Atelier F. Una nuova scuola di pittura veneziana
saggio, In Pittura oggi. Da Emilio Vedova alle ultime tendenze
Annuario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia
Laterza, novembre 2022
ISBN 9788858148457
Una nuova scuola di pittura veneziana
Daniele Capra
Premessa
Questo contributo si propone di fare un’analisi dell’attività svolta dall’Atelier F maturata in seno all’Accademia di Belle Arti di Venezia, essenzialmente tra la seconda metà degli anni Novanta e il primo ventennio del nuovo secolo. È un’iniziale esplorazione, naturalmente incompleta, in cui per la prima volta viene proposta una lettura in forma organica e collettiva di tale esperienza non comune, e in particolare sul complesso di vicende formative, metodologiche, espressive e relazionali che costituiscono l’Atelier F, che spesso sfuggono le categorizzazioni. Negli anni non sono mancate delle analisi sull’attività svolta da alcuni dei suoi protagonisti, condotte da parte di riviste di settore e testate on-line che si occupano di Arte Contemporanea, con un focus essenzialmente sull’opera dei singoli artisti che hanno avuto più riscontro nell’attività espositiva presso musei, istituzioni o gallerie. Vanno segnalati, però, il libro fotografico di Nico Covre Extra Ordinario Mixtape [1] (che ospita una conversazione tra Carlo Di Raco, Paolo Pretolani e chi scrive) e il documentario Extra Ordinario [2], di Nico Covre e di chi scrive, realizzati in occasione del workshop omonimo ospitato presso Vulcano Agency, che, pur focalizzati a documentare l’esperienza del lavoro laboratoriale, in maniera laterale raccontano i rapporti e le modalità con cui opera tale organismo.
Questo scritto prende quindi in considerazione l’azione complessiva del “sistema” Atelier F, ossia l’articolata struttura di relazioni tra le sue parti e, insieme, l’attività di ricerca artistica che ne è scaturita, con riguardo alla possibile definizione di una vera e propria scuola veneziana, costituita essenzialmente non tanto su basi stilistiche, ma su natura metodologica. Nel complesso va poi sottolineato che l’ampiezza di oltre un ventennio di attività, la vitalità delle persone coinvolte, ma anche il continuo evolversi delle relazioni tra gli stessi protagonisti, difficilmente potranno restituire in questo contributo un’immagine sempre a fuoco sui tanti elementi che caratterizzano l’attività dell’Atelier F.
Se, come già detto, tale proposito si scontra di fatto con una scarsità di fonti documentali, va d’altro canto sottolineata la possibilità – rischiosa ma stimolante – del confronto personale diretto con i protagonisti delle vicende. È inoltre fondamentale sottolineare che chi scrive è legato da stima, amicizia e relazioni professionali con molte delle persone presenti nel saggio, quindi la difficoltà è doppia. Non solo si tratta, quindi, di realizzare una foto in un ambiente caotico mentre molti dei soggetti si muovono, ma lo stesso autore dello scatto potrebbe avere, per qualche ragione, la mano non salda quanto servirebbe. Aspetto che, una volta in più, porta a considerare come auspicabili ulteriori approfondimenti.
La scoperta di un’identità
L’esperienza dell’Atelier F muove i primi passi nella seconda metà degli anni Novanta presso il corso di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, a partire dall’attività di docenza svolta principalmente da Carlo Di Raco (che ha iniziato a insegnare nella città lagunare nel 1994), al quale si affiancheranno per un lungo periodo di tempo i colleghi Luciano Zarotti, Martino Scavezzon e Miriam Pertegato, mentre Teresa Iaria e Laura Valle contribuiranno al corso esclusivamente per un biennio [3]. Sono quegli anni un periodo di passaggio per l’Accademia, in cui da una parte si spegne la carica che derivava da insegnanti storicamente consolidati come Emilio Vedova e Carmelo Zotti, e, dall’altra, si assiste a una continua trasformazione, a ogni livello, delle principali istituzioni artistiche veneziane (dalla Biennale ai Musei Civici, dalla Collezione Peggy Guggenheim alla Fondazione Bevilacqua La Masa). All’epoca l’Atelier F non è un organismo aggregato e teoricamente consapevole, né risulta dotato di particolari caratteristiche che lo differenzino da un ordinario corso accademico, come tra l’altro testimonia il suo stesso nome, che non risulta essere manifestazione di una qualche volontà, quanto invece il semplice consolidarsi di una consuetudine. L’aula usata come laboratorio è infatti il sesto atelier tra quelli disponibili nella sede dell’istituzione veneziana (all’epoca ancora collocata nel medesimo complesso delle Gallerie dell’Accademia), che vengono per praticità identificati in forma alfabetica progressiva.
