Bertozzi & Casoni
Antropocene
Galleria Civica, Trento
marzo ― giugno 2022
La reale dimensione delle cose
Daniele Capra
Fare una copia
Vi sono svariati modi per copiare/riprodurre un soggetto che è posto dal vivo di fronte a noi con un criterio mimetico. Lo si può delineare attraverso il disegno, riconducendolo cioè a una forma orizzontale; lo si può dipingere, delineandolo in posizione verticale a distanza di braccio; lo si può invece modellare, trasferendone la forma grazie a un materiale plastico, approccio che inevitabilmente ci induce a muoverci nel contesto e prendere misura del suo ingombro. D’altro canto, come ricorda Rudolf Arnheim, «ogni forma deve essere desunta dal medium particolare in cui […] è eseguita» [1]. Nella suddivisione delle arti secondo la tradizione classica, la scultura è infatti la meno contemplativa, e non solo nel momento in cui essa viene esperita dall’osservatore, ma anche nella sua stessa dinamica realizzativa. Potremmo spingerci a dire che, se il disegno e la pittura sono il frutto dell’attenta “osservazione stanziale” di un soggetto, la scultura è invece l’esito di un’“interazione deambulante”, aspetto che indica, nei confronti del contesto, un approccio antropologicamente diverso. Qualunque sia il medium di destinazione – e la rispettiva strategia da adottare – realizzare mimeticamente la copia di un soggetto ha inevitabilmente a che fare con le modalità con cui si guardano le cose, con l’ideologia, la cultura e il gusto: una copia è, in buona sostanza, l’esito della Weltanschauung e delle conoscenze tecniche di colui che la esegue.
L’esattezza nel restituire gli aspetti volumetrici e superficiali, la precisione formale nel riportare i dettagli del modello originale producono nel fruitore la sensazione di una trascrizione realistica, in grado cioè di ricondurlo all’esperienza diretta del soggetto stesso. Quando ciò avviene, poiché la copia è un gemello in apparenza indistinguibile dalla fonte, siamo in scacco e, automaticamente, saremo spinti a ricercare altri criteri di comprensione per cogliere le eventuali differenze rispetto all’originale. Infatti la perfetta omologia di due elementi (eccetto il caso di manufatti realizzati programmaticamente in serie) ci disturba, poiché è una sorta di non-sense che sfida l’idea di unicità delle nostre esperienze e, insieme, il principio del flusso unidirezionale del tempo.
Realizzare una copia di qualcosa significa, contemporaneamente, opporsi all’ineluttabilità del cambiamento, aumentando, anche in maniera effimera, le possibilità di vita di quel soggetto riprodotto/condotto al di fuori del suo contesto primigenio. Copiare un soggetto non comporta – come riteneva Platone – la banale imitazione del mondo delle idee, lasciandosi andare «a costruire delle copie» e facendo di tale azione «l’ideale supremo della propria vita» [2], atteggiamento che egli negativamente attribuisce in primis agli artisti, cioè «agli imitatori, i molti che si occupano di figure e di colori o di musica, poeti con i loro valletti, rapsodi, attori, coreuti» [3]. Al contrario eseguire una copia significa liberare il soggetto dalla sua condizione originale, riscattarlo e mostrarlo in un contesto alloctono e imprevisto. Inoltre, similmente a quanto Susan Sontag scriveva in merito alla fotografia, la copia dà «all’individuo il possesso immaginario di un passato» e aiuta «a impadronirsi di uno spazio nel quale vive insicuro» [4]. In tale modo la copia – grazie allo scarto contestuale e concettuale che consente – non solo “rivela” ai nostri occhi una porzione di realtà che non avevamo ancora analizzato o compreso profondamente, ma anche rafforza la percezione che la realtà sia conoscibile, misurabile e, inconsapevolmente, riconducibile a sé.
