Alice Faloretti
Suspension of Disbelief
Roma, Francesca Antonini Artecontemporanea
novembre 2019 ― gennaio 2020
Suspension of Disbelief
Daniele Capra
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Nella storia della pittura il paesaggio diventa genere pienamente autonomo solo nel XVII secolo, benché non manchino antecedenti celebri in cui esso convive alla pari con altri soggetti di natura religiosa, allegorica o mitologica, come ad esempio è possibile osservare in Giotto o Giorgione, ma anche nelle opere di autori nordici quali Dürer o Bruegel il Vecchio. Come spiega Stoichita [1], nel Seicento la pittura di paesaggio ha contribuito a portare dentro le case una vista dell’esterno, essendo il quadro una sorta di finestra visiva e insieme concettuale rivolta verso il mondo, in particolare sul contesto urbano, ma anche sul mare o sulla natura selvaggia (tipologie che corrispondono alle tre varianti del genere). Tale aspetto fu di primaria importanza nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, dove la nuova ricca committenza borghese stimolò la produzione di immagini con questo soggetto [2]. Se col Romanticismo e con l’opera degli Impressionisti il paesaggio si caricò rispettivamente di valenze emotive e di ordine percettivo, solo dopo Van Gogh, l’urticante colorismo dei Fauves e il segno feroce del gruppo Die Brücke, esso perde le sue valenze mimetiche, ideali o simboliche per caricarsi invece di risvolti compiutamente psicologici. Con le avanguardie del Novecento si assiste infatti alla messa in discussione della modalità che si era consolidata nei secoli precedenti: il paesaggio dipinto cessa di riportare direttamente un ritaglio di realtà che sta altrove dal luogo in cui è conservata l’immagine, per veicolare agli occhi dell’osservatore il carattere, le forme, i pensieri, le inquietudini o il veleno che l’artista coglie, avverte e riversa violentemente verso l’esterno. Fatta deflagrare, senza più possibilità di ricomposizione, sia la funzione originale di mimesi che le finalità prettamente meditative dell’immagine come oggetto di contemplazione, il quadro di paesaggio traghetterà verso l’interno di una casa non più quello che è un placido “fuori”, che non si riesce a vedere dall’interno di un edificio, ma invece ciò che è un aspro “dentro”, e che ribolle nell’interiorità di un altro uomo. L’immagine-finestra si apre cioè su un burrone, ma pienamente umano, perché emotivo, psichico ed esistenziale.
Cornice
La pittura di Alice Faloretti eredita l’approccio nei confronti del paesaggio proprio delle avanguardie di inizio Novecento, sia iconograficamente, che per le questioni di natura intima ed emotiva. Il paesaggio è in realtà per l’artista un soggetto fittizio, una modalità operativa con cui formalizzare la pittura, che viene in questo modo vincolata a delle forme visive che l’osservatore ri-conosce. Infatti il paesaggio che l’artista dipinge non esiste in sé, poiché è un pastiche, il frutto cioè della combinazione di episodi iconografici differenti che l’artista trae da luoghi più diversi. È un’opera di invenzione, un paesaggio immaginario costituito da porzioni di paesaggio reale, abilmente ricomposte e amalgamate. Spunti realistici e istanze di ordine fantastico coesistono, poiché la pittura è per l’artista un tessuto connettivo che serve a mostrare e nascondere dettagli, a stimolare l’osservatore a interrogarsi o a indugiare su un particolare capace di catturare l’occhio.