La costituzione dell’Atelier F come entità non strettamente accademica avviene certamente grazie alla continuità didattica da parte di Di Raco, il quale – grazie anche al contributo dei colleghi e degli stessi studenti o allievi diplomati – modella via via il corso di Pittura in qualcosa di metodologicamente e relazionalmente più articolato. L’aggregarsi di studenti al corso avviene inizialmente con casualità burocratica, e le fonti principali sono i nuovi iscritti, ai quali si aggregano poi altri studenti ricollocati da altri corsi più numerosi. Molti provengono anche dall’estero, in maniera particolare dall’ex Jugoslavia (che allora andava dissolvendosi sotto due guerre sanguinose), area con la quale sia l’Accademia di Belle Arti che la città stessa di Venezia hanno sempre avuto fitte relazioni, e successivamente da tutta la zona dei Balcani.
Il cambiamento verso un nucleo consapevole si compie progressivamente in meno di un decennio [4], e la prima mostra in cui viene impiegata la dicitura “Atelier F”, pur come semplice indicazione del corso, è del 1997. La mostra, allestita all’interno dell’aula, viene seguita, oltre che dal docente, da Riccardo Caldura, giovane professore di Fenomenologia delle Arti Contemporanee. Nel frattempo gli studenti o gli ex studenti che hanno già compiuto il corso accademico cominciano a ricevere i primi apprezzamenti nell’ambiente veneziano e successivamente nel panorama nazionale [5], in un clima generale di ancora scarso interesse per la pittura, caratterizzato dagli ultimi cascami del post-human e dalla massiccia presenza di ricerche multimediali, relazionali e postconcettuali. Emergono in quegli anni artisti come Paolo Dolzan, Miriam Pertegato (che darà successivamente il suo contributo anche come docente), ma anche Igor Eškinja e Nemanja Cvijanović, i quali invece abbandoneranno la pratica della pittura a favore, rispettivamente, di una ricerca concettuale sull’immagine e di tematiche di natura politica.
Atelier F. Una definizione
Entro la prima metà degli anni Zero inizia a delinearsi, in forma riconoscibile, la fisionomia dell’Atelier F, i cui ambiti, pur nati nei corsi di Pittura, hanno continuato a evolvere assumendo funzionalità e modi relazionali che trascendono la pura questione didattica. Ciononostante risulta arduo darne una definizione in forma univoca. Nel comunicato stampa che annunciava il workshop e le successive mostre che hanno costituito la prima edizione di Extra Ordinario [6] la formula impiegata, frutto della negoziazione tra artisti, docenti e curatori, è stata: «un collettivo informale di artisti che condividono prospettive e metodologie di ricerca, sulla base di un percorso espressivo che accomuna differenti generazioni». La prima cosa a colpire è la definizione del soggetto: vengono evidenziati la partecipazione collettiva e il fatto che i suoi membri avvertono di esserne parte al di là delle regole e dei percorsi accademici (benché ovviamente questo sia l’origine di tutto), con una modalità di intenti che ricorda – seppur informalmente – quella classica delle associazioni. Vi sono poi, significativamente, delle indicazioni di metodo: viene, da un lato, evidenziato come fondamentale il confronto espressivo e, dall’altro, il fatto che esso avvenga attraverso artisti di differenti generazioni e, quindi, con differenti gradi di esperienze. Tale aspetto ha come corollari il confronto e, inevitabilmente, la contaminazione tra differenti personalità. Nemanja Cvijanović, nell’intervista realizzata in occasione della mostra Senza tema (nella quale tre ex studenti sono stati invitati, da chi scrive, a fare da mentori suggerendo ciascuno due giovani artisti da invitare alla mostra), ha definito l’Atelier F come «un artista collettivo, con criteri relazionali ed estetici propri che sono il risultato di coloro che hanno contribuito