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Antonio Marchetti Lamera. Tempo subìto, tempo anticipato

Antonio Marchetti Lamera
Tempo subìto, tempo anticipato

Verona, Studio La Città
ottobre ― novembre 2019

Tempo subìto, tempo anticipato
Daniele Capra




Nella nostra esperienza quotidiana lo scorrere del tempo è percepito grazie agli eventi atmosferici e alla mutazione della luce che viene continuamente osservata sugli edifici, sugli alberi e in generale sugli elementi antropici e naturali. L’opera recente di Marchetti Lamera fa riferimento alla manifestazione fisica e cronologica del tempo, e al suo concretizzarsi nel movimento delle ombre originato dalla luce del sole. La sua pratica è incentrata sulla documentazione/registrazione, in un’immagine bidimensionale pittorica, dell’ombra che qualunque corpo proietta su altre superfici. L’immagine finale, condensata su tela o su carta, oscilla tra essere quindi il frutto di un tempo lineare subìto – ossia già passato, sfuggente ed inafferrabile – e la supposizione di un tempo ciclico anticipato, di una circostanza cioè destinata ad essere già annunciata e quindi pre-vista.
La nostra civiltà si è sempre dibattuta tra due antitetici modelli di concezione del tempo, basati sulle opposte idee di circolarità e linearità. È circolare quando gli eventi e le condizioni che li hanno determinati possono periodicamente riproporsi, nella stessa maniera in cui le stagioni si susseguono e i pianeti si muovono all’interno del nostro sistema solare, poiché, come sintetizzava Nietzsche, “l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta” [1]. È invece lineare quando vi è un unico verso di percorrenza, cioè un continuo avvicendarsi di eventi in forma cronologicamente susseguente ed irripetibile, come si registra nella tradizione giudaico-cristiana secondo la quale il mondo è stato creato e vi sarà, in futuro, la sua distruzione (come preconizzato ad esempio nell’Apocalisse di Giovanni).
Ciascuna delle modalità, le cui ricadute non sono sempre rigidamente in contrapposizione, tende ad evidenziare aspetti differenti del tempo, ponendo alternativamente l’attenzione sul carattere periodico e liberatorio della ripetizione o sulla malevola sfuggevolezza di istanti e situazioni che non potranno più presentarsi tali e quali. La ricerca condotta sulle ombre da Antonio Marchetti Lamera negli ultimi anni sembra svolgersi lambendo simmetricamente entrambe le concezioni del tempo, delle quali evidenzia gli aspetti di delicatezza, intimità e talvolta di sottilissima malinconia esistenziale.


Il soggetto ‘ombra portata’ scelto dall’artista fa riferimento agli aspetti di ciclicità delle condizioni di luce, che si presentano sostanzialmente identiche nella medesima giornata a distanza di brevi intervalli di tempo o nell’arco delle ventiquattro ore, se permangono le identiche condizioni meteorologiche. La luce solare, pur essendo cangiante per sua stessa natura, agisce infatti nella realtà che osserviamo come elemento interstiziale tra corpo e ombra portata, e, inoltre, si comporta come entità in grado di uniformare le nostre percezioni, senza realmente metterci in grado di cogliere i fenomeni di trasformazione istantanea (se non vi sono cambiamenti delle condizioni meteo), in una sorta di sospensione metafisica.
Ma l’ombra portata e il suo pur lento cambiamento sono indicativi dello scorrere del tempo e del suo consumarsi propri della concezione lineare, come capita di avvertire nella nostra esperienza quotidiana basata sulla consuetudine di misurare il tempo. Ne percepiamo il continuo srotolarsi e il flusso inarrestabile, e siamo consci dell’infinita transitorietà e di come non sia possibile, come già ammoniva Eraclito, bagnarsi due volte nello stesso fiume [2]. O, per analogia, vedere due volte la stessa medesima ombra. Tanto più perché, paradossalmente, anche noi stessi siamo in parte cambiati nel frattempo: la condizione lineare implica infatti un costante mutamento, anche del soggetto percepente. Opporsi a questo divenire pare umanamente non possibile.


