La realtà delle nostre stesse vite

conversazione, pubblicata nel libro di Nico Covre Extra Ordinario Mixtape
Vulcano edizioni, Venezia, giugno 2021
ISBN 9788894634204

La realtà delle nostre stesse vite
Una conversazione sull’esperienza di Extra Ordinario

Daniele Capra, curatore indipendente
Carlo Di Raco, docente Accademia di Belle Arti di Venezia
Paolo Pretolani, artista Atelier F




Daniele Capra: Quando ci siamo incontrati nel luglio del 2020 non avrei mai pensato che in poche settimane saremmo riusciti a realizzare quello che è stato fatto con l’Atelier F e Vulcano nello spazio industriale Antares. Pesavano gli impedimenti individuali e collettivi vissuti durante la pandemia, ma anche l’annullamento totale delle aspettative da parte di ciascuno di noi, concentrati a resistere, a dribblare le difficoltà in una drammatica assenza di prospettive riguardo al futuro. Extra Ordinario nasceva, inoltre, come reazione all’evidente sordità dell’Accademia di Belle Arti di Venezia rispetto alle esigenze degli studenti, che per mesi non avevano avuto accesso ai laboratori, costretti a una didattica a distanza per lo più improvvisata. Mi sono anche meravigliato del fatto che gli studenti non abbiamo manifestato contro un’istituzione che negava loro il diritto a maturare. Serviva che gli artisti si riappropriassero di uno spazio per lavorare assieme.


Carlo Di Raco: Le accademie di belle arti devono la loro stessa esistenza alla vitalità della ricerca artistica condotta dai loro studenti, attuali e passati, e dal corpo insegnante. Si pensi per esempio a ciò che è successo con la Scuola di Lipsia, che da questo punto di vista è un paradigma che è stato sotto gli occhi di tutti. In generale ci si aspetterebbe quindi attenzione ai fenomeni più dinamici che vedono i giovani artisti come protagonisti, e non certo un’opposizione al loro agire, alla loro vitalità, al loro desiderio di ricerca, come abbiamo registrato allora.


Paolo Pretolani: Ho concluso gli studi diplomandomi nell’appello straordinario di luglio 2020, insieme a tanti altri giovani artisti. Nel momento in cui ci siamo trovati ad affrontare la questione del workshop estivo, da un lato eravamo in una situazione complessa che si era registrata anche negli anni precedenti rispetto al laboratorio che svolgevamo a Forte Marghera, dall’altro c’erano in più tutte le problematiche legate ai regolamenti per limitare la diffusione del covid. Quindi, anche se forse avrebbe avuto senso attivare un dibattito politico e polemico, ci siamo più che altro concentrati nel rendere possibile una soluzione alternativa, a trovare un modo per realizzare il progetto che ci stava più a cuore.


CDR: Forse va detto che oggi gli studenti, i giovani artisti, non avvertono la necessità di un impegno nel senso della prospettiva politica. Ce l’hanno magari rispetto ai contenuti, alla propria ricerca, ma non nel senso dell’agire pubblico, preferendo allora concentrarsi sullo sviluppo della parte espressiva individuale. In parte comprendo tale posizione, ma penso però che se si fosse registrato un tale sforzo forse non avremmo avvertito una così grande indifferenza e staticità da parte del mondo politico sui temi della formazione.


DC: In tale frangente risulta interessante notare come l’aiuto sia venuto da un soggetto privato, in questo caso Vulcano, che ha messo a disposizione non solo gli spazi fisici, ma anche molte delle sue risorse organizzative e operative. Mi pare che nel complesso sia stata per un’agenzia creativa un’ottima occasione per comunicare all’esterno il proprio immaginario, gli orizzonti di riferimento. È stata in qualche modo anche una prima verifica sulle potenzialità dell’Antares, spazio industriale degli anni Venti rispetto al quale Vulcano e le aziende del gruppo di cui è parte avevano fatto delle ipotesi di impiego come uffici, prima della pandemia. Progetti penso oramai tutti da riconsiderare.


CDR: Il privato è sempre stato un portatore di nuovi stimoli per l’Accademia di Belle Arti, e il workshop degli artisti dell’Atelier F presso l’Antares non è il primo episodio di collaborazione. Si sono registrate già nel passato iniziative con soggetti di peso, come ad esempio la Collezione Pinault. In quell’occasione Urs Fischer, non solo artista di fama ma anche di grande capacità nel cogliere il nostro tempo, in occasione della sua personale a Palazzo Grassi ha realizzato uno dei suoi interventi più belli insieme agli studenti. Un lavoro fianco a fianco, nel cortile dell’Accademia agli Incurabili.