a costruirlo. Penso che per gli artisti l’Atelier F sia, allo stesso momento, un punto di riferimento ma anche uno stimolo alla concorrenza, al lavoro individuale. Ed è proprio da questo geniale paradosso che sono uscite fuori intere generazioni di artisti importanti. E poi quello che caratterizza tutti gli artisti che hanno frequentato l’Atelier F è la cura e la responsabilità verso le prossime generazioni» [7]. Nella conversazione che correda Extra Ordinario Mixtape il professor Di Raco racconta che «l’Atelier F è una forma di vita artistica basata su una condivisione di modi e relazioni che vanno al di là del ruolo strettamente definito dalle strutture accademiche. C’è uno scambio che avviene costantemente. Non solo per la presenza delle opere realizzate, ma anche per quella degli artisti più esperti, con i quali si condividono contesti, ragionamenti, immaginari o esperienze che permettono a tutti di entrare più dentro al proprio lavoro. Questo è il frutto anche di uno sforzo comune […] finalizzato a realizzare un modello di apprendimento che non fosse condizionato dall’esterno, ma che prevedesse un ruolo attivo per i ragazzi» [8]. La centralità è quindi nella relazione e nello scambio, e l’Atelier F è in buona sostanza la “forma sociale” di un sodalizio, che si è generato presso l’Accademia di Belle Arti, ma la cui portata trascende la mera formazione accademica, e vive grazie al contributo dei membri e della struttura urbana di Venezia. Come infatti spiega Paolo Pretolani, artista che ha completato il percorso di studi nel 2020, «è una città rispetto alla quale, anche se ormai hai chiuso la porta dello studio, ti sei cambiato i pantaloni e non puzzi più di colore, difficilmente si riesce a non parlare del proprio lavoro. Anche in situazioni informali al bar o mentre ci si mangia una pastasciutta assieme. Non abbiamo mai la sensazione di uscire completamente dall’atelier, perché la dimensione del lavoro e quella della vita coincidono. Ma alla ne questo permette un continuo scambio di poetiche» [9].
Una scuola non stilistica
Ho avuto l’opportunità di frequentare, negli ultimi vent’anni, molti degli studenti e degli artisti che sono o sono stati parte dell’Atelier F, la cui quasi totalità è votata alla pittura (anche se talvolta non mancano incursioni prevalentemente nel campo della scultura di piccole dimensioni). Non ho mai notato o riconosciuto degli evidenti modelli stilistici, se si eccettua una prevalenza della figurazione rispetto a pratiche aniconiche, astratte o processuali. Mi sono spesso interrogato se la figurazione fosse in qualche modo indicativa di una scelta stilistica, ma il coesistere di artisti che all’interno di tale modalità mettono in pratica scelte espressive distanti, se non contrapposte (per esempio nel disegno, nell’uso del colore, nelle scelte cromatiche, nell’adozione di modelli visivi o nei processi di costruzione dell’immagine), mi ha indotto a ritenere questa preponderanza una semplice ricorrenza fenomenologica.
Ma, a mio avviso, se va evitato di ritenere l’Atelier F una scuola di Pittura nel senso canonico – cioè quella di un’affiliazione basata su questioni di stile o scelte espressive condivise – è invece ragionevole l’ipotesi che sia una scuola dal punto di vista metodologico. Non esiste quindi un’evidente comunanza strettamente linguistica, quanto un modello orizzontale (nello scambio di esperienze e nell’apprendimento) e policentrico (ciascuno è contributore) al quale ciascun artista/membro contribuisce. Viene così valorizzata collettivamente, analizza Di Raco, «la produzione di tutti, come fosse un unico organismo che continuamente si rigenera», processo in cui, spiega Paolo Pretolani, «non esistono modelli precostituiti o da apprendere, ma tante persone a fianco a te da cui poter imparare. Non quindi dall’alto, ma fianco a fianco» [10].