Il lavoro dell’artista ha molte similitudine con la modalità di registrazione propri della fotografia, non tanto per la sua derivazione da uno scatto conservato nel proprio archivio, quanto invece per le dinamiche di campionamento che sono insite nel processo. L’immagine finale è infatti l’effetto di un prelievo di tempo, una testimonianza di una condizione passata, che è insieme la traccia di una presenza che è avvenuta, ma che si potrebbe presentare in forma analoga, non appena si verifichino le medesime condizioni (meteorologiche e di posizione del sole). Tale campionamento ha quindi plurime possibilità interpretative, a seconda che si prediligano gli aspetti di unicità o quelli di ripetitività: è insieme cioè tempo subìto e anticipato.


Un’ombra portata, che è intrinsecamente instabile ed impalpabile, è difficilmente classificabile dal punto di vista iconografico come un vero ed autonomo soggetto, poiché essa è solo l’effetto – la testimonianza – di qualcosa che è esistito, altrove. L’ombra portata prova cioè che gli oggetti e i manufatti esistono, che sono estesi e possiedono un volume la cui presenza determina delle aree con minore illuminazione rispetto a quella in cui la luce arriva in modo diretto. È una sorta di documentazione, un dispositivo concettuale comune indistintamente a tutti i corpi che garantisce che qualcosa esiste, pur non possedendo i requisiti standard del soggetto.
L’ordinaria classificazione che contrappone figurazione e immagine aniconica risulta in questo caso totalmente priva di significato. Quello scelto dall’artista è a tutti gli effetti un anti-soggetto – ossia un soggetto inconsapevole, nascosto ed elusivo – simile ad un seme di una pianta ignota che il vento ci ha portato casualmente in mano, e che pianteremo nel terreno senza sapere da quale pianta provenga. In questo continuo tentativo di mostrare quello che è transitoria proiezione (l’ombra) celando del tutto ciò che esiste (il corpo che la produce), l’opera di Marchetti Lamera porta al massimo grado le possibilità dell’arte di generare contenuto visivo rielaborando in forma eversiva gli stimoli fenomenologici che provengono dalla realtà.
Le ombre, private di ogni relazione con gli elementi primari che le hanno generate – come tralicci, architetture urbane ed industriali, alberi – sono infatti come dei morfemi che l’artista impiega e ricombina rispetto alle proprie necessità compositive. Ne escono dei brevi testi poetici, degli haiku costituiti da pochi versi e dai toni quasi ermetici, che condensano la complessità in poche parole. Le zone di confine tra le forme scure e il contesto sono sfumate, benché si possano cogliere delle forme elaborate, realizzate a grafite o con il colore. L’atmosfera è impalpabile e sospesa, permeata da malinconico struggimento: è come se le sue immagini fossero mappe di luoghi una volta vitali, ma che ora non esistono più, e dei quali è rimasta solo labile memoria nella testa canuta di un geografo ormai prossimo a soccombere alla vecchiaia.


Il disegno è il fondamento di tutta la pratica di Marchetti Lamera. Non solo per gli aspetti esplorativi propri di tale disciplina, ma perché è il medium centrale per elaborare e sintetizzare le immagini a partire dallo sterminato archivio fotografico che l’artista ha raccolto. Inoltre esso è fisicamente alla base di ogni opera, anche su tela: dopo la consueta preparazione l’artista realizza innanzitutto un disegno a grafite sulla superficie; solo successivamente, infatti, interviene con il colore. La memoria dell’ombra portata, che cronologicamente è avvenuta nel passato, nella sua pittura-disegno rivive quindi non solo come evocazione concettuale, ma anche come ineludibile base materiale. Ogni suo lavoro è infatti un disegno o lo è stato in forma momentanea. In quest’ultimo caso su di esso sono stati poi stesi svariati strati di colore allo scopo di moltiplicare e amplificare gli effetti della luce che colpisce l’opera. La pittura realizzata dall’artista – caratterizzata dall’impiego di campiture dalle minime oscillazioni cromatiche e da un’estrema liquidità del segno – conserva in questo modo anche la traccia di una memoria del medium che fisicamente l’ha preceduta, a cui accenna e allude. Questioni concettuali e tecniche vanno così di pari passo, in una continuità di particolare interesse.


