Adelisa Selimbašić
Perché è così difficile dichiararsi?

Galleria Ipercubo, Milano
novembre 2023 — gennaio 2024

Strade da non dimenticare
In conversazione con Adelisa Selimbašić

A cura di Daniele Capra




Daniele Capra: Ci conosciamo dai tempi in cui frequentavi l’Accademia di Belle Arti di Venezia e ti ho visto sempre e solo dipingere. I primi soggetti erano paesaggi fluidi senza tanti particolari, poi nei tuoi lavori è comparsa la figura umana. All’inizio quasi sempre bambini, in posizioni di gioco pericolose o ambigue, e successivamente corpi di donna. Cosa ti ha spinto in questa direzione?

Adelisa Selimbašić: Il mio lavoro procede in modo molto istintivo e spontaneo. Immagino infatti il mio processo pittorico come una conversazione con la tela. I soggetti che rappresento sono il frutto di questa conversazione, in un bilanciamento tra le mie volontà e i suggerimenti che lo stesso lavoro mi da. Quindi anche i soggetti sono semplicemente dettati dagli interessi che ho e da come mutano. Non si tratta di un cambio di rotta repentino, ma di un processo graduale. Non cerco di forzare la rappresentazione, ma di assecondarla alle esigenze che via via emergono.

DC: Nei lavori degli ultimi anni abbiamo assistito alla rimozione dello sfondo a favore del solo soggetto. La figura è generica, decontestualizzata, senza un’identità fisiognomica, aspetto che già era presente nei bambini che dipingevi nel passato. Perché rimuovere l’ambiente? Perché cancellare l’identità di ciascuna donna?

AS: Non penso di aver rimosso l’ambiente, ma di averlo semplificato. Grazie all’uso intenzionale di specifici colori e soluzioni tonali cerco di dare una serie di informazioni che portano a immaginare lo spazio e il tempo in cui le rappresentazioni stanno avvenendo, pur mantenendo sempre una dimensione sospesa. La mia ricerca è legata anche all’ambiguità, che permette al lavoro di essere sempre aperto alle diverse letture che dipendono dall’identità dell’osservatore. Considero l’identità un aspetto in continua evoluzione, ed è per questo che rimuovo l’identità fisionomica a favore di un’identità attitudinale. In particolare, sono affascinata e meravigliata da come ciascuno di noi decide di mostrarsi e di come l’esterno reagisce alle scelte. Penso che questa dinamica sia alla base delle relazioni, ma anche degli attriti che caratterizzano la nostra società.

DC: Nelle tue tele c’è il racconto di una situazione, ma non c’è mai un’indagine strettamente psicologica dei soggetti. I corpi che dipingi affollano la superficie e sono spesso ammassati, parte di una costruzione collettiva. Quali riflessioni ti portano a queste scelte?

AS: Penso al contrario che le pose e le relazioni che si creano in questo intreccio di corpi manifestino delle inclinazioni psicologiche. Ciò che evidenzio all’interno del mio lavoro, attraverso la composizione e il colore, è proprio il loro comportamento. Per esempio un corpo di schiena è diverso da un corpo girato verso lo spettatore, così come dei corpi che hanno un contatto fisico e altri che nemmeno si sfiorano. Si tratta di una costruzione consapevole, mirata a rappresentare specifiche situazioni individuali.

DC: Perché scegli di dipingere giovani donne che paiono felici, libere e disponibili a condividere la propria bellezza e la propria intimità con altre amiche, oltre che con lo spettatore?

AS: L’obiettivo è quello di creare all’interno dei lavori un mondo privo di giudizio, dove ciascun corpo è libero di essere ciò che è, indipendentemente dalle aspettative dell’altro. Raffigurare corpi generosi nel mostrarsi aiuta a riconoscersi nel proprio corpo e in quello dell’altro.

DC: Tu dipingi soprattutto donne. Siamo ora in un momento in cui sta crescendo la consapevolezza del patriarcato, ma è anche un momento in cui le donne sono sotto attacco. Come vivi questo frangente? Pensi che la tua pittura risenta di questa situazione, o, al contrario, ne è svincolata?

AS: Ora più che mai penso che il mio lavoro debba essere una testimonianza sincera di quello che sta accadendo nella nostra società. Per fare questo, mi affido al dialogo con più persone possibili, sia con coloro che sono già parte della mia vita che grazie a nuovi incontri. Questo scambio continuo porta anche a proteggere il mio lavoro da questo momento di estrema violenza.

DC: Come costruisci l’opera? Ti affidi a fotografie? Disegni ancora dei bozzetti preparatori, come una volta, o vai direttamente sulla tela?

AS: Vado direttamente sulla tela, senza disegni preparatori, che mi spingerebbero a chiudermi di fronte alle idee che il lavoro stesso suggerisce durante il processo creativo. Sono alla continua ricerca dell’errore, perché forza la mia mente a essere attiva di fronte a quello a cui sto lavorando.

DC: Sei una degli artisti dell’Atelier F, la “scuola veneziana” nata all’Accademia di Venezia grazie ai corsi di Carlo Di Raco, Martino Scavezzo e Miriam Pertegato. È una scuola sostanzialmente non stilistica, ma su base metodologica, cioè sulle modalità di condurre il lavoro. Che cos’è stata per te quest’esperienza?

AS: Sono estremamente grata all’Atelier F. Il periodo passato in Accademia a Venezia per me è stato fondamentale, sia dal punto di vista umano, che artistico. L’Atelier F mi ha insegnato l’importanza della comunità, della condivisione, dell’aiuto, del supporto, della costanza e della disciplina. Avere la possibilità quotidiana di lavorare con artisti di età ed esperienze diverse è raro, come quella di avere dei professori molto presenti. L’Atelier F è stato il primo a supportare il mio lavoro e a prendersene cura. Non smetterò mai di ringraziare i docenti e tutti gli artisti che ne sono parte.

DC: Anche quest’anno sei venuta a lavorare a Extra Ordinario, il workshop estivo che abbiamo tenuto a Vulcano. Perché è per te importante continuare a tenere vivo il tuo rapporto con le tue origini?

AS: Dopo svariato tempo in giro per il mondo, tornare a lavorare con gli artisti dell’Atelier F è stata una necessità. Produrre ed essere presente in un ambiente così artisticamente vivo e dinamico è fondamentale per alimentare e raffinare la propria ricerca. Il fatto di avere nuove generazioni di artisti che dipingono nel tuo stesso ambiente di lavoro è prezioso, poiché permette di riscoprire all’interno del proprio lavoro strade che l’esperienza, a volte, porta a dimenticare.