Antonio Guiotto
L’ultimo degli stronzi

Marina Bastianello Gallery, Venezia Mestre
dicembre 2022 ― gennaio 2023

L’ultimo degli stronzi. In conversazione con l’artista
a cura di Daniele Capra




Daniele Capra: Ci conosciamo da molto tempo. Non saprei dire esattamente da quando, ma ricordo le tua personale da Perugi ArteContemporanea, la tua partecipazione a una delle mostre del ciclo Quotidiana a Padova e, forse, alla galleria A+A a Venezia. Ne è passata di acqua sotto i ponti, e la tua ricerca ha cambiato più volte direzione. Una volta il focus è sui modelli visivi e simbolici adottati dagli artisti, quelli che con un linguaggio informatico definiremmo template, un’altra sulla possibilità di usare in forma espressiva il linguaggio e le consuetudini che definiscono le funzioni (perdonami ma non saprei come altro definire l’uso distorto delle didascalie e delle descrizioni delle opere). Una volta esponi delle sculture con un interesse anche formale nei materiali e nei processi esecutivi, e qualche mese dopo in uno studio visit mi fai vedere dei video che, a primo acchito, non hanno né capo né coda in sé, ma corrispondono alle tue turbi adolescenziali: non hanno un referente e servono forse a dimostrarti che “anch’io, se voglio, posso fare la mia serie Cremaster”. È difficile mettere in fila le tue cose, ma forse il bello è proprio il fatto che unendo i punti del tuo percorso in tutti i modi possibili e con tutte le combinazioni che la topologia dei giochi rende possibile, escono alla fine delle immagini non del tutto riconoscibili. Assomigliano a qualcosa, ma non si capisce cosa siano esattamente. Hai quarantaquattro anni e ne hai passati più di venti da eccellente pongista. Fermiamoci un secondo. Chi è Antonio Guiotto? Forse tutto questo è frutto del caso? O hai deciso che la tua strategia è quella di non avere nessuna strategia comprensibile?

Antonio Guiotto: Sai cosa mi piace dell’essere un artista? Che posso fare quello che voglio, come voglio, dove voglio e, soprattutto, se lo voglio. Ma essere un artista per me non è sufficiente: io voglio essere Antonio Guiotto che fa l’artista, e solo nel momento in cui decido di farlo. Per il resto del tempo posso essere altro. Io sono uno stupido, e questo mi piace molto. Stupido viene dalla parola “stupore”. Mi stupisco di continuo, nel bene e nel male. Se qualcuno è maleducato, io mi stupisco, se è gentile, mi stupisco, se vedo un filo d’erba che spacca l’asfalto per venire fuori, io mi stupisco. Così, quando qualcuno mi dice che gli piace il mio lavoro, io mi stupisco. Ho passato la maggior parte della mia vita a tentare di togliermi di dosso il senso di colpa per non essere come dovrei e poter invece essere come vorrei. Poi ho capito una cosa: io quel senso di colpa, frutto forse della cultura cristiana, non posso togliermelo. Così non mi interessa essere riconoscibile: se volessi esserlo, lo sarei, non sarebbe difficile, ma quello che mi interessa, invece, è essere felice. Posso essere felice solo se faccio ciò che mi interessa, solo se mi incuriosisco, se cerco qualcosa, che poi però trovo. Nel momento in cui posso finalmente fare qualcosa solo per me perché mi dovrei limitare e fare quello che il mercato, il sistema o i collezionisti si aspettano da un artista? Dentro di noi ci sono molte personalità e mi appassionano tante cose. Non credo che sarei riuscito a raccontare tutto quello che ho dentro solo con il video, o solo con la scultura, o solo con un materiale…

DC: Avere uno stile ed essere riconoscibili non è però esattamente la stessa cosa. Avere uno stile, a mio avviso, è il frutto di una modalità espressiva stratificata giorno dopo giorno, a partire dalle forme di conduzione del lavoro: ha origine interna e si consolida verso l’esterno. Essere riconoscibili, invece, è l’esito del compiacimento nei confronti degli altri, della sicurezza di essere apprezzati: nasce dall’esterno e agisce verso l’interno. Tu hai più volte affermato di non essere riconoscibile per lo stile che adotti, ma io non la penso allo stesso modo. Dal mio punto di vista sei semplicemente un artista poli-stilista. Non tanto in chiave combinatoria, ma nel senso liquido della parola: semplicemente ti adegui al mutamento delle condizioni contestuali. E, anche, al tuo spontaneo intimo mènage intellettuale. Non penso sia un limite per te il fatto di non essere riconosciuto come l’autore di un’opera…