Benché si tratti di una scuola policentrica e orizzontale, e non esistano degli evidenti capiscuola, l’Atelier F non è un’entità acefala, poiché il ruolo del docente principale è avvertito da ciascun membro. È un primus inter pares, un ammiraglio che ha come finalità quella di mescolare i numerosi ingredienti che ciascuno porta con sé, facilitare le relazioni, contribuire sartorialmente alle esigenze degli artisti, grazie al continuo ascolto. Ma a questi ruoli si sommano frequentemente quelli di agente provocatore che alimenta i dubbi, aggiunge ulteriori gradi di follia o raffredda gli animi bollenti dell’equipaggio, giusto prima che l’Atelier si trasformi in un’ingovernabile stultifera navis.
Questioni di metodo
Le vicende dell’Atelier F sono quindi strettamente legate al metodo di lavoro, imperniato sull’uguaglianza e sullo scambio di informazioni che potremmo definire informalmente “comunismo della conoscenza”, per il quale tutti danno, tutti ricevono, indipendentemente dalla propria esperienza, con un vantaggio che viene distribuito e goduto da ciascuno. Non c’è quindi una gerarchia e chiunque può imparare tanto dall’artista maturo quanto dagli ultimi entrati, aspetto rafforzato dall’assenza di una stratificazione didattica e temporale. Infatti non esiste una separazione tra chi frequenta i corsi triennali o il biennio specialistico, e il giovane artista appena iscritto conduce la propria ricerca a fianco di quello esperto, il cui percorso di studi sta volgendo a termine, o di vecchi studenti già affermati che, di tanto in tanto, tornano in atelier o partecipano ai laboratori estivi (come ad esempio il decennale Laboratorio Aperto a Forte Marghera o il recente Extra Ordinario presso Vulcano) lavorando qualche giorno assieme ai fioi [11]. Thomas Braida, uno degli ex studenti più attivi nell’Atelier F, nell’intervista realizzata per Senza tema, racconta che «c’è sempre stato uno scambio […], nel cercare di imparare delle soluzioni da altri o, al contrario, nell’evitare di fare allo stesso modo. È una dinamica continua, in cui si cerca di aiutare l’ultimo arrivato. E poi la trasmissione delle informazioni avviene a doppio senso» [12], dato che l’orizzontalità garantisce la diffusione delle esperienze al massimo grado.
Il lavoro in atelier, ossessivo, continuo, “matto e disperatissimo”, è programmaticamente alla base dell’evoluzione degli artisti ed è alimentato continuamente dai docenti. Lo studio della pittura avviene sotto gli occhi dei colleghi, come nella tradizione delle botteghe, attraverso la pratica della pittura (Di Raco, in diverse occasioni, mi ha ribadito come la pittura coincida con la sua pratica, in maniera non dissimile dall’antico «nulla dies sine linea» [13] che veniva attribuito ad Apelle, costantemente desideroso di misurarsi con la disciplina). In atelier, racconta Nebojša Despotović nell’intervista per il documentario Extra Ordinario, «sei davanti a tutti, solo con i tuoi trucchi» [14], seppur in una condizione di evidente reciprocità con gli altri membri. Il risultato è quello di imparare non tanto perché un concetto o una soluzione vengano spiegati, ma «perché li vedi messi in pratica […]. Se sei attento a seguire il lavoro degli altri, infatti, puoi trarre un vantaggio diretto nell’osservare come esso viene condotto. […] Puoi imparare qualcosa non solo dalle strade giuste o sbagliate che percorri di persona, ma anche da quelle dei colleghi di atelier che vedi camminare a fianco a te. In questo modo si moltiplicano e si ampliano le possibilità di accrescere il proprio bagaglio di esperienze» [15]. Ciascuno è, infatti, in modo duplice, portatore e destinatario di esperienze, consentendo agli altri (e a se stesso) una crescita più veloce, poiché i membri sono messi nella condizione di evitare di fare troppi sbagli, come pure di liberarsi in anticipo delle scelte che potrebbero condurre a soluzioni senza uscita.
