Ulrich Egger
In/Finito
Udine, Galleria Plurima
ottobre ― dicembre 2009
Indagine a più dimensioni
Daniele Capra
È indubbiamente un esercizio di puro accademismo definire oggi cosa sia scultura e quali siano invece le discipline appartenenti alle arti visive che scelgono esclusivamente le due dimensioni, tanto più in un momento come il nostro caratterizzato dalla continua ibridazione formale e dal continuo sincretismo culturale e critico. D’altro canto, sin da metà del secolo scorso, pittura e fotografia accolgono nel loro interno istanze spaziali di ordine complesso, non riconducibili intrinsecamente alla propria storia; e la scultura sempre più ha la tendenza a dirigersi verso l’aspetto installativo-ambientale, quasi tra le braccia della cugina architettura. È sintomatico, in questa temperie di progressivo dissolvimento dei confini tassonomici, il conferimento del Leone d’Oro della Biennale di Venezia per la scultura (ancora nel 1990) a Bernd e Hilla Becher, fatto che ha inevitabilmente portato a maturazione una serie di considerazioni in ambito critico tali da mettere letteralmente a soqquadro ogni genere di definizione di arte plastica. Oggi così non solo siamo abituati a considerare scultura opere che lavorano con il suono – da Bruce Nauman in avanti –, ma parimenti è difficile non essere d’accordo con Matthew Barney quando parla di “sculptures” anche degli stessi supporti digitali (dei dvd) sui quali è stampata la copia di Cremaster 2. Quindi, volendo usare un affilatissimo rasoio di Ockham con cui eliminare ogni narcisismo intellettuale o classificatorio, potremmo dire che è scultura tutto quello che occupa dello spazio, o come tale è percepito.
Tante delle opere di Ulrich Egger nascono proprio da questa costante frizione tra occupare dello spazio e nel contempo essere lavoro da parete, quadro o fotografia: lavori quindi in cui l’aspetto fondamentale è occupare una superficie, benché i materiali adoperati dall’artista non siano solo quelli che siamo soliti riferire alla tradizione pittorica/fotografica. Si registra una tendenza al rimescolamento, non dissimile da quella riconosciuta nella pittura da parte di Barry Schwabsky nel saggio introduttivo a Vitamin P (Phaidon Press, Londra, 2002), e cioè “lo sviluppo della dimensione tattile delle cose, delle relazioni plastiche dei materiali che, grazie alla forza che questa relazione offre – nel continuo feedback tra materia e sensazione – è anche modalità per spingere indirettamente l’osservatore a prendere parte attiva”. Egger ricorre infatti programmaticamente all’uso combinato di fotografia e scultura, creando degli oggetti che hanno in sé elementi di carattere rappresentativo affiancati da vere, o verosimili, porzioni di realtà: così una foto di un terrazzo d’appartamento ospita al suo interno, al posto delle grondaie, un vero e proprio inserto metallico; oppure un’immagine di un palazzo con lavori in corso si trova ad essere realmente avvolta da del nylon da cantiere; o, ancora, i pannelli di protezione di un edificio fotografato sono nello stesso tipo di plexiglass impiegato a scopi edilizi. Sviluppati con un approccio progressivamente sempre più installativo, i suoi lavori (che potremmo definire una sorta di nature morte architettoniche, sia per il soggetto stesso che per l’atmosfera di abbandono di cui sono pervasi) mostrano pezzi di mondo ripuliti dall’enfasi e dalla retorica, in chiave sottilmente più interrogativa, sostenuti da un’indagine ed una volontà d’interrogazione spaziale e percettiva non comuni.
Con questo approccio non c’è differenza bensì contiguità tra il reale e la sua scenica riproposizione cui l’arte ci ha storicamente abituati. L’artista sembra infatti continuamente oscillare tra la consapevolezza delle potenzialità analitiche che la fotografia in sé possiede ed una destabilizzante lettura che persegue il raggiro dell’osservatore, in forma sostanzialmente ironica. La sua posizione è quella del saggio che, esercitando la maieutica socratica, mente sapendo che la verità è troppo poco attraente; al contrario la menzogna dichiarata e non furtiva (e dunque recepita come palesemente falsa) è in grado di portare l’ascoltatore all’esercizio del dubbio. Con questa modalità, beffarda ed acuta, il valore e la capacità di analizzare, predicare e spiegare il mondo – propria della fotografia come delle altre discipline – è messo in discussione esponendo senza falsi pudori la ferita nascosta dietro ogni mimesi.
La rappresentazione, ormai ridotta ad essere vestita di cenci lacerati, sembra andare ad elemosinare spiccioli alla realtà, sapendo che però ormai nemmeno quest’ultima è più la ricca signora di un tempo. In modo inevitabile Egger è conscio del compromesso che ogni copia deve inevitabilmente rassegnarsi a sottoscrivere con il modello primigenio, ma dichiara come tale accordo sia nella sostanza – anche ai giorni nostri – accettabile: non si trovano cioè nel suo lavoro accenti di carattere contestatario o distruttivo, ma piuttosto stimoli a scegliere modalità di rappresentazione non proterve e che conoscano i propri limiti intrinseci. La sua ricerca in ultima istanza (di)mostra l’intimo bisogno di autenticità che soggiace alla pratica artistica. Ben oltre il confine sfumato della finzione teatrale e scenografica in cui le opere rivelano tutta la propria languida fragilità.