AG: La cosa non mi interessa. Non lo vedo come un limite. Sono consapevole che cambiare spesso modo di lavorare non giovi alla mia riconoscibilità. Il mercato vuole certezze, vuole puntare sui cavalli vincenti, quelli che vengono dati 2 a 1, oppure 3 a 1. Nessuno punta su quello che danno 20 a 1, ma quando punti su quel cavallo e quel cavallo vince, beh allora tutti stanno zitti. Io sto puntando su quel cavallo. Invece io cambio spesso processo creativo, stile, materiale, perché, alla fine dei conti, non mi voglio annoiare. E non voglio annoiare gli altri.

DC: La mostra che è testimoniata da questa pubblicazione è nata in modo funambolico, da uno spostamento di data, da una produzione di lavori differenti da quanto progettato originalmente e da un cambiamento in corso d’opera del concept. Niente è cioè stato realizzato come inizialmente immaginato, e, forse, la cosa più stimolante è proprio questo continuo smarrirsi e ritrovarsi. Il titolo L’ultimo degli stronzi lo abbiamo trovato in una delle nostre acrobatiche dissertazioni linguistiche, mentre cercavamo di ribaltare il senso comune delle parole alzando l’asticella dell’idiozia. L’espressione è di natura colloquiale e abitualmente si impiega con una negazione: “non essere l’ultimo degli stronzi” significa, infatti, avere un valore o un talento tale da non sfigurare a confronto con altri, o di potersi tranquillamente difendere in un determinato contesto per il livello raggiunto. Naturalmente il titolo della mostra è autoironico, poiché, in maniera ambigua e farsesca, se dici di essere l’ultimo degli stronzi evidentemente immagini di non esserlo. Dichiari palesemente di essere il contrario di ciò che è desiderabile. E forse menti sapendo di mentire…

AG: E questa è una cosa che mi piace. Dalle mie parti si dice: “tiente sempre sinque schei de mona in scarsea”, che letteralmente si traduce come “tieni sempre cinque monetine da stupido in tasca”, che è un invito a non fare il fenomeno, a non essere troppo presuntuoso. Ho sempre pensato che sia meglio stupire che deludere, perché se parti dicendo che sei il migliore e poi non riesci a reggere alle tue stesse aspettative, finirai per fare una figuraccia. Se invece parti un po’ in sordina, lasciandoti anche sottovalutare, nel momento in cui darai il massimo, lascerai tutti a bocca aperta. Ricordo che, quando studiavo all’Accademia di Belle Arti a Venezia, avevo realizzato un autoritratto in cui tenevo un cartello con data e firma. Il cartello diceva: “Non sono un artista”. Era il 2002 e frequentavo il corso di Fenomenologia delle arti contemporanee. Quando il docente Riccardo Caldura vide questo lavoro disse che, evidentemente, solo un artista poteva prendersi la libertà di definirsi non-artista. In generale non ho mai amato le persone troppo sofisticate o chi si prende troppo sul serio. Ho sempre preferito bluffare, come nel poker. Non puoi dire che hai una mano vincente…

