Matteo Attruia
Dancing

Vittorio Veneto, Villa Croze
dicembre 2012 ― gennaio 2013

Un artista cubista
Daniele Capra




Noto Matteo Attruia è un artista cubista, solo che lui, con molto filosofico aplomb, fa finta di non saperlo.
Detta così sembra una boutade da bar sport del lunedì mattina, ma il fatto corrisponde al vero. Non è necessario infatti scomodare George Braque e Pablo Picasso alla ricerca di piani spezzati, quarte dimensioni ed altre acute raffinatezze pittoriche. Ovviamente di tutt’altra tipologia è la sua ricerca, e con la parola «cubista» intendiamo qualcosa di diverso dalla rappresentazione sulla tela di un soggetto da molteplici e simultanei punti di vista. È più facile infatti che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che Attruia prenda in mano i colori per dipingere su tela.

Parliamo invece di locali da ballo, di quei luoghi in cui tutti siamo andati, almeno una volta nella vita, a divertirsi con gli amici, ad ubriacarsi, o a cercare di attaccare bottone con quella persona che tanto ci piaceva. Ma cortesemente non scomodiamo Nicolas Bourriaud di Postproduction e l’idea che il processo artistico abbia qualcosa a che fare con l’attività musicale dei deejay, con la diffusione di un’arte intesa come remix dei linguaggi esistenti. Niente di tutto questo. Molto più semplicemente Attruia mette in scena dispositivi di (non)senso in cui l’opera agisce sullo spettatore con le stesse dinamiche a cui il/la cubista, più o meno consapevolmente, si ispirano nel contesto di una sala da ballo.

Sopra la porta d’ingresso di Villa Croze – villino liberty sede della Galleria Civica di Vittorio Veneto che ospita la polverosa collezione cittadina di arte antica e moderna – Attruia ha collocato infatti la scritta a neon dancing, di color magenta, con una font molto semplice, che ricorda il corsivo che si impara nei primi anni di scuola. La parola dancing evoca le sale da ballo, che sono state uno dei principali luoghi di intrattenimento e di socializzazione durante gli anni Settanta ed Ottanta, ma che ormai sono in qualche modo un ricordo da malinconico modernariato giovanile. Come capita proprio nei locali dove si balla, in cui la presenza del/la cubista è aspetto per certi aspetti erotico per gli occhi ed elemento catalizzatore per l’attività cinetica della danza del normale avventore. Attruia è cubista proprio in questo senso, nel doppio ruolo di creatore di contenuti esteticamente interessanti e attraenti, e nella conseguente innata motilità interrogativa che questi stimolano in chiunque presti, anche distrattamente, la propria attenzione. Un po’ come accade all’ospite del matrimonio ne La Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, che è in qualche modo costretto ad ascoltare le parole del canuto uomo di mare che incontra per strada (perché sedotto da una forza cui non è in grado di opporsi), così l’artista intercetta in modo ipnotico lo sguardo del passante distratto o dell’osservatore minuzioso spingendolo a farsi delle domande, dalle più stupide alle meno scontate.

L’insegna luminosa ha così la funzione di ridefinire idealmente la natura del luogo, di rendere lo spazio della villa visibile ai cittadini che troppo frequentemente sono osservatori passivi. La principale è ovviamente la ricerca del grado di verità della scritta, in forma univoca: è necessario capire se quella insegna sia vera, cioè se il messaggio corrisponda cioè coerentemente al contenuto dentro l’edificio (dentro Villa Croze c’è un dancing), o se, al contrario, sia falsa, e dentro le stanze della residenza liberty ci sia qualcosa di differente (qualunque cosa eccetto un dancing); e naturalmente tertium non datur. Per sapere quelle delle due ipotesi sia vera bisogna avere il coraggio di avvicinarsi all’edificio e di aprire la porta, ma probabilmente non molti sono disposti/interessati a mettersi in gioco e a vedere, come si fa nel poker. Il centro della questione però, non è tanto su quello che è ospitato nella villa, quanto sull’aspettativa esercitata da coloro che guardano: ad intrigarci, deprimerci, meravigliarci o farci indignare, infatti, è lo scarto tra ciò che ci aspetteremmo di trovare e quello che effettivamente la realtà offre. Finire in debito, è così una questione di attimi.

Attruia, desideroso di rimescolare le carte e di creare più di qualche dubbio al viandante frettoloso al quale viene prospettato idealmente il cambiamento della destinazione d’uso di quello spazio, con dancing mette così Villa Croze in una posizione di bilico tra il proprio ruolo istituzionale serio, polveroso ed abbottonato (il museo, tra l’altro, è scarsamente conosciuto dai cittadini), e quello inaspettato ed irriverente affibbiatole dall’artista (la sala da ballo). Ma l’insegna luminosa, senza dichiararlo apertamente, ha infatti anche una funzione politica, e manifesta la necessità di riappropriarsi, quanto meno nominalmente, degli spazi scarsamente attivi della città per farne qualcosa di diverso, di più intelligente, più libero, più aperto. L’artista porta così alle estreme conseguenze quello spirito politico e creativo che nel Sessantotto voleva la fantasia al potere. Anche quando c’è da ballare al museo.