PP: Nel caso di Extra Ordinario noi artisti dell’Atelier F abbiamo cercato di re-immaginare il nostro modo di lavorare, anche rispetto alle modalità operative degli anni scorsi con il workshop Laboratorio Aperto a Forte Marghera. Un aspetto è rimasto simile, il fatto cioè di poter lavorare sulla grande dimensione, cosa che in Accademia non si riesce a fare. Per il resto invece eravamo abituati a una sostanziale autogestione, a lavorare di giorno o di notte, a seconda delle disponibilità di tempo e dei vincoli di altri lavoretti che capita di fare per pagare l’affitto o comprarsi i materiali. Qui, al contrario, avevamo un interlocutore differente ed è stato necessario rispettare degli orari precisi, aspetto che ci ha fatto forse porre attenzione alla gestione del tempo, ad averne più consapevolezza.


DC: A cosa ti riferisci in particolare? Al fatto di avere un ritmo quotidiano scadenzato? Ho sempre avuto l’idea che gli artisti si prendano tutto il tempo necessario, anche quello per sbagliare, ma che considerino tale variabile come infinitamente abbondante.


PP: Penso che per qualcuno il doversi interrompere la sera sia stato un problema. Immagino però che a molti sia giovato avere delle scadenze, essere nella condizione di non avere “tutto” il tempo a disposizione, ma semplicemente “del” tempo. Mi viene in mente Federico Fellini, che diceva di non credere alla libertà assoluta degli artisti e raccontava che, se non avesse avuto le pressioni dei produttori per finire il film, sarebbe andato avanti a girare la stessa pellicola per tutta la vita. Qui non è proprio la stessa cosa, ma per un giovane artista sapere di essere messo alle strette può dare la carica e la concentrazione necessarie per non perdersi. Tanto più perché può capitare che prendersi troppo tempo porti a far marcire delle buone idee di partenza.


CDR: La nostra creatività si sviluppa in dialettica con il tempo e, talvolta, in competizione. Non dentro l’illusione di mancanza di limiti, come potrebbe sembrare. Tale fatto, dal punto di vista della didattica, è ancora più rilevante per dei giovani artisti che stanno crescendo, dato che, alla fine dei conti, il workshop è la concentrazione intensiva dell’attività di ricerca in un tempo dato. Penso che questo aspetto sia ancora più importante se si considera il contesto, la collaborazione con Vulcano, la percezione di avere un obbiettivo comune, in un tempo comune e in qualche modo armonizzato.


DC: Il tempo, i suoi limiti e le scadenze penso siano temi quotidiani di confronto anche in un’azienda come Vulcano, nella quale immagino tali aspetto vengano in qualche modo programmati o standardizzati. In generale i tempi sono tarati rispetto a una valutazione che deve essere anche di carattere economico, rispetto alla durata di un progetto. Valentino Girardi, fondatore di Vulcano, ha raccontato la sua sorpresa quando, alla domanda “quanto ti manca per finire l’opera?”, gli artisti rispondessero, il più delle volte, di non saperlo.


PP: La questione del limite è una questione aperta per un artista, non solo nel caso del tempo, ma anche dello spazio disponibile, del materiale e dell’immaginazione. C’è una logica che, come artista, si apprende crescendo e misurandosi continuamente con nuovi lavori. È una sorta di intelligenza, che si acquisisce fisiologicamente gestendo e negoziando il rapporto con l’opera. È esplorazione di tutte le possibilità insieme alla coscienza del limite.


DC: Penso che queste modalità di concepire il lavoro siano importanti per le aziende. Quell’intelligenza di cui parli, a mio avviso, potrebbe essere applicata anche nelle imprese. Per esempio l’esperienza di Extra Ordinario suggerisce come la pittura possa diventare un’occasione per ridiscutere le modalità con cui viene immaginato o svolto il lavoro dentro le aziende.


PP: Ho avvertito la sensazione che durante il workshop ci sia stato un grande interesse da parte di Vulcano per capire la cornice entro cui noi artisti dell’Atelier F usualmente ci muoviamo. Tanto più perché questa non era per gli artisti semplicemente una mostra, un evento codificato da realizzare, ma un vero luogo di trasformazione, relazione e produzione, con opere che apparivano, scomparivano o cambiavano via via nel mentre in cui venivano realizzate. Non penso sia facile entrare mentalmente in un luogo dove opera un branco di pittori impazziti!


DC: Suppongo che nell’enorme spazio dell’Antares molti dei visitatori, collaboratori di Vulcano compresi, siano stati spaesati dall’enorme quantità di stili, di approcci e di processi visivi. Chiunque penso sia rimasto colpito da quell’enorme mosaico di colori. Il padiglione era diventato una vera e propria cattedrale della pittura, in cui coesistevano tante ricerche e tante grammatiche.