Un mondo fuori di sé
Le opere di Bertozzi & Casoni rappresentano soggetti che già esistono nella realtà e sono tutte a dimensione reale. Gli animali, le piante, le suppellettili o gli oggetti hanno infatti la stessa grandezza di quelli che incontriamo quando interagiamo con il mondo. Inoltre non solo sono perfettamente “identici” ai loro modelli di riferimento, ma, aspetto ancora più significativo, sono anche “confondibili” con essi. Cioè rappresentato e rappresentante coincidono e sono indistinguibili, poiché sono dotati della stessa precisione e quantità di dettagli, similmente a quella mappa smisurata che, racconta in maniera assurda e surreale Jorge Luis Borges, «aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente» [5]. Per esempio un loro piatto sporco di avanzi, una cassetta di plastica impolverata con delle bottiglie scordata in cantina, un mazzo di fiori o un fusto di benzina con un pappagallo appollaiato non sono differenti da quelli che già conosciamo (pur essendone materialmente una copia realizzata in materiale ceramico). Essi ci paiono reali, ma ci disorientano, tanto più se il luogo in cui ci capita di vederli è una galleria o uno spazio espositivo. Uno spettatore non sprovveduto sa che questi luoghi istituzionalmente garantiscono la programmata anti-istituzionalità dei ready-made: uno spazio neutro ed esclusivamente deputato all’esperienza visiva rende infatti possibile la collocazione fuori contesto di un oggetto che nella nostra esperienza potremmo incontrare altrove. Il ready-made, almeno nel senso originario duchampiano, dovrebbe, come scrive Marco Senaldi, «servire da test per la nostra capacità di sfuggire alle trappole della percezione […], e invece insegnarci ad applicare un effettivo scetticismo, almeno visuale, in ogni occasione e davanti a ogni oggetto» [6]. Secondo questa prospettiva potremmo dire che nel caso delle opere di Bertozzi & Casoni, caratterizzate da una vera e propria vertigine realista, si possa invece applicare una nuova categoria ideale per definire le loro opere (in maniera forse ironica e incongruente, dato che le analisi concettuali non paiono centrali nella poetica degli artisti). Il raffinato processo esecutivo e le complessità tecniche da cui quelle opere scaturiscono ci possono infatti condurre a leggerle come una sorta di vero e proprio anti-ready-made, caratterizzato non dal classico “prelievo” dadaista di una porzione di realtà, né dalla “restituzione” realista mimetica, tipica dell’arte classica, quanto invece dalla “destituzione” di essa in chiave strettamente finzionale. E in questo processo il realismo è quindi solo un metodo, non l’obbiettivo, poiché l’ideologia perseguita è quella del sovvertimento del suo stesso status.
Strategie d’avvicinamento
A ben guardare è la “sovrabbondanza” la cifra che caratterizza stilisticamente i lavori di Bertozzi & Casoni. La sfrenata presenza di dettagli, resa possibile dal virtuosismo con cui è lavorata la ceramica, consente all’osservatore di cogliere aspetti conoscitivi prima inosservati. Ad esempio i loro fiori o i loro animali mostrano dettagli (di fisiologia, forma e colore) che il fruitore avrebbe quasi sicuramente ignorato, qualora si fosse imbattuto di persona con essi. Potremmo dire, infatti, che le loro opere hanno una funzione “intensificativa” della realtà, perché esortano a riconoscere ciò che usualmente viene trascurato. Questo processo spinge lo spettatore ad accrescere la consapevolezza visiva di ciò che viene osservato, rendendo intellegibile quello che, in apparenza, è latente. E inoltre tale eccitante sovrabbondanza di stimoli, grazie alla loro vitale e abnorme carica, in qualche modo “invera” l’esperienza stessa del vedere.
