Driant Zeneli
The Dream Of Icarus Was To Make A Cloud

Trieste, Galleria Tommaseo
ottobre 2009 ― gennaio 2010

Il fascino discreto dell’utopia [1]
Daniele Capra




Come può l’arte parlare una lingua che narri di un’esperienza radicalmente diversa? Come può rappresentarne la differenza sostanziale? Come può l’arte stimolare immagini e bisogno di liberazione che raggiungono la dimensione più profonda dell’esistenza degli uomini? Come può veicolare questa esperienza non solo ad una precisa classe ma a tutti gli oppressi? [2]


Non so se vi sia ancora posto per l’utopia, nell’ultimo lembo del postmoderno in cui viviamo (ma andrebbe bene ugualmente definirlo post-ideologico, post-storico o post-qualcosa). Se volessimo estremizzare il secolo breve si è infatti concluso con il monito che ogni utopia politico-sociale è stata solo un palliativo che ha rinviato ad un data successiva gli stessi mali che si auspicava di curare. Sono cadute le dottrine che pretendevano di spiegare ed ordinare la società, e, passata la sbornie delle avanguardie dei primi decenni del secolo scorso, anche le utopie di cambiare il destino dell’arte e di condurla altrove – rincorse da molti degli artisti a partire dai tardi anni Sessanta – si sono dimostrate incapaci di sopportare il peso della realtà (si pensi ad esempio al fallito tentativo di sottrarsi alla logica del mercato). Potremmo dire cioè, con il crudo linguaggio mutuato dal marketing, che inesorabilmente le utopie si sono logorate come si logorano i prodotti di consumo, e che nel mercato delle idee il bene utopia ha sempre meno esercitato il proprio appeal essendo stato relegato in una piccola nicchia. Magari affascinante e di grande valore, ma pur sempre una nicchia lontana dalle abitudini e dalla vita della maggioranza.

A questo stato di stallo hanno contribuito da un lato i continui cambi di direzione dell’agire umano e dall’altro la velocità stessa con cui le situazioni si sono succedute: non solo cioè gli attori presenti si sono mossi senza un disegno preciso, ma lo hanno fatto con grande mobilità. Ecco perché la metafora della liquidità cara a Bauman calza efficacemente alla nostra contemporaneità: “una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudine e procedure” [3].

In questo frangente, caratterizzato da una disorganica e caotica mancanza di struttura, gli spazi per l’agire artistico si sono così via via adeguati a nuove e più intime esigenze, senza che per altro questo voglia significare un ripiego su istanze meno importanti o meno complesse. L’opera ha così assunto un ruolo più transitorio perché si definisce esclusivamente nei contorni della propria complessità, senza cioè il bisogno di aggrapparsi ad appigli dottrinali o di programmatica ortodossia di pensiero: semplicemente l’opera è, e il suo perimetro è di natura intrinsecamente sfumata.

Il confronto dialettico con l’utopia è uno dei temi più interessanti nella produzione di Driant Zeneli. Sia quando il giovane racconta i pezzi di storia del proprio paese – ma anche le ambizioni di ogni giovane artista che vuole lasciare il segno nella storia – attraverso il racconto della vita del proprio padre che era uno dei ritrattisti ufficiali di regime negli anni della dittatura albanese (When I grow up I want to be an Artist), che quando registra l’impossibile ricostruzione di un puzzle, costituito pezzi di color bianco e tutti uguali nella forma, da parte di alcuni studenti di un’Accademia di Belle Arti. In quest’ultimo caso l’utopia può essere quella, ormai sconfitta dalla realtà, dell’uguaglianza di tutti i cittadini nello stato (come è stato nei paesi in cui si è insediata la dittatura comunista). Ma risulta impossibile comporre un’immagine che sia solida facendo combaciare tessere identiche, tanto più se si ignora quale sia il disegno che di deve realizzare. Chi partecipa al gioco scopre infatti l’aporia che vi è celata, per la quale non vi è soluzione se non il completo abbandono dell’impresa.

Anche la recente All Art has been …temporary, mostra il limite oltre al quale l’utopia, talvolta casualmente, cede il passo alla realtà. Zeneli si trova a passare nei pressi della Gam di Torino quando la scritta luminosa di Maurizio Nannucci, installata sulla sommità dell’edificio, ha subito un guasto: tre lettere si sono spente e di sera si legge temporary anziché contemporary: il messaggio dell’opera muta in maniera rovinosa ed imprevedibile dalla sostenuta affermazione della propria forza alla fragile esposizione del proprio limite. L’utopia è ancora una volta disillusa dalla realtà, e sotto la Torre di Babele si raccolgono i calcinacci che dimostrano come fare i conti con il contingente sia necessità ineludibile.

Eppure c’è uno spazio concesso ai sogni, all’utopia, benché limitato nello spazio e nel tempo. E l’unica vera ambizione che l’arte può avere è quella di potercene regalare una porzione, anche se in forma di evento transitorio, effimero, che scompare con la stessa naturale semplicità con cui viene creato. Werner Herzog l’ha chiamata pomposamente La conquista dell’inutile, a voler testimoniare come tanto sforzo convogliato al perseguimento dei propri obiettivi abbia la controparte nella loro sostanziale vacuità. Conscio dell’impossibilità di realizzare opere che siano “monumenti più duraturi del bronzo” [4], Zeneli intuisce come sia fondamentale tracciare – per sé e per chi guarda – uno spazio di libertà entro cui creare pensiero, in modo di avere gli strumenti minimi per potersi affrancare da una condizione di smarrimento esistenziale in cui siamo indotti dall’appiattimento a dall’adattamento allo statu quo. All’oppressione del vuoto spinto che non trova forma, meglio quindi la liquida fragilità del possibile, come prova l’opera The Dream of Icarus was to make a Cloud.

Il video racconta quanto delicata, sottile ed impalpabile possa essere un’utopia. E anche quanto, a dispetto di ciò che si possa pensare, possa richiedere in termini di impegno, dedizione, volontà, coraggio. Un’azione – la creazione di una nuvola di piccole dimensioni che nella terra accade quotidianamente milioni di volte – che è quasi impossibile da realizzare senza sofisticate strumentazioni aeronautiche; ma Zeneli pensa sia fondamentale provarci, per condividere assieme allo spettatore  un sogno simile a quello che aveva Icaro. A bordo di un parapendio, l’artista realizza così un cirro che dura pochi secondi prima di dissolversi nel vento delle montagne. A quel punto il parapendio è già fuori campo e dell’autore, ma forse anche dell’utopia che ha voluto regalarci, non è rimasta più alcuna traccia.




[1] Il saggio riprende ironicamente il titolo del celebre film di Luis Buñuel Il fascino indiscreto della borghesia (1972).
[2] H. Marcuse, The Aesthetic Dimension. Toward a Critique of Marxist Aesthetics, Beacon Press, Boston, 1978, p. 40.
[3] Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, 2008, p. VII.
[4] “Exegi monumentum aere perennius”, Orazio, Odi, III, 30, 1.