Rispetto a questo continuo scambio è significativo notare, inoltre, come nel tempo si sia formata una mitologia dell’Atelier F, caratterizzata da una narrazione di episodi avvenuti in passato, ma anche dalla presenza di vere e proprie figure mitiche di ex studenti (tra queste spiccano Goran Gogić, Jaša Mrevlje Pollak e lo stesso Despotović, le cui imprese, ragionamenti o discorsi hanno sviluppato una non comune aneddotica). Nell’aula presso l’Accademia di Belle Arti non mancano, tra l’altro, alcune opere di questi artisti, collocate spesso in alto, non tanto con la funzione di exempla da imitare per gli studenti, quanto di figure immateriali di riferimento, di stelle polari o – sia detto con bonaria ironia – di santi protettori. Tali presenze immateriali e il loro bagaglio di storie rafforzano inoltre l’idea dell’Atelier F come gruppo o “istituzione”, sovrapponibile ma non del tutto all’Accademia da cui essa si è sviluppata, dotata di una propria storia e di una identità che oltrepassa il lavoro quotidiano degli artisti, e che si colloca, in qualche modo, come figlia o erede di alcuni padri.
Altro aspetto centrale nella pratica dell’Atelier F è il metodo, sostanzialmente classico, di realizzare l’immagine mettendo in pratica una continua e il più possibile autentica negoziazione tra opera e artista, senza un progetto troppo dettagliato o un percorso preordinato. L’immagine si costruisce nel continuo dialogo tra l’autore e «ciò che essa stessa, in itinere, suggerisce all’artista, grazie al confronto con il mondo e con le altre immagini preesistenti […] in una pluralità di linguaggi e di poetiche […]. La pittura non è infatti semplice esecuzione di un progetto di cui si conoscono già gli esiti, quanto invece un processo in evoluzione, in gran parte ignoto al suo stesso autore. È solo in via sperimentale che la pittura si stratifica in un’opera non più soggetta a modificazioni» [16]. E poi, prosegue Di Raco, «noi tutti, con il nostro sguardo, contribuiamo a dare verifica di questo processo», in una dinamica di condivisione tra artisti che «serve così a trovare in maniera più profonda la nostra sincerità» [17]. In tale modo l’Atelier F risulta effettivamente “una scuola”, ma ideologicamente, e non tanto per la centralità della pratica pittorica, ma rispetto alla conduzione del lavoro in forma negoziale, elemento che – va sottolineato – presenta comunque delle criticità, poiché potrebbe comunque limitare o condizionare l’adozione di altre strategie espressive. Braida d’altro canto ha evidenziato come l’Atelier F sia «un po’ come una scuola e un po’ come un movimento, con ovviamente tutti i possibili rischi», mentre spetta al singolo artista «andare oltre, avere esperienze anche fuori da quel contesto. E poi riportarle dentro e rielaborarle insieme agli altri» [18]. Perché, in buona sostanza, come ribadisce Di Raco, esso «è un unico organismo che continuamente si rigenera» [19], innescando insieme orgoglio e senso di appartenenza, ma anche, talvolta, poca attenzione da parte degli artisti a ciò che accade – dal punto di vista teorico, espressivo, espositivo – esternamente (che davvero può essere un limite ostico), e, insieme, una sorta di perversa e militante fedeltà alla logica dell’Atelier F. La libertà è massima nella scelta delle tecniche, dei supporti, delle dimensioni, anche se va rilevato come il lavoro presso le aule dell’Accademia di Belle Arti, non capienti quanto sarebbe necessario, spinge gli artisti a lavorare frequentemente (e a sentirsi forse anche a proprio agio) su opere di medio-piccola dimensione. Anche la scelta dei soggetti è libera, ma vige una prescrizione del docente, tra il serio e il faceto, e ciononostante sostanzialmente rispettata, secondo la quale è necessario chiedere nel caso si volessero dipingere soggetti da stereotipo pittorico, quali vasi di fiori o cavalli rampanti.
