Critical Collecting. Renato Alpegiani

Critical Collecting. Antologia 2016—2020
ArtVerona, Verona, ottobre 2022

In dialogo con Renato Alpegiani
a cura di Daniele Capra




Come è cominciata la tua avventura nel mondo dell’arte?
Quando ero alle scuole medie il mio insegnante di arte notò che avevo molto talento per il colore e la composizione, e spesso aveva insistito perché intraprendessi studi artistici, cosa che però non feci. Poi dall’Emilia, nel 1966, arrivai a Torino, che era allora una città operosa, operaia e in costante fermento. Ero giovane e in quel contesto ho avuto modo di vedere delle mostre con artisti incredibili, grazie a gallerie come La vela o La bussola. Iniziai inoltre a frequentare la Galleria di Arte Moderna e ricordo di come il piano dell’Ottocento mi fosse chiaro ed evidente, mentre quello superiore, mi turbava. Mentre infatti sentivo vicino lavori come le Compenetrazioni Iridescenti di Balla, le opere di Novelli, Twombly o Vedova mi mettevano totalmente in crisi. Quel non capire fu un punto d’inizio formidabile: mi misi a leggere e studiare, e cominciai a percorrere migliaia di chilometri per vedere mostre. Poi nel ‘77 comprai la mia prima opera.


Quale?
Un Fiato d’artista di Manzoni, dalla Galleria Marin, che essendo un lavoro molto concettuale e che precorreva i tempi, destava spesso commenti ironici agli amici cui lo mostravo. Scioccamente opo qualche tempo me ne pentii e lo scambiai con un disegno di Novelli: non ero forse ancora pronto a gestire quella complessità. Subito dopo però conobbi un’artista che radicalmente cambiò la mia vita, ma che a quei tempi non era più di tanto stimata, per la sua asprezza e per la sua aura maledetta…


Di chi si tratta?
Carol Rama. La sera a cena in cui la conobbi ero stato avvertito dai padroni di casa che era una persona molto diretta e suscettibile, mentre invece si dimostrò subito umanissima. Durante la cena finimmo a parlare di un artista che la padrona di casa definì “checca” poiché, per poter vivere, di notte si prostituiva. Carol sbottò istantaneamente battendo i pugni sul tavolo e facendo tintinnare piatti e bicchieri. “Sei un stronza”, disse, “come ti permetti di parlare? Tu che sei la moglie di un professionista e hai da mangiare tutti i giorni?”. Fui colpito da tutto questo e fine serata restammo a parlare. Fu l’inizio di una grande amicizia e di una frequentazione che andò avanti fino al 2010, quando ormai la sua mente stava dileguandosi…


E cosa ha rappresentato Carol Rama per te?
È stata una complice e un’amica. Viveva in condizioni economiche precarie e ho cercato di aiutarla, come hanno fatto svariati amici che la conoscevano. Ma era fiera di essere artista, e la sua spigolosità era quasi un’arma per difendersi dalla violenza del mondo. Per onestà ho sempre preso le opere dal suo gallerista, che riteneva povero come lei stessa.


Quanti pezzi hai?
In generali più di quattrocento, anche se per un decennio mi trattenni dal comprare, perché la mia attenzione era rivolta altrove. Ricominciai negli anni Novanta, ma con un altro criterio. Smisi infatti di collezionare opere che dovevano trovare un posto nella mia casa per scegliere invece ciò che trovavo significativo, senza alcun criterio di natura spaziale o dimensionale, e quindi anche lavori museali. Da qual momento se un’opera mi arriva e mi dà un pugno nello stomaco non guardo più se è di dieci centimetri o di 60 metri quadrati.


Perché senti la necessità di collezionare?
Carol Rama spesso diceva: “la pittura mi ha permesso di sentirmi meno infelice, meno povera, meno bruttina e anche meno ignorante. Dipingo per guarire”. Allo stesso modo l’arte mi ha permesso di superare i momenti problematici della mia vita, mi ha stimolato ad essere più forte, a resistere. Sono grato a questo mondo: senza l’arte, forse non ce l’avrei fatta. Anche se ora, devo essere sincero, comincio ad avvertire una certa distanza…


Perché? Cosa è cambiato?
Penso che ora tutto sia troppo veloce, troppo di corsa. Una volta lo spessore degli artisti si misurava dando loro tempo. Ora, invece, dopo un paio di stagioni o diventano costosi o vengono archiviati, con modalità che hanno a che fare più con la finanza che con l’arte. Penso poi che gallerie siano in un frullatore e poiché costrette a spendere troppo per stare sul mercato, per prendere parte alle fiere. Come coniugare tutto questo con la crescita di un artista, che tante volte è lenta e non lineare?


Ritengo che la galleria abbia subito un passaggio epocale, da dispositivo culturale, che eventualmente aveva delle ricadute economiche, ad azienda. Era inevitabile, quindi, una certa attenzione agli aspetti economici, e forse non è un cambiamento esclusivamente negativo. La galleria poi rimane il vero ascensore per gli artisti…
Rimane centrale ed è lì che si coglie l’evoluzione dell’artista. Dispiace invece che le mostre siano poco frequentate, anche dai collezionisti, mentre esse sono il modo più sincero per cogliere la ricerca e il valore di un artista, ma anche per partecipare personalmente ed emotivamente al suo percorso. Sto forse invecchiando, ma le opere riesco a capirle essenzialmente in galleria, più raramente alle fiere. Mentre le aste le trovo proprio svilenti…


C’è qualcosa del mondo dell’arte che invece trovi ancora significativo?
Ho cercato di aiutare svariati artisti, come ad esempio Maria Lai che conoscevo dagli anni ‘90, mettendola in relazione con la Galleria Isabella Bortolozzi. O più recentemente Lalla Lussu e Zaza Calzia, che ho contribuito a far lavorare rispettivamente con la Galleria Massimodeluca e Massimo Ligreggi. È importante per me dare sostegno agli artisti, metterli in contatto con altri collezionisti o con le gallerie con cui poter svolgere un lavoro, crescere. Mi piace, in questo mondo complicato e altamente conflittuale, fare da collante.