Le immagini realizzate dall’artista raccolgono e fissano in una forma statica la scrittura che la luce fa e sono dotate di un’aura contemplativa vagamente mistica. È minimo l’alfabeto visivo impiegato, sono semplici ed essenziali le forme impiegate. Eppure in quella reale e disarmate semplicità è come si fossero asciugati la prosopopea e il rumore di tanta roboante stupefazione. Pare, quasi, non esserci spazio per altro, come se ciò che fosse transitorio fosse realmente transitato, mentre a rimanere è ciò che realmente è fondamentale trattenere e conservare. La figurazione e la realtà vengono così meno, sciolte nell’informe fluidità dell’ombra come neve al sole. Il tempo sembra liberato dalle ansie di avanzare e sostenere il cambiamento. La luce viene a diluirsi in segno e riflessione, in raggi ombrosi [3] che sono contraddizione che si addolcisce, stasi, quiete.
L’unica cosa a muoversi pare essere l’osservatore, che, inclina la testa, si muove lateralmente a piccoli passi per cogliere le differenze nei riverberi di luce, nelle riflessioni dei pigmenti stesi sulla superficie. Un po’ a destra, un po’ più a sinistra, muovendosi leggermente indietro per non rimanere abbagliato dalla luce del sole che si riflette su di un’ombra, che per altro il sole stesso ha prodotto. La luce infatti, che non è tenuta a non contraddirsi, può accecare lo sguardo se riflette il piccolo buio che essa ha creato su di un piano levigato. Gira gli occhi lo spettatore, che “vede spuntare un’ombra in lontananza crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire. […] Non si può osservare un’ombra senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa dà luogo. Questi aspetti variano continuamente, per cui un’ombra è sempre diversa da un’altra ombra; ma è anche vero che ogni ombra è uguale a un’altra ombra, anche se non immediatamente contigua o successiva.”[4].




[1] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Aforisma n. 341, Adelphi, Milano, 1977.
[2] Eraclito, frammento DK 22 B 91, in Giovanni Reale, I presocratici, Bompiani, Milano, 2006.
[3] L’espressione, che nei fatti un ossimoro, ricalca interamente il titolo di una serie di opere su carta dell’artista realizzate nel 2019.
[4] Le ultime righe del testo sono la trascrizione di un brano del primo capitolo di Palomar, scritto da Italo Calvino (Einaudi, Torino, 1983), in cui ho sostituito la parola «onda» con «ombra». È un riadattamento poetico, spero non percepito come irriverente, di un testo perfetto e per alcuni spetti sacro. Chiedo venia al lettore e al gigante Calvino.

Superficial

Superficial
Tiziano Martini, Alberto Scodro, Eugenia Vanni

Verona (I), Studio La Città
febbraio ― marzo 2016

La superficie come medium
Daniele Capra




Sostanza e apparenza, cioè profondità e superficie. È frequente dibattersi tra questi due estremi, sin dalla nostra infanzia, quando persone più grandi e più autorevoli di noi ci ammoniscono a scoprire ciò che sta lontano dai nostri occhi, che giace ad un livello non istantaneamente visibile. Per l’uomo occidentale andare in profondità convoglia indiscutibilmente dei significati ulteriori rispetto al fidarsi del proprio sguardo, alla probabilmente fallace visione frutto dei sensi, la cui capacità di indagine rispetto il mondo è troppo poco stimata e abbassata al rango di sensazione.

A questa modalità di lettura hanno contribuito evidentemente vari fattori. Innanzitutto (1) la concezione morale ascetica del mondo antico mirata al controllo o al rifiuto del piacere – propria di molta filosofia della tradizione greco-romana e giudaico-cristiana – che porta al dubbio o al rifiuto degli stimoli, anche conoscitivi, che provengono dai sensi. Poi (2) la tradizione cristiana medievale la quale, seppur con varie sfumature nelle sue diverse articolazioni, ha ereditato dal mondo antico la condanna al piacere sensibile, poiché non finalizzata alla ricerca dell’elemento spirituale e divino. (3) Ultima, ma non per importanza, la tradizione filosofica e scientifica che deriva da Cartesio, e di cui inevitabilmente siamo figli, che ha praticato uno stretto dualismo opponendo res cogitans a res extensa, con una netta predilezione gnoseologica per l’aspetto cognitivo mentale a quello materiale dei sensi. Ad una lettura più accorta, la (disprezzabile) supposta superficialità dei sensi ci conduce così ad un imbuto di carattere etico, suggerendo come sia auspicabile fidarsi della propria mente e di ciò che è prodotto dalla logica anziché dubitare dei sensi. E tale precetto, che affida alla mente il primato conoscitivo, è anche uno dei presupposti che stanno alla base del «cogito ergo sum», la cui portata è andata ben al di là delle disquisizioni tra filosofi.