Per Faloretti il paesaggio è essenzialmente un pretesto iconografico, una forma di display che consente all’artista di compiere un’indagine di ordine emotivo e psicologico grazie ad una narrazione intima, carica di elementi visivi enigmatici e stranianti, sovente resi in maniera cromaticamente antinaturalistica. Ma esso è anche pre-testo, perché è un tipo di scrittura (e di genere) preesistente, a partire dal quale Faloretti è nella condizione di sviluppare il proprio racconto, allontanandosi o avvicinandosi alle modalità convenzionalmente impiegate. Il ricorso alla figurazione – talvolta esplicita, in altri casi in forma liquida ed elusiva – è funzionale invece a fornire le coordinate topologiche entro cui l’osservatore può muoversi, cioè spazi d’azione dove il percorso dell’occhio può fermarsi a prendere fiato su qualcosa che risulta noto, conosciuto, classificabile. Il paesaggio è cioè, in ultima istanza, una cornice di senso dove l’artista può far accadere ciò che il proprio inconscio ritiene opportuno: il fantastico, l’inquietante, il surreale, l’onirico o il contraddittorio.
Sospensione
Il titolo della mostra Suspension of Disbelief fa riferimento alla celebre espressione impiegata dal poeta inglese Samuel Taylor Coleridge quando teorizza la necessità di costruire delle narrazioni dotate di “una parvenza di realtà sufficiente a fornire alle ombre dell’immaginazione una volontaria e momentanea sospensione del dubbio, la quale costituisce la fede nella poesia” [3]. Coleridge, tra i fondatori ideali del Romanticismo, spiega cioè come il testo poetico debba contenere degli elementi tali per cui il lettore possa perdersi nella finzione, accantonando momentaneamente le realistiche perplessità che potrebbero sorgere. Il senso della meraviglia, infatti, è reso possibile solo in presenza di una volontaria sospensione del dubbio.
Tale condizione psicologia è ricorrente nel lavoro di Faloretti, in cui l’osservatore è messo in una condizione di ambiguità percettiva, sia per le composizioni coraggiose e antirealistiche che per le soluzioni cromatiche ardite, al limite della verosimiglianza. I suoi lavori sono contraddistinti da un’atmosfera surreale in cui i colori e le forme degli elementi naturali sembrano l’esito di un’estensione dell’inconscio dell’artista, un’iperbolica trasfigurazione che va al di là di ciò che è ordinario attendersi. In questi frangenti la condizione di incertezza percettiva e il senso della meraviglia consentono all’osservatore di muoversi psichicamente altrove, in un mondo simultaneamente vicino e lontano dall’ordinario. In questo modo chi guarda può avvantaggiarsi di una doppia collocazione: quella del fruitore in carne ed ossa, dentro lo spazio fisico in cui l’opera è collocata, e quella dell’immaginario finzionale, proiettiva, mentale e impalpabile.
Verità che sfuggono
La complessa ricerca di Faloretti sul paesaggio – sui temi dell’ambiente selvatico, sull’inesausto cambiamento dell’ambiente, sulla relazione conflittuale tra elementi naturali e presenza antropica – testimonia come esso possa essere dotato delle medesime valenze psicologiche del ritratto. La carica introspettiva delle sue opere è tale da consentire all’artista di scavare nel soggetto mettendo l’osservatore nello stato di percepirne la forza vivida e la materia incandescente. Il paesaggio, sotto la sua pittura goduta e abile, pare accartocciarsi, rimescolarsi e dissolversi, per poi rinascere prendendo nuova forma, grazie al colore intenso e urticante.
In questo continuo processo, pittorico e metamorfico insieme, Faloretti riconfigura e reimmagina porzioni di mondo, con una visionarietà cui risulta impossibile sottrarsi. Chi guarda non può che fermarsi e stare in silenzio, come succede ne La ballata del vecchio marinaio [4] all’uomo che rimane stregato dagli occhi scintillanti del canuto lupo di mare. Ci sono verità immaginate, anche sulla tela, che sorprendentemente sfuggono alle verità del mondo.
[1] V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro, Il saggiatore, Milano, 1998.
[2] È significativo notare come negli stessi anni, e con le medesime modalità, si diffuse il genere della natura morta. Entrambi testimoniano lo spostamento del gusto verso un immaginario laico e, in qualche modo, domestico.
[3] S.T. Coleridge, Biographia literaria, cap. XIV.
[4] S.T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, a cura di R. Coronato, Marsilio, Venezia, 2018, p. 21.