Central Park
Padova, Superfluo
gennaio 2011
Un modo (anti)contemporaneo di condividere
Daniele Capra
Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo ed interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. [*]
Quando ero adolescente appartenevo a quella categoria di persone che, pur non essendo fanaticamente attaccate alle proprie cose, avvertiva con un certo momentaneo ed inspiegabile dispiacere il prestito di un libro o di un cd ad un amico. Non era tanto la proprietà in sé, era il fatto che prestarli spesso metteva nella condizione di riceverli indietro rovinati, se non proprio di perderli. Questo infatti mi avrebbe più di tutto portato tormento: non poter averne il controllo, magari rischiando pure che finisse nelle mani sbagliate (ad esempio quelle unte dopo un sacchetto di patatine). Era la forma embrionale di quella cura che, portata all’eccesso, mi induceva ad acquisire in un supermercato di un centro commerciale tutte le copie disponibili sullo scaffale di Pastorale Americana. Non ricordo se fossero quattro o cinque, so solo che in occasioni diverse – ad amici che non si conoscevano – ho regalato quello stesso libro. Anche lì non volevo condividere il piacere con cani e porci, o volevo in qualche modo evitare pretenziosamente che il capolavoro di Roth venisse comprato distrattamente come una copia di TV Sorrisi & Canzoni o le merendine.
Anni luce rispetto a quello che mi capita di fare adesso. I miei file musicali sono passati sul computer di tutti i miei amici. I libri se posso, li scambio o li scarico. O li condivido rubacchiandoli, come mi capita di fare con tanti sconosciuti della comunità freakettona di aaaaarg.org, personaggi che farebbero impallidire i librai e gli esteti della carta e pure i detentori di diritti. Non so perché, ma condividere quello che abbiamo di più bello e di più interessante mi pare davvero rivoluzionario. È vero, lo so, state pensando che invece le cose devono costare qualcosa per valere. Sì, è giusto, ma penso che condividere sia un gesto che va al di là della più semplice economia del valore. E in buona sostanza sono disposto a pagare per comprarmi un libro di Eco, ma non voglio spendere nemmeno un euro per l’ultima canzone di Tiziano Ferro. È una regola empirica insomma: si può condividere qualsiasi cosa, ma un bicchiere di Chianti è molto meglio di una birra calda come il piscio.
Sono tutte cose che sanno i ragazzi di Superfluo. Sanno che anche l’arte, come il salame, la birra, il fumo, è più bella se ci si scambiano delle informazioni e degli stimoli. Alla faccia di quello che pomposamente chiamiamo “sistema”, che fa di ogni artista un animale nella jungla in competizione con gli altri per guadagnare visibilità e quotazioni e tutto il resto. Suvvia, rilassiamoci. Pensiamo che forse vale la pena di sporcarci le mani con il mondo, senza essere gelosi di quello che abbiamo. Facciamoci anche del male se necessario, ma confrontiamoci.
Rido quando penso al sistema dell’arte del nostro paese. Mi sento leggero, non voglio dire le solite cose noiose che si possono – o si devono – dire sulla nostra Italietta. Le sapete tutte, funziona qui come in qualsiasi altro settore della vita pubblica che non sia la delinquenza (dove ad esempio si collabora ed esiste la meritocrazia). Questo invece è la solita bolgia in cui vi sono attori onesti, raramente protagonisti, comparse mediocri, ma soprattutto un mare di eterne promesse che non sfondano. Sì, l’eterna promessa, il giovane fino a cinquant’anni, statisticamente destinato a finire tra i rancorosi rovinati da ulcere perforanti. Mi ripeto, questo vuol dire fare l’artista nel Bel Paese (che forse intendano il formaggio della Galbani?).
Se si deve pensare a chi può darti un aiuto forse conviene dedicarsi ad altro. Pochi riescono davvero a darti possibilità, e tra questi pochi, oltre a qualche gallerista tosto, ci sono praticamente solo quelli che non ci devono guadagnare: i collettivi, le associazioni, gli spazi non profit. Ci sarebbe pure il settore pubblico, ma sono pochi i luoghi davvero all’altezza e con quattrini per fare qualcosa di diverso oltre a pagare la luce ed il gas. Non sto esagerando, è davvero così. Ma proprio perché è una merda vale la pena di fare qualcosa di nuovo. Non vale proprio la pena?
Ed è per questo che, quando nei mesi scorsi i ragazzi di Superfluo mi hanno raccontato del loro progetto strampalato di organizzare mostre negli spazi sfitti di Padova sviluppando progetti a più mani, non nascondo che mi sia venuto da ridere. Tentativo adolescenziale di ribaltare l’amara sorte di perdigiorno frustrato assegnata agli artisti di quello che qualcuno si ostina a chiamare paese. Questa la diagnosi al volo elaborata silenziosamente. Ed è stato un piacere sbagliarsi, vedere che il progetto inaugurale, il numero zero, è venuto alla luce, e che la cosa prosegue con della nuova carne al fuoco.
Tutto questo infatti, ha qualcosa di atavico e di contemporaneo. È per questo che mi sono venute in mente le parole di Agamben: il vero artista contemporaneo ha una prospettiva, ha alle spalle un terreno e vuole correre avanti per vedere cosa c’è di nuovo e che può solo intuire per la flebile luce; e senza farsi troppe domande, semplicemente fa cose che tanti dicono di fare, mentre sono in realtà impegnati ad inseguire i propri personali sogni di gloria. Tornare sui propri passi, contro quel sistema dell’arte non collaborativo e che sta per tirare le cuoia, mi pare davvero una boccata di aria fresca in questo Veneto stritolato dalla propria storia recente, dalla ricchezza che non è diventata nulla, dalla mediocrità politica, dalla crisi e da tutto quello che può venire in mente. È il tentativo di fare qualcosa di sinistra, nel senso più estensivo e culturale del termine. Andiamone fieri. Dopo tanto sushi ingurgitato per darsi un’aria internescional, finalmente un po’ di pane e salame tra amici che credono nell’arte.
[*] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, p.24.