Ultimo aspetto significativo del metodo è, a parere di chi scrive, l’attenzione e il rispetto verso i colleghi, che si manifesta in maniera particolare durante l’allestimento delle mostre. Ho, nella mia carriera di curatore, più volte avuto modo di lavorare con molti artisti dell’Atelier F in mostre collettive, e sono sempre rimasto colpito dalla non comune sensibilità verso gli altri. Ho scoperto successivamente, approfondendone la conoscenza, che l’origine di tutto questo è la pratica comunitaria dell’allestimento come una forma insieme di cura della comunità e di terapia di gruppo, in cui tutti devono trovare un posto in base ai risultati conseguiti, ma anche al contributo che hanno personalmente dato. L’allestimento con i membri e i docenti dell’Atelier F è una sorta di seduta psicanalitica (spesso alimentata da questioni formative) in cui gli artisti vengono invitati a non farsi abbagliare dal proprio ego, ma a considerare la propria opera come parte di un percorso più ampio, caratterizzato dalla continuità tra vita e ricerca personale.
Ulteriori prospettive
Seppur con molti elementi di atipicità evidenziati precedentemente, potremmo definire l’Atelier F come una vera e propria scuola artistica veneziana, in maniera non dissimile da quella diventata celebre a Lipsia negli anni successivi alla riunificazione della Germania. Si tratta cioè di una scuola che ha nella condivisione di un percorso formativo e umano messa a punto da Di Raco e i suoi collaboratori il suo centro, e negli artisti più riconosciuti i propri vertici [20], i quali continuano ad alimentare di stimoli la scuola e ne accrescono, sia internamente che esternamente, il prestigio. Negli ultimi anni hanno iniziato a essere evidenti i riconoscimenti nei confronti dei singoli artisti da parte del sistema dell’arte, il quale, secondo chi scrive, è sempre stato colpevolmente ignorato o non preso sufficientemente in considerazione da parte dell’Atelier F. La significatività dei risultati raggiunti indica però come matura la condizione per raccontare gli esiti di tale sodalizio artistico in una pubblicazione organica e/o in un mostra articolata, opportunamente da pianificare con i necessari appoggi istituzionali (e al di fuori del contesto lagunare in cui tale avventura è maturata). Prospettiva rispetto alla quale questo contributo si pone come un auspicabile primo passo.
L’Atelier F è infatti, in ultima istanza, un’esperienza diversa tanto dall’affiliazione per imprinting da un maestro (come quelle che, ad esempio, si sono registrate tra gli studenti di Luciano Fabro e di Alberto Garutti, a Milano e allo Iuav a Venezia, caratterizzate dall’uniformità degli approcci), quanto da quelle per osmosi e sintonia che sono nate grazie alla condivisione degli spazi e del tempo (come nel caso della Torino poverista degli anni Settanta o della Scuola di Piazza del Popolo e di San Lorenzo, a Roma, in cui però la parola “scuola” indica essenzialmente una matrice o degli immaginari di riferimento comuni). È evidentemente qualcosa di non affine, perché è costruita su basi collettive ed è dotata di un’ideologia sottile, anche se non direttamente percepibile. E poi è insieme un collettivo informale e un gruppo con una visione comune, ma sono diverse le forme che può assumere, declinate via via a seconda delle occasioni o delle relazioni dei suoi membri. Si pensi per esempio alla cosiddetta Fondazione Malutta, che dell’Atelier F è uno spin-off, le cui attività spaziano da mostre in galleria a workshop, da residenze a progetti librari, di volta in volta coinvolgendo un nucleo differente di artisti dell’Atelier F (ma non solo); o gli svariati studi d’artista condivisi, sia a Venezia che a Mestre [21]. Sono tutte esperienze che raccontano il desiderio di partecipare al sistema dell’arte attraverso la pittura e con modalità non solo squisitamente individuali. E tutta questa energia è impossibile non avvertirla.