L’azione combinata di questi fattori ci ha portato a considerare il dualismo profondità/superficie in favore del primo elemento, trascurando le potenzialità dell’ultimo. Risulta invece particolarmente significativo non considerare la superficie in opposizione alla sostanza, a ciò che realmente caratterizza un oggetto, come se, in ultima istanza, quella esterna fosse la parte meno importante e nobile di un manufatto o la meno stimolante di un processo. Se frequentemente la superficie viene letta come tentativo furbesco di catturare l’attenzione e lo sguardo di chi non è nella condizione di possedere gli strumenti per leggere un fenomeno, per entrarne realmente in profondità, tale approccio conduce a considerare la superficie come area non degna di interesse, poiché parte di rilevanza esclusivamente cosmetica; incapace cioè di andare oltre una ricercata, ruffiana, piacevolezza. Al contrario si consideri le capacità che essa possiede di portare informazioni di rilievo di carattere non meramente utilitaristico, quali ad esempio la storia di un materiale, le sua qualità chimico-fisiche o tattili, l’uso che ne è stato fatto, al pari a quanto può accadere ad una roccia analizzata da un geologo. Si scopriranno così, come evidenzia Giuliana Bruno in un recente saggio mirato ad analizzare le dinamiche di superficialità [*], il suo essere mezzo, aspetto «che rimanda alla sua condizione di medietà e alla qualità del divenire, come un elemento connettivo, diffuso o avvolgente. Come materia che avviluppa consentendo che le impressioni siano conferite ai sensi, un medium è una vivida espressione del contesto, la sua trasmissione e la sua memoria».

Le opere di Superficial mirano a superare tale l’approccio manicheo proprio della nostra cultura raccontando come la superficie possa essere l’oggetto della ricerca artistica o quanto meno il campo di battaglia dentro cui l’artista si muove. Ricorrendo a modalità processuali e pittoriche, a dinamiche di ordine concettuale, all’azione chimica, cromatica, termica, la superficie diventa infatti essa stessa medium, che può assurgere nel contempo ad essere obbiettivo e metafora della pratica artistica, ma anche meta-narrazione che ne spiega ed argomenta le ragioni. Il vitale e incessante lavoro sulla/della superficie è così il diario ultimo di una metamorfosi che avviene grazie al pensiero e alla mano dell’artista, capace di proporre vie alternative per superare l’impasse, di controllare le variabili ambientali, di sfruttare a proprio vantaggio casualità imprevedibili. Nel suo dipanarsi materico, la superficie è così la ragione d’essere della ricerca artistica, il centro di un’azione che produce e registra sulla propria materia uno slittamento di senso, un accadimento, uno spostamento, un trapasso. Trasformazioni che conviene cogliere non solo con lo sguardo.

Tiziano Martini
Tiziano Martini mette in pratica una pittura esplorativa in cui la funzione del colore è accessoria rispetto al piacere esecutivo dell’artista, alla realizzazione manuale dell’opera. I lavori Untitled presentati in galleria sono infatti caratterizzati da un continuo e rigoroso aspetto processuale in cui si alternano azione ed attesa, tentativo e verifica del risultato. L’artista sovrappone sulla tela differenti livelli di pigmenti acrilici, direttamente con il pennello o più frequentemente attraverso l’uso di monotipi, di matrici che, opportunamente colorate, consentono alla materia pittorica di stratificarsi come successive impronte. La tela trattiene così elementi casuali, lo sporco dello studio o i residui di opere precedenti, che diventano variabili aleatorie che l’artista usa/dispone liberamente, in una continua improvvisazione jazzistica.