DC: Penso comunque esista una grande differenza tra avere intellettualmente il dilemma di essere o non essere un artista – e analogamente quello di essere o non essere l’ultimo degli stronzi – o usare tale dubbio come strumento interrogativo rivolto all’esterno. Nel primo caso è il frutto di una viva inquietudine esistenziale e la domanda è, in buon sostanza, rivolta alla stessa persona che la formula: l’artista interroga se stesso, perché la questione lo scava, per mille differenti ragioni, nella sua intimità, nel suo quotidiano, nelle sue relazioni o condizioni economiche, cioè negli aspetti meno esibiti o esibibili del suo essere persona. È cioè un dubbio che potremmo definire introverso, frutto di un’angoscia dell’individuo. Nel secondo caso, invece, il dilemma è tutto rivolto all’osservatore e ai vari soggetti che costituiscono il sistema dell’arte, ed è in qualche modo una forma di institutional critique in forma squisitamente personale: il dubbio è un dispositivo grazie a cui si chiede agli altri se il soggetto che pone la questione possa qualificarsi come artista o meno. È cioè un dubbio estroverso, perché mette sotto esame le reazioni dell’altro, del ricevente. Penso che la personale L’ultimo degli stronzi, in cui ossessivamente ricerchi e mostri un equivalente economico tra il tuo tempo lavorativo e quello creativo, nasca piuttosto da un aspetto personale, dalla necessità di doversi muovere in più ambiti professionali anche per far fronte alle necessità economiche che tutti abbiamo. Mi sono confrontato con il nostro amico Matteo Attruia sulla mostra e il suo commento è stato come al solito fulminante: “Ma ha ancora questo dubbio che gli rode dentro? Ma perché non fa lo scultore, che è bravo?”. Io ho risposto che, in fin dei conti, la mostra era una terapia pubblica rispetto alle tue inquietudini. Ma che ne pensi? Perché non hai immaginato di fare una mostra di scultura come suggeriva Attruia?

AG: Matteo è un caro amico, è un collega che stimo tantissimo, ogni confronto con lui è sempre costruttivo. Comunque non so se Matteo abbia capito il vero motivo di questo progetto. Chiaro è, per me, che non ho dei dubbi sul mio ruolo come artista o come professionista. Francamente non ho neanche delle inquietudini, anche perché ho passato la fase da giovane Werther: niente di tutto questo mi rode dentro, ma è molto divertente lasciare intendere che non sia così. Di sicuro la scultura è il mio grande amore e su questo Attruia ha ragione. Ho iniziato con l‘argilla e con il gesso, quando ancora ero un ragazzino, tuttavia, non riuscirei a fare solo sculture: ci sono tante cose da dire e non tutto può essere raccontato con un solo mezzo espressivo.

DC: Penso che nel tuo caso la scelta del medium espressivo sia più in funzione dell’idea che non del lavoro sulla materia. I tuoi lavori sono, a mio avviso, il frutto di un pensiero laterale che nasce in modo inatteso, di deviazioni e capriole, più che di una pratica vera e propria da studio. Possiamo dire che forse non sei uno scultore puro, ma un artista che re-agisce quando la follia bussa. A quel punto apri la porta dello studio e ti metti a fare cose strane…

AG: A dirla tutta in questo momento non ho nemmeno uno studio in cui poter fare certi lavori, per cui rimane sempre valido il motto che ho usato come titolo della mia personale, a TRA, del 2019: Improvvisare, adattarsi e raggiungere lo scopo. Mi adeguo, quindi, con nuove modalità di lavorare. Comunque sono consapevole che se mi dedicassi solo alla scultura, probabilmente, sarebbe forse più semplice incontrare una certa riconoscibilità. Ma, come dicevo prima, non è il motivo principale per cui faccio arte. Mi capita spesso che le persone mi riconoscano di più in uno degli altri mezzi espressivi. Qualcuno mi dice che, quando uso l’ironia nei miei lavori, sono più credibile. Altri prediligono la serie di foto con i titoli lunghi. Altri ancora suggeriscono invece che dovrei continuare a lavorare sulle stratificazioni. Nella varietà accontento più persone e, soprattutto, sono contento io. Ma prima di tutto, e sono sicuro di passare per romantico, ogni opera nasce da una necessità, come mangiare, dormire o amare.

DC: La mostra L’ultimo degli stronzi è costituita da opere oggettuali, realizzate combinando attrezzi e strumenti da lavoro e monete, foto documentative dei tuoi cataloghi, la rivista R. Mutt Magazine, fotografie da curriculum in cui sei vestito da candidato ideale e inoltre affissioni sugli spazi pubblici della città, sui quali campeggia la tua foto. Non so quanto consapevolmente, ma a mente fredda l’impressione è quella che stia oscillando tra l’insicurezza e l’egocentrismo. Un po’ come un timido che si sente in obbligo di parlare di continuo poiché, quando è insieme ad altre persone, teme il silenzio. Ovviamente però il tuo atteggiamento è (auto)ironico, aspetto che dà al progetto un tono curioso, quasi surreale…

