Antonio Bardino
Specchio Specchio
Venzone, Palazzo Orgnani-Martina
novembre ― dicembre 2009
Il vuoto pneumatico e il mondo reale
Daniele Capra
Benché vi siano ancora in giro – e si possano distintamente avvertire – i cascami di una vulgata concettualista radical chic che percepisce la pittura come uno strumento inadeguato di ricerca, la pratica di questa disciplina, liberata da non tanto dall’ideologia quanto dagli -ismi che hanno ammorbato la seconda metà del Novecento, si dimostra invece nei nostri giorni assolutamente centrale e progressista, anche nel recupero di procedure che in qualche maniera appartengono in forma esclusiva alla propria storia. Dipingere, seppure con modalità inevitabilmente eterogenee, è da un lato continuare quel lungo ed articolatissimo sentiero iniziato magicamente oltre ventimila anni fa nelle rappresentazioni rupestri, ma dall’altro è essenzialmente ricognizione e manipolazione dell’esistente in forma chimica, in cui colori, tela e pennelli sono esposti alle tossine ed al veleno della contemporaneità.
In forma allargata la pittura è cioè riconducibile alla categoria del postproduction teorizzata da Nicolas Bourriaud, secondo cui “sempre di più gli artisti interpretano, riproducono, ri-espongono, o usano oggetti realizzati da altre persone o da altri prodotti culturali disponibili. L’arte della postproduzione risponde alla proliferazione del caos della cultura globale nell’era dell’informazione, che è caratterizzata da una crescente richiesta di opere e dall’allargamento al mondo dell’arte di forme fino ad ora ignorate o trascurate” (Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia, Milano, 2004, pag. 8). Dipingere è cioè l’atto finale di un processo che trova la sua origine altrove, dato che – come in sostanza capita all’uomo moderno – gli stimoli e gli alimenti che costituiscono la dieta culturale e visiva dell’artista sono di natura al massimo grado differenti e di natura non sempre facilmente classificabile. L’artista è onnivoro, ma mangia spesso e in forma disordinata, alternando con buona probabilità atteggiamenti anoressici e bulimici.
La pittura di Antonio Bardino risente di questa dieta eclettica e confusa, e in qualche maniera sembra voler arginare il vortice caotico di un mondo che pare talvolta non conoscibile opponendogli intrinsecamente ordine e pulizia formale; non tanto in forma regressiva o conservativa quanto per intima necessità gnoseologica. La complessità è cioè sezionata analiticamente, avendo la cura di cancellare tutti gli accidenti e gli elementi di perturbazione superficiale, in maniera tale che siano resi più evidenti le macrostrutture all’interno delle quali gli uomini si muovono e vivono, o transitano. In questo modo viene a manifestarsi la necessità di ricondurre la complessità ad una formula minimale e distaccata, tanto asettica nella forma quanto distillata nel rigore.
La sua è una pittura in qualche maniera ibrida, sia nel senso che non è pratica che si nutre solo di stimoli pittorici, che nel fatto che il medium rappresenta solo la fase finale di una procedura di altra origine: ne è solo cioè supporto conclusivo, fase esecutiva manuale, seppur lenta e minuziosa. Ma è altrove che ha origine l’opera, e precisamente nella fotografia, nella registrazione digitale di quei luoghi. L’artista di origine sarda infatti, dopo aver catturato delle immagini con la propria fotocamera (ma spesso hanno contribuito al lavoro amici in viaggio, mettendo in essere un processo di condivisione di intenti, come giustamente hanno rilevato Fabiola Naldi e Mario Gerosa nel saggio che correda il catalogo di Art Happens Now. La giovane arte italiana al tempo del web 2.0) provvede a modificarle con i software di fotoritocco cancellando la presenza degli uomini e ricostruendo tutti quei pezzi che inevitabilmente mancano. Solo successivamente l’immagine viene fissata sulla tela, a partire da quella forma intermedia, scegliendo dominanti di colore fredde. Ma non è il dettaglio iperrealista ad essere ricercato, come fa tanta pittura accademica in maniera stucchevole, quanto invece l’atmosfera di vuoto esistenziale, come sottolineato dalla scelta di variazioni cromatiche molto lievi ed una latitudine di luce molto limitata. E l’osservatore attento, seppur affascinato dalla costruzione architettonica, avverte il senso di abbandono e di mancanza di quelle persone per i quali quei luoghi sono costruiti: chi guarda quei posti svuotati dalla massa brulicante di individui si mette infatti in una condizione di attesa di un movimento o di un evento che non potrà mai capitare, in una situazione non dissimile da quella dei soldati rinchiusi nel forte del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Quelle di Bardino sono così viste impossibili. Se volessimo dirla con un linguaggio seicentesco diremmo dei capricci, ma al contrario del genere pittorico manierista – basato sull’invenzione e l’estrosità del pittore – non è tanto la bizzarria il valore aggiunto, quanto la sottrazione degli elementi inessenziali. Il capriccio sta cioè nella sintesi, nel depurare i luoghi dalla presenza umana che ne garantirebbe l’utilità sociale. A questa rasoiata contribuiscono in modo determinante i colori scelti, che hanno essenzialmente la stessa gamma cromatica di quelli utilizzati nelle lavorazioni industriali (che spaziano dal verde al blu, al grigio), sempre distillati e declinati in maniera delicata, per successive velature. Prendono forma in questo modo visioni antispettacolari, calibrate in un’atmosfera in cui la luce non è mai direzionale ma diffusa, come accade di vedere in taluni paesaggi brumosi del nord Europa. La luce pare manifestarsi per emanazione, appartenere agli oggetti stessi, in maniera antiretorica.