Alberto Scodro
La pratica artistica di Alberto Scodro è caratterizzata da un doppio filone di indagine: uno rivolto all’architettura degli spazi, rispetto ai quali egli scova ed evidenzia linee di forza e aspetti di tensione ideale, l’altro verso la materia stessa, che ama interrogare e mettere alla prova nelle sue proprietà alla ricerca dei suoi limiti d’utilizzo. Nella serie Autumn egli sviluppa una ricerca in cui vengono analizzate le capacità generative che nascono dalla mescolanza di elementi differenti, quali sabbia, vetro, ossidi. L’artista indaga infatti le possibilità combinatorie della materia cuocendo ad elevata temperatura in forno industriale materie prime di diversa origine, che subiscono un processo chimico-fisico simile alla vetrificazione. Scodro realizza così delle sculture alchemiche da parete, lastre in cui la superficie è ruvida come la roccia, ma fragile e colorata come la porcellana.

Eugenia Vanni
La ricerca artistica di Eugenia Vanni è caratterizzata da una pratica concettuale poliedrica, che declina con modalità e media differenti, spaziando agilmente dalla pittura all’installazione. L’artista impiega frequentemente, risemantizzandole ed attualizzandole, tecniche pittoriche della tradizione italiana del Quattrocento e Cinquecento. Nei dittici Ritratto l’uno dell’altro Vanni esplora concettualmente le potenzialità mimetiche della pittura fino a giungere agli esiti più estremi. Grazie all’utilizzo dell’olio e di differenti ricette di imprimitura della tela, l’artista arriva a ritrarre su lino l’immagine del tessuto di cotone e viceversa. Ne esce così un doppio ritratto, essenzialmente meta-pittorico, in cui il soggetto è la pittura nella sua essenza materiale/materica, il suo essere palinsesto che accoglie l’immagine potenziale dell’altro. In un chiasmo logico ciascun elemento del dittico è così negazione della propria identità e nel contempo rappresentazione del suo contrario.




[*] G. Bruno, Surface: Matters of Aaestetics, Materiality and Media, The University of Chicago Press, London, 2014, p. 6.

Michele Spanghero. Exhibition rooms

Michele Spanghero
Exhibition Rooms

Verona, Artericambi
febbraio ― marzo 2010

L’auspicabile miopia
Daniele Capra




Molto spesso organizzare una mostra è come ospitare molte mostre dentro le mostre, un po’ come delle Matrioska. Ogni mostra può nasconderne un’altra.
Hans-Ulrich Obrist, Connective Possibilities


Quando si mostra il cielo con un dito lo sciocco guarda, e di conseguenza vede, il dito. Questo è quello che ci hanno raccontato sin da bambini, stimolandoci a fare l’esatto opposto. Parimenti anche il metodo scientifico ci indica come sia necessario riconoscere l’oggetto della nostra analisi e quali siano gli aspetti da prendere in considerazione, usando intelligenza e soprattutto strumenti di analisi e misura per accertare. È un aspetto cioè metodologico, dato che – per formulare delle ipotesi, per capire oltre le apparenze – è necessario saper dove guardare.

Capita così anche in occasione di una visita ad una mostra di arte contemporanea, tanto negli spazi pubblici quanto in una galleria: quando entriamo in un luogo in cui sappiamo esserci una mostra ricerchiamo prima di tutto le opere che contiene. Indipendentemente dal fatto che siano autonome, cioè semplicemente collocate nel posto perché trasportate da altrove, o realizzazioni site specific, è il soggetto contenuto nello spazio ad attirare la nostra attenzione (anche nel caso in cui si tratti di un’opera sostanzialmente immateriale come può essere un lavoro di sound art, o nella situazione limite di una performance, dove l’opera è frutto dell’accadimento). La fonte primaria di interesse è cioè nei riguardi di quello che sta dentro, in ciò che avviene nel contenitore.