AG: Considero una mostra come questa alla stregua di un film: ogni elemento oggettuale, il modo in cui verrà istallato, l’idea di fondo, le riflessioni, il catalogo, il progetto grafico etc., sono tutte parti integranti del progetto. Nella mostra, anche se ogni lavoro può essere estrapolato e vivere singolarmente, va considerato come un elemento di un’unica opera. Una sorta di Gesamtkunswerk. Il progetto è stato costruito, spero, con grande lucidità, lavorando sul concetto di base e riflettendo/scherzando sul fatto che sono in un limbo tra professionismo e dilettantismo. In generale mi spaventa di più sapere di essere capito al primo sguardo, che rischiare di essere frainteso. Per entrare in connessione con un’opera o con un artista è necessario capire che ogni opera è come un iceberg, e che quindi nasconde la maggior parte del suo intento e del suo significato in un substrato da far emergere. Se non lo è evidentemente non è interessante. Sarebbe di natura retinica, pura decorazione da salotto. E questo, sinceramente, non mi interessa.

DC: A mio avviso un’opera è un campo del possibile, e, come aveva spiega Umberto Eco in un celebre saggio, è tanto più “aperta” quando più ha la possibilità di essere letta in modalità diverse senza perdere la propria identità sostanziale/riconoscibile. Immagino che per te – che sei naturalmente portato a costruire interconnessioni tra i fenomeni in modo imprevedibile, se non proprio bizzarro – l’opera sia l’esito di un processo personalissimo, che agli altri può sembrare arbitrario e probabilmente inverosimile. Infatti, a ben guardare, è proprio l’improbabile la tua cifra stilistica, per l’anarchia associativa che origina l’opera, ma anche per il percorso compiuto verso la formalizzazione dell’idea originaria. Sovente, nella tua pratica, fino all’ultimo momento l’opera non viene del tutto definita con precisione, ma è un itinerario aperto che si presta a negoziazioni e continui ripensamenti. Col rischio di non venire inchiodata e di essere in un limbo. Non trovi che queste modalità di lavoro così libere potrebbero portarti a perdere tempo o a smarrirti?

AG: Ti rispondo usando il titolo di un bellissimo libro di David Lynch, pubblicato da Minimum Fax: Perdersi è meraviglioso. Non esiste per me altra pratica se non quella del funambolismo, della procrastinazione, in cui fino all’ultimo credo che non riuscirò a finire. Per me questa riflessione e questa consapevolezza sono la parte fondamentale del mio lavoro. Ad esempio ci sono artisti che sono jazzisti poiché hanno la capacità di improvvisare. Nel jazz, però, improvvisare non è andare a caso, ma seguire una serie di schemi che ti permettono di creare delle variazioni su un tema, senza ripetersi mai. Io, invece, mi sento più un compositore. Sia chiaro che adoro il jazz e gli artisti che usano quell’approccio, ma io ho altri criteri. E poi, come diceva mio padre, “misura due volte e taglia una volta sola”.

DC: Ma non pensi che questa modalità in cui te la prendi comoda, in cui non sei mai preparato o corrispondente ai requisiti fino in fondo, possa farti perdere delle occasioni, essere escluso o mal tollerato? Non rischi di essere percepito come un cazzaro, o uno che fa un po’ troppo l’artista? Perché non solo è importante tagliare bene dopo aver preso le misure due volte, ma bisogna anche tagliare non un’area a caso, ma quello che si viene invitati a tagliare. E, poi, consegnare la parte tagliata in un tempo ragionevole… Non pensi che libertà debba anche essere in qualche modo soggetta a un vincolo? Che ci debba cioè essere un compromesso con gli altri attori del sistema dell’arte o del mondo del lavoro?