[1] NICO COVRE, Extra Ordinario Mixtape, Vulcano, Venezia 2021.
[2] DANIELE CAPRA, NICO COVRE, Extra Ordinario, 2021, 37’15’’.
[3] È opportuno sottolineare come la continuità dell’insegnamento da parte dei docenti sia stata uno degli elementi comuni alle più significative esperienze didattiche che hanno caratterizzato il secolo scorso, quali per esempio il Bauhaus a Dessau, il Black Mountain College in North Carolina, i corsi di Joseph Beuys e dei coniugi Becher alla Kunstakademie di Düsseldorf, ma anche, in anni più recenti, la Scuola di Lipsia.
[4] Risulta difficile fare una valutazione temporale certa, poiché il processo di consolidamento è stato graduale e non vi sono degli elementi obbiettivi di valutazione. Ho usato indicativamente il decennio poiché nell’ambiente di addetti ai lavori di Venezia (artisti, curatori, docenti, studenti, galleristi) si è cominciato a usare informalmente l’espressione “Atelier F” a partire dalla seconda metà degli anni Zero: da parte degli artisti membri con un senso di identità e di appartenenza, mentre da parte di soggetti esterni semplicemente per dare indicazione rispetto al processo formativo.
[5] Mi riferisco in particolare all’assegnazione degli studi da parte della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, nonché alla partecipazione a mostre istituzionali e presso giovani gallerie che lavorano con artisti emergenti a Padova, Bologna, Milano, Trento, Roma e Napoli.
[6] Extra Ordinario (Venezia Marghera, Vulcano Agency, 26 settembre-17 ottobre 2020), a cura di Daniele Capra, Nico Covre, Nebojša Despotović e dell’Atelier F.
[7] Una scuola veneziana, a cura di Daniele Capra, in DANIELE CAPRA, Senza tema, catalogo della mostra, Galleria Massimodeluca, Venezia-Mestre 2019, p. 16.
[8] La realtà delle nostre stesse vite, a cura di Daniele Capra, in N. COVRE, Extra Ordinario Mixtape, cit.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] La parola in dialetto veneto «fioi» significa «figli», ma è spesso usata, nell’Atelier F, sia per indicare genericamente i colleghi di atelier, che, molto spesso, il nucleo degli artisti bohémien più irriducibili.
[12] Il coraggio di non accontentarsi, a cura di Daniele Capra, in D. CAPRA, Senza tema, cit., p. 12.
[13] PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historia, XXXV, 36, in Storia Naturale. V. Mineralogia e storia dell’arte. Libri 33-37, traduzioni e note di Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Einaudi, Torino 1988, p. 382.
[14] D. CAPRA, N. COVRE, Extra Ordinario, cit.
[15] La realtà delle nostre stesse vite, a cura di Daniele Capra, cit.
[16] Ibid.
[17] Ibid.
[18] Il coraggio di non accontentarsi, a cura di Daniele Capra, cit., p. 12.
[19] La realtà delle nostre stesse vite, a cura di Daniele Capra, cit.
[20] A mio avviso – oltre ai già citati Igor Eškinja, Nemanja Cvijanović – vanno segnalati, tra gli artisti riconosciuti: Thomas Braida, Nebojša Despotović, Ištvan Išt Huzjan, Jaša Mrevlje Pollak, Valerio Nicolai, Aleksander Velišček e un non allineato come Andrea Kvas. Tra le nuove leve: Beatrice Alici, Chiara Calore, Damiano Colombi, Veronica De Giovanelli, Daria Dmitrenko, Jingge Dong, Chiara Enzo, Alice Faloretti, Beatrice Gelmetti, Bogdan Koshevoy, Giulio Malinverni, Margherita Mezzetti, Federico Polloni, Barbara Prenka, Paolo Pretolani, Adelisa Selimbašić, Mattia Sinigaglia, Marta Spagnoli e Danilo Stojanović.
[21] Mi riferisco in particolare a Casablanca, Condominio Cappuccina, Kadabra e zolforosso.