Benché nell’ultimo decennio si sia registrata una certa propensione, talvolta manifestamente enfatica, in allestimenti volutamente alternativi delle mostre (spaziando da soluzioni molto raffinate a vera e propria sciatteria), il white cube è ancora considerato il modello di contenitore di riferimento: l’ambiente bianco infatti garantisce, come nessun altro, un tipo di esperienza sensoriale assoluta. Scrive Brian O’Doherty in una raccolta di saggi: «la galleria ideale elimina dall’opera tutti gli elementi accidentali che interferiscono con il fatto di essere ‘arte’. L’opera è isolata da qualsiasi aspetto che possa distogliere dalla sua stessa valutazione artistica. Questo conferisce allo spazio una caratteristica che è propria di altri spazi in cui le consuetudini sono preservate grazie alla ripetizione di un sistema chiuso di valori. Un po’ della sacralità di una chiesa, la formalità di una corte di tribunale, l’arcano di un laboratorio sperimentale convivono con un design chic per creare una camera per l’esperienza estetica» [1].

L’analisi che Michele Spanghero sta portando avanti da più anni sui luoghi espositivi nasce invece dalla concomitante volontà di guardare il dito e non il cielo, ma anche di mostrare quanta differenza si registri tra i modelli concettuali e la realtà. L’artista ha compiuto una vera e propria ricognizione degli spazi espositivi dell’Italia e dell’Europa centro orientale (musei, kunsthalle, gallerie e fiere) alla ricerca tanto degli elementi di omologazione quanto quelli di discontinuità dei siti, rivelando aspetti contingenti cui solitamente non si presta attenzione. In questo modo si scopre come l’impiego del white cube ammetta eccezioni e molte differenti declinazioni rispetto al modello assoluto che si crederebbe inderogabile.

L’aspetto fondamentale di questa indagine è il capovolgimento del ruolo funzionale e, inaspettatamente, del potere e del vincolo di soggezione (visivo, culturale, estetico) che alimenta la gerarchia opera/luogo. Mostrando ed esibendo manifestamente non tanto pavimenti e pezzi di muro bensì porzioni e ritagli di recipienti, essi stessi cessano di essere afasici contenitori di vuoto ed iniziano a bisbigliare, a mostrare inaspettatamente crepe, irregolarità e variazioni della gamma dei bianchi cui non siamo soliti prestare attenzione. In questo l’artista compie un gesto di insubordinazione rispetto alla logica standardizzata in cui i ruoli sono assegnati ed il copione non permette cambi di parte, nemmeno all’ultimo minuto. Spanghero non sceglie così dei nuovi soggetti, non implementa cioè la lista di possibili cose da guardare, ma spoglia gli spazi delle opere: le manda letteralmente in soffitta, ignorandole. È infatti il microcosmo che noi siamo abituati a considerare cornice ad essere fotografato. Le opere, quelle che già godono dello status privilegiato di essere pezzi d’arte, e che sono collocate sulle pareti o appoggiate sul pavimento alle spalle dell’artista, non ci sono, latitano, e nemmeno a quel punto vale la pena di tendere l’orecchio per sentire se tacciono in forma definitiva.

La ricognizione di tutti questi spazi – sono qualche centinaio le foto scattate dall’artista goriziano – porta a termine un interessante lavoro processuale di compressione visiva che non lascia spazio ad interpretazioni di natura percettiva, benché non manchino dei risvolti cromatici interessanti che potrebbero inserire le fotografie nell’alveo del minimalismo. Ma, come ricorda Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti [2], l’attività reiterata del collezionare, di raccogliere oggetti e concetti con un criterio riconoscibile o in grado di formare una relazione di vicinanza logica, ha per conseguenza il controllo ed il dominio dello spazio e del tempo. L’azione dell’artista di documentare porzioni di contenitori che risultano vuoti o svuotati, lo trascina inevitabilmente ai limiti delle possibilità rappresentative dello strumento fotografico, ma lo mette nel contempo nella posizione privilegiata di essere riuscito a documentare e dominare un processo. Risulta in questo modo forte la tensione analitica dell’operazione nell’essere causticamente ripetitiva; inoltre l’attrito concettuale tra la fotografia di una serie di non-soggetti (i white cube di Exhibiton Rooms) e la loro evidente riconoscibilità (in quanto pareti e pavimenti) rende la frizione gelidamente tagliente. La magia però talvolta – come capita in Amarcord quando la nebbia avvolge la città di Rimini – è non vedere distintamente e lontano, ma poter scoprire a tentoni.




[1] B. O’Doherty, Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space, University of California Press, Berkeley, 1986, p. 14.
[2] J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Milano, Bompiani, 1972-2004, p. 122.