AG: Certo che lo penso. E infatti non credo che sia una descrizione che mi riguardi. Se la consegna è, per fare un esempio, venerdì alle 10:30 del mattino, stai sicuro che consegno in tempo. Sia chiaro che non sono sempre stato così. Quand’ero un giovane artista, sicuramente mi sono preso molte libertà, motivate dall’inesperienza. Ho pagato tutti gli errori grossolani che ho commesso. Ora, invece, non va confusa la mia tranquillità e la mia tendenza a procrastinare con un atteggiamento, per usare parole tue, da cazzaro: non sono un cialtrone! E comunque non credo nel motto “meglio fatto, che perfetto”. E con questo non voglio dire che, per raggiungere quello che ritengo ottimale, possa o debba prendermi tutto il tempo che voglio. Per esempio quando devo fare un allestimento in una mostra collettiva, stai sicuro che sono il primo a finire, questo perché ho cercato di pianificare il lavoro in modo dettagliato riflettendo sugli eventuali imprevisti. Non mi sono mai atteggiato a fare l’artista e sfido chiunque a dire il contrario. Se me la prendo comoda è perché questo mestiere mi deve far star bene. L’emozione o l’agitazione le lascio al il giorno dell’inaugurazione, che è sempre il momento più difficile.

DC: E come sarà vedere il tuo faccione sorridente, prima ancora che cominci la mostra nella sede della galleria, sui manifesti in giro per Mestre? La foto è simile a quella che si usa nei curriculum standard o si vede in molti profili Linkedin, in camicia bianca e giacca gessata. Sembri un candidato per un lavoro da impiegato di alto livello o da manager: volto pulito, barbara rasata, capelli in ordine, senza fronzoli o accessori appariscenti. Non sei cioè vestito secondo uno standard che siamo soliti immaginare per un creativo o un artista. Un aspirante lavoratore che si presenta bene, a parte la frase che contraddice tale certezza…

AG: Beh pensa a Jannis Kounellis o René Magritte, meglio ancora, pensa a Jeff Koons, che si presenta sempre vestito come un broker della Borsa di New York, mondo da cui viene. Non voglio scadere nella banalità del detto “l’abito non fa il monaco”, ma, ormai, l’ho fatto. Comunque sia, mi diverte l’idea di creare un corto circuito. Mi intriga riuscire a mettere le persone che vedono il mio lavoro di fronte a un dilemma o insinuare un dubbio se quello che vedono sia reale o no, e non solo in questo caso. Mi riferisco, ad esempio, alla serie Non con poche parole, in cui ogni immagine ha una didascalia con un titolo più grande dell’immagine esposta. O alla mostra che abbiamo fatto assieme al Museo Civico di Bassano nel 2019, con le schede di lettura di alcune opere della collezione assurde ma verosimili, e i ritratti dei mecenati in stile canoviano. Come pure la rivista che chi ci legge ha in mano, in cui tutto sembra assolutamente autentico. Per citare un film di Orson Welles, It’s all true. Ma forse anche no…

DC: R. Mutt Magazine, pensata a corredo della mostra, è essa stessa un’opera d’arte, di natura forse più relazionale. È una pubblicazione Arlecchino, per la quale hai chiesto a tante persone con cui hai avuto relazioni professionali, in ambito artistico, di scrivere liberamente qualcosa su di te e il tuo lavoro. In questo modo ti sei costruito un abito su misura. Che importanza ha avuto per te raccogliere e leggere gli interventi degli altri? E quali sensazioni hai avuto nel constatare che molti ti hanno ripagato con la stessa moneta dell’ironia e della presa per i fondelli? Che sono poi aspetti che caratterizzano, per esempio, i tuoi interventi di natura letteraria o anche gli strampalati titoli delle tue opere…

AG: Visto che non sono state molte le occasioni in cui mi hanno dedicato un articolo, ho pensato che il modo migliore per colmare questa mancanza fosse creare una rivista monografica su di me, che ovviamente ha senso solo ed esclusivamente in questa occasione. Chi non mi conosce può pensare a un atto autocelebrativo spinto da megalomania, ma se fosse così sarebbe una cosa ridicola e triste, anche se, devo ammettere, mi diverte pensare che qualcuno ci cascherà. Sono felice che le persone che hanno accettato di contribuire a questo progetto ne abbiano colto il senso, e sono rimasto sorpreso perché, al di là della presa per i fondelli, ho trovato molto affetto e stima. Ciascuno può affermare liberamente di essere un artista, ma senza una testimonianza o una conferma da parte di una persona diversa, non esisti. Come artista, essere ed esistere sono due aspetti che necessitano di consapevolezza personale e complicità altrui.