È significativo osservare come le ceramiche siano sovrabbondanti anche rispetto alla presenza di altri riferimenti – che provengono dalla storia dell’arte, dal design o dalla cultura popolare – che puntualmente «si annidano come parassiti, citazioni, trappole percettive e altre citazioni, non tanto come scatole cinesi, ma come note a margine, illustrazioni di un’enciclopedia fatta essa stessa di forme e di immagini» [7]. In questo modo articolato gli artisti operano con la più assoluta anarchia «rovesciando convenzioni iconografiche, ribaltando dati percettivi, miscelando liberamente le più varie fonti di riferimento, contraddicendo continuamente i presupposti di base e, soprattutto, evitando accuratamente ogni ipotesi banalmente lenitiva e risolutiva» [8]. L’“eccesso” – nello stile accuratissimo, nella composizione sofisticata che non cede mai al grazioso e nei riferimenti dettagliati – serve cioè a rendere visibile/criticabile la logica interna della realtà, attraverso la creazione di una sua versione sovversiva, alterata e “fuori di sé”. In questo modo viene usata una strategia simile a quella che Achille Bonito Oliva riconosce nei manieristi, per i quali «la deviazione è la tattica eversiva su di un linguaggio codificato che simula una realtà ormai modificata e irriconoscibile» [9]. Bertozzi & Casoni analizzano/descrivono criticamente il mondo scomponendolo e ricomponendolo con un altro materiale. Il loro è uno scarto in avanti, reso possibile dalla loro tecnica assoluta, in cui la tensione iperrealista conduce, per assurdo, a “tradire” la realtà, attraverso la creazione di una sua ulteriore versione. Viene così messa in pratica «una strategia d'avvicinamento alla vita proprio per risolverne la realtà mancata, cioè quella quotidiana e puramente cronologica, attraverso l'affermazione di una surrealtà costruita dall'immaginazione, dal sogno, dalla follia che il quotidiano riesce solo a sospettare» [10].
Soggetti e malinconie
La ceramica è allo stesso tempo il medium della lentezza e dell’attesa, aspetti che corrispondono – nella grammatica espressiva di Bertozzi & Casoni – alle articolate fasi di ricerca, modellazione, essiccamento e alla calma ansiosa della sospensione, tipica della cottura. La scelta del soggetto e la costruzione dell’opera seguono invece dinamiche di estrema libertà, in cui l’immaginario degli artisti, un certo calore emotivo e necessità progettuali devono, negoziando, trovare una forma possibile. In una conversazione tra Jolanda Silvestrini e gli artisti, Giampaolo Bertozzi racconta che i processi decisionali che portano gli artisti prima a immaginare e poi a realizzare le sculture «sono innescati dalle cose che ci circondano: le più vicine, quelle di tutti i giorni, ma riscoperte da uno sguardo attento a ricercare un nesso tra la forma estetica che stiamo osservando e lo stato d’animo che ha mosso la ricerca» [11]. Contrariamente a quanto a prima vista si potrebbe immaginare, infatti, è forte la componente emotiva, che si manifesta, come Stefano Del Monte Casoni spiega subito dopo, in un continuo «cortocircuito di dissonanze tra piacere e orrore, attrazione e repulsione, malattia e voluttà, bulimia e rinuncia, accettazione e perdono, sospensione di giudizio in favore dell’apparenza» [12]. In questo prolungato peregrinare la scelta dei soggetti e delle loro variabili iconografiche è l’esito di un inesausto dibattersi tra sentimento personale, storia dell’arte, simbolismo, ricerca bibliografica, citazioni pop, nuove soluzioni tecniche e limiti dei materiali, in una condizione di incertezza in cui «se il mondo non si può vivere, allora l’artista carica la metafora del proprio lavoro fino a farla traboccare di tensione e di contorcimento» [13].
Sono ricorrenti nell’opera degli artisti le rappresentazioni di soggetti viventi del mondo vegetale (fiori, frutta, verdura, piante) e animale (con una predilezione per le scimmie antropomorfe e dettagli truci), ma anche di cibo, e in particolare gli avanzi di fine pasto e quello che antropologicamente siamo soliti allontanare dal nostro sguardo, e che forse per questo motivo è ancora più desiderabile: la spazzatura. Non mancano situazioni casuali/caotiche con oggetti di uso quotidiano, che vengono spesso impiegati in composizioni che oscillano concettualmente tra enfatico realismo oggettivo e costruzione manierista antinaturale. Rispetto ai soggetti e ad alcune delle situazioni rappresentate, si potrebbero a prima vista percepire degli echi dei Nouveaux réalistes, nel gusto per l’oggetto popolare e triviale, nel riportare ritagli di mondo per così come esso è. Niente di più diverso: l’approccio, come sottolinea Letizia Ragaglia, è infatti agli antipodi, poiché «mentre gli assemblages di spirito neodadaista si compongono di svariati objets trouvés, le ceramiche di Bertozzi & Casoni costituiscono delle creazioni ex novo, che sono il frutto di uno scrupoloso e complesso lavoro di ricerca» [14]. Nel complesso le sculture con minor numero di elementi sono più liriche, più aperte e concilianti, mentre quelle più articolate sono dotate di una maggiore tensione surreale, dovuta alla grande enfasi oggettuale e al grande sviluppo tridimensionale degli ingombri. Esse lambiscono iconograficamente i generi della natura morta e della vanitas, e producono in chi guarda opposti sentimenti di brulicante vitalità e di struggente mestizia, come degli intempestivi e postmoderni memento mori.
