di fantasia, istanze espressive, struttura architettonica dello spazio.

Gli artisti de La pelle del serpente praticano una pittura di fantasia, che mira cioè a costruire pezzi di realtà immaginifica in attrito con quella che noi per convenzione siamo soliti chiamare fenomenologicamente realtà. Ma, allo stesso tempo, la loro pittura è una lotta tra l’incisività dell’idea primigenia e la necessità intima di ri-metabolizzazione e di ri-stesura. È nel reiterato ri-scrivere, nel cambiare i particolari, nell’aggiungere sfumature, che avviene il processo di metabolismo autoriale, con il rischio che il mestiere prevarichi sulla forza espressiva. Poiché l’artista non deve scordarsi di come sia necessario prestare attenzione a non farsi condurre dalla pittura – che  è una bestia feroce – ma deve rivendicare la sua propria autonomia. Che si sostanzia nella capacità di autodisciplinarsi e di fare tabula rasa, ma anche nella violenza di cancellare e distruggere.

La pittura è pratica che prosegue per continue germinazioni, portandosi in dote tutto quello che intenzionalmente lei stessa ha lasciato alle spalle. La pittura è esercizio quotidiano che ingloba e si appropria degli stimoli del mondo per sintetizzarne, in maniera alchemica e oscura, l’energia psichica. La pittura è infinite pagine scritte a matita con la mano destra mentre la sinistra ne cancella progressivamente le parole. La pittura è pratica bidimensionale che usa qualsiasi tipologia di spazio e supporto, anche quando esso è in intima contraddizione con le sue definizioni e le sue regole. La pittura è come la pelle di un serpente che ad ogni stagione prende nuova forma, abbandonando il disegno della vecchia epidermide e le trame dell’animale passato per lasciare spazio alla foggia del nuovo essere destinato a prenderne il posto. La pittura è pratica mentale platonica di impossessamento di una superficie da dipingere, la quale rimane in attesa dell’artista per essere visibile e fecondata.

La pittura può essere la carta ricucita di un paravento, la tavoletta da viaggio che si può portare con sé (come non era infrequente nel Quattrocento e nel Cinquecento con immagini sacre e ritratti di amanti), la tela sospesa che va guardata frontalmente oppure la tenda cangiante che lascia passare la luce dalle finestre. Ma, in maniera estensiva, anche un’opera tridimensionale può essere il risultato della metabolizzazione degli stimoli esplorativi da parte dell’artista, in un’irrefrenabile tendenza al trasformismo e al cambio di identità. Pittura è anche un bassorilievo consunto o una scultura su bronzo che traccia geometrie inattese all’interno di uno spazio infinitamente più grande delle proprie dimensioni.

(EC) La pittura è indagine, di natura figurativa, che coniuga sintetici elementi simbolici. La figura umana stilizzata, gli animali, i teschi e gli occhi diventano elementi ricorrenti nelle opere, nelle quali assumono la funzione di punti di gravitazione iconica che attraggono lo sguardo. La pittura è animare i lavori con un uso spiazzante del colore e con titoli che costituiscono un beffardo e tagliente contrappunto dialettico alle inconciliabili bassezze e alle alture del mondo.

(ND) Ma la pittura nasce anche dalla manipolazione della memoria e delle immagini attraverso lo studio della figura umana, del paesaggio e della natura morta. La pittura rivela un mondo altro in cui la realtà osservata, quella delle immagini, trasfigura in visione metafisica ed inquietudine psichica. La pittura è malinconica introspezione che smonta l’immaginario del passato, lo elabora e lo defeca nel mondo.

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