Per un lungo periodo gli unici soggetti dell’artista sono stati quasi esclusivamente aeroporti, luoghi di passaggio in cui le persone non possono essere degli individui, o non hanno il tempo per esserlo, ma tendono a somigliare piuttosto alle piccole tessere di un enorme puzzle in movimento, in transito o in arrivo da qualche luogo, ma mai ferme in forma stanziale. A dire il vero questi uomini nemmeno si presentano, sono assenti, mentre sono gli aeroporti a parlare, a mostrarsi nella loro complessità architettonica e tecnologica. L’atmosfera diventa surreale: (non)luoghi che siamo abituati a percepire affollati sono teatri senza gli attori che recitano la loro parte.
Tutto questo è però di secondaria importanza rispetto l’analisi antropologica su cosa siano quei posti vuoti e che funzione abbiano nella nostra contemporaneità. L’esigenza primaria è cioè far vedere e rendere esplicite le dinamiche del viaggio, dell’incasellamento dell’uomo a cluster apparentemente libero e indipendente, ma che in realtà compie in forma automatica e prefissata un percorso che è stato altrove concepito. Il ruolo del viaggiatore è ambiguo, poiché oscilla costantemente tra individuo che esprime volontà di movimento e topolino da laboratorio per il quale ogni percorso è stato pensato. Ugualmente l’utilizzo dei display permette di relazionare la masse delle persone con le proprie destinazioni, in una sorta di dittatura soft da parte del monitor, che impartisce informazioni e dà disposizioni cui risulta impossibile sottrarsi, pena il mancato perseguimento del proprio obbiettivo. L’aeroporto è cioè un esempio di civiltà ordinata e (pseudo?)democratica in cui i viaggiatori sono essenzialmente tutti liberi ed uguali, dato che devono seguire le stesse regole e devono sottoporsi tutti agli stessi controlli centralizzati: l’individuo è cioè un individuo-massa.
Nella rappresentazione di strutture architettoniche di grande estensione ed altezze ragguardevoli, caratterizzate dall’impiego di vetrate e strutture portanti modulari, si manifesta invece un’altra chiave di lettura interessante, imperniata sulla grande scala cui l’individuo metropolitano è costretto a relazionarsi: ogni luogo ha le dimensioni di una cattedrale laica ripetitiva e componibile, sviluppata con impalcature innervate di acciaio e superfici trasparenti che assicurano una forma di permeabilità con l’esterno, benché in effetti quello che accade al di fuori non sia di sostanziale interesse per gli eventuali passeggeri. Nella sostanza le strutture sono chiuse, dominate da un’aura di sterile ed asettica, in cui sembra si sia attuato una sorta di vuoto pneumatico che ha spazzato via persone ed esseri viventi non lasciando nemmeno emergere le tracce della loro presenza. Forse nemmeno si sente in lontananza la Music for Airports di Brian Eno che dà il titolo ad una delle mostre personali di Bardino.
Ma il lavoro dell’artista sta in questo ultimo anno virando in direzioni inaspettate. Due opere infatti si distaccano notevolmente dal topos luogo di passaggio – benché a loro modo siano comunque sempre situazioni in cui gli uomini hanno una presenza non stanziale – e stanno preludendo ad un nuovo interesse per i luoghi aperti. Si tratta delle stazioni di servizio, che Bardino ha dipinto avvolte in una sottilissima nebbia, quell’umidità autunnale che ammanta la pianura del nord Italia smussando gli angoli al paesaggio ed alle cose. Sono ben in evidenza le scritte luminose e i loghi che identificano le compagnie petrolifere, e anche le insegne che indicano i prezzi della benzina e del gasolio. Non è quindi solo il display nella sua funzione di dispositivo di trasmissione di un’informazione ad interessare, quanto anche il valore indicato (tra l’altro coincidente con alcuni dei picchi cui siamo abituati causa le dinamiche speculative sulla materia prima petrolio) e di conseguenza il fatto che la dimensione temporale non è più ferma ad un momento indefinito e sospeso, come nel caso degli aeroporti, bensì è evidentemente identificabile. Se l’autore precedentemente si sottraeva alla variabile tempo, ora invece sembra essere interessato a registrarne gli effetti, anche se in maniera non perfettamente univoca, dato che il prezzo è soggetto a cambiamento quasi quotidiano.
Parallelamente le ultime tele raccontano di uno spostamento all’esterno, in situazioni in cui elementi naturali (come gli alberi) sono messi in dialogo – o meglio in conflitto visivo – con le architetture tecnologiche, con vetrate, con le torri per le telecomunicazioni. Qui la pittura si fa meno controllata e finisce ad essere tecnicamente più goduta, anche se sempre interessata al concetto di trame e piani prospettici piuttosto che all’immediata rappresentazione dello scorcio, benché permangano forti interessi per le trame architettoniche e le strutture modulari. In qualche modo sembra che all’artista la realtà stia diventando più interessante, dopo esser stata snobbata o al massimo utilizzata come pretesto per dire altro. Un buco, uno squarcio, sembrano aprirsi oltre la tela, come in un Truman Show che progressivamente si sta rivelando. Cosa aspettarci, in una pratica quotidiana e mentale quale è la pittura, è difficile dirlo: sarà una sorpresa.