Animate da una carica apocalittica che stride con la minuziosa ricchezza delle composizioni, le ceramiche, benché stilisticamente realistiche, travalicano ontologicamente il limite del possibile, nel loro mettere in scena, come scrive Tiziano Scarpa, «un consumo sterminato, abusivo, una consumazione devastatrice. Il pasto è stato divorato, un ambiente è stato depredato e distrutto, un tavolino è ingombro di avanzi disseminati in piccole cataste mini-orgiastiche, post-orgiastiche pile di piatti, ci sono generi di conforto ordinari e rimasugli improbabili; ci sono frutti dimenticati a marcire che nutrono insetti, cicogne che hanno tranquillamente nidificato sopra batterie di automobili» [15]. D’altro canto le opere sembrano ben illustrare quel principio per cui «l’arte non è presa immediata sul mondo, ma soltanto possibilità e citazione deviata» [16]. Dopo aver osservato le opere di Bertozzi & Casoni nei dettagli ubriacanti, quando è passato l’orgasmo dello sguardo e la vista cede il passo agli altri sensi, si è progressivamente avvolti da un silenzio che cancella ogni rumore. Un sentimento di vuoto post coitum che genera un senso di inquieta solitudine, di malinconia che profuma di morte. Ma anche di vita che, nascostamente, cova sotto la cenere.
[1] R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 2008, p. 122.
[2] Platone, Repubblica, 599a, a cura di Mario Vegetti, Laterza, Bari 2005, ebook.
[3] Platone, Repubblica, 373b, a cura di Mario Vegetti, Laterza, Bari 2005, ebook.
[4] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1992, p. 9.
[5] J. L. Borges, Del rigore nella scienza, in L'artefice, Adelphi, Milano 1999, p. 181.
[6] M. Senaldi, Duchamp. La scienza dell’arte, Meltemi, Milano 2019, ebook, cap. 3.4.3.
[7] M. Senaldi, Bertozzi & Casoni. Coincidentia Oppositorum, in Bertozzi & Casoni. Minimi avanzi, catalogo della mostra, Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno, 25 marzo – 24 settembre 2017, Artelito, Camerino 2017, p. 23.
[8] F. Bertoni, Regeneration, catalogo della mostra, All Visual Arts Gallery, Londra, 13 ottobre – 10 novembre 2012, Edizioni Danilo Montanari, Ravenna 2012, p. 4.
[9] A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, Electa, Torino 2012, p. 28.
[10] Ibid, p. 49.
[11] J. Silvestrini, In conversazione con Bertozzi & Casoni, in M. Tonelli, Bertozzi & Casoni. Dove Come Quando, catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova, 7 giugno – 7 settembre 2014, Allemandi, Torino 2014, p. 25 – 34.
[12] Ibid.
[13] A. Bonito Oliva, op. cit., p. 27.
[14] L. Ragaglia, Il re è nudo. La smaliziata reinterpretazione di alcuni cliché artistici nella pratica di Bertozzi & Casoni, in Bertozzi & Casoni, catalogo della mostra, Studio d’Arte Raffaelli, Trento, dicembre 2003 – febbraio 2004, p. 14.
[15] T. Scarpa, La delicatezza della devastazione, in M. Caldirola, D. Sorrentino, Bertozzi & Casoni. Le bugie dell’arte, catalogo della mostra, Galleria Internazionale di Arte Moderna Ca’ Pesaro, Venezia, 6 giugno – 2 settembre 2007, Damiani, Bologna 2007, p. 27.
[16] A. Bonito Oliva, op. cit., p. 27.