PP: D’altro canto è proprio la sperimentazione il fattore chiave. Il workshop è essenzialmente una palestra per allenarsi. Una scuola…


DC: Anche se, a mio parere, l’Atelier F non è propriamente una scuola di pittura, almeno nel senso canonico della parola, cioè quella di un’affiliazione basata su questioni di stile o scelte espressive condivise. Non ho mai avuto l’impressione che la ricerca degli artisti fosse basata sulla comunanza linguistica, sull’identificazione di un modello cui ispirarsi, grazie a un insegnante. Ho riscontrato negli artisti l’adozione di modelli visivi diversi, ma anche l’impiego di processi differenti di costruzione dell’immagine, a parte forse una simile metodologia, costituita dalla presenza del disegno e di opere preparatorie, in una forma che ricorda quella del diario visivo.


PP: Io penso che nell’Atelier F si sia sempre partiti da ciò di cui ciascuno aveva più bisogno, dagli interessi personali di ognuno. Non mi pare che esista cioè un metodo prescrittivo del tipo “usa questo colore” o “dipingi solo su carta” e via dicendo. E questa cosa dei materiali si riflette molto bene anche negli aspetti espressivi più intimi e nella modalità operativa di condurre il lavoro.


DC: Durante una sua visita a Extra Ordinario il direttore dell’Accademia Riccardo Caldura ha evidenziato proprio il grande lavoro di ascolto nei confronti degli studenti svolto da parte del prof. Di Raco, in una costruzione didattica essenzialmente sartoriale…


CDR: L’obbiettivo è quello di valorizzare il percorso individuale, di fornire cioè una guida personale a costruire l’immagine, a comprendere e negoziare anche ciò che l’immagine stessa, in itinere, suggerisce all’artista, grazie al confronto con il mondo e con le altre immagini preesistenti. Si mira cioè a formare gli artisti stimolandoli a sperimentare gli esiti più differenti, in una pluralità di linguaggi e di poetiche. La didattica, in buona sostanza, coincide con la produzione artistica. E poi noi tutti, con il nostro sguardo, contribuiamo a dare verifica di questo processo. L’Atelier F è così una sorta di scuola essenzialmente per il metodo di lavoro, che valorizza l’insieme della produzione di tutti, come fosse un unico organismo che continuamente si rigenera.


PP: È un sistema che funziona grazie al lavoro di ciascuno. Non esistono modelli precostituiti o da apprendere, ma tante persone a fianco a te da cui poter imparare. Non quindi dall’alto, ma fianco a fianco. E questo permette di velocizzare la tua crescita, evitando di farti fare troppi sbagli o liberandoti in anticipo dei dubbi.


DC: Intendi dire che c’è una logica di esperienze tra i colleghi essenzialmente orizzontale, rispetto ai processi di apprendimento?


PP: In qualche modo sì. E va detto che non si impara da un altro per il fatto che una cosa ti viene spiega, ma perché la vedi messa in pratica nella sua opera. Se sei attento a seguire il lavoro degli altri, infatti, puoi trarre un vantaggio diretto nell’osservare come il lavoro viene condotto. Non vorrei sembrare esagerato, ma puoi imparare qualcosa non solo dalle strade giuste o sbagliate che percorri di persona, ma anche da quelle dei colleghi di atelier che vedi camminare a fianco a te. In questo modo si moltiplicano e si ampliano le possibilità di accrescere il proprio bagaglio di esperienze.


DC: Alcuni degli artisti hanno raccontato che le dinamiche serrate di un workshop come Extra Ordinario consentano di crescere, in poche settimane, quasi come in un anno di frequenza. La dinamica accelerata e intensiva del laboratorio mette gli artisti nella condizione di correre anche grazie alle gambe dei colleghi. E inoltre, in maniera continuativa, puoi anche chiedere un parere, rispetto al lavoro che stai facendo o alle incertezze che in quel momento puoi incontrare…


PP: La questione del confronto è però molto più complessa di quanto ci si possa immaginare, perché è un dialogo che si genera con tempistiche e modalità molto più ampie di quelle innescate semplicemente nel luogo di lavoro. Spesso è un dialogo che nasce anche grazie a Venezia. È una città rispetto alla quale, anche se ormai hai chiuso la porta dello studio, ti sei cambiato i pantaloni e non puzzi più di colore, difficilmente si riesce a non parlare del proprio lavoro. Anche in situazioni informali al bar o mentre ci si mangia una pastasciutta assieme. Non abbiamo mai la sensazione di uscire completamente dall’atelier, perché la dimensione del lavoro e quella della vita coincidono. Ma alla fine questo permette un continuo scambio di poetiche…


DC: Che è poi, in ultima istanza, il motivo per cui siete tutti lì insieme a discutere. Che cos’è la pittura? Come si struttura un’opera? Da quali stimoli nasce? Quali sono i linguaggi più consoni rispetto alla grammatica personale? In che modo essa interagisce con l’autore e con l’ambiente? Oppure quanto serve assecondare o contrapporsi alla sua forza, alle sue richieste e alla sua loquacità??


CDR: Sono questioni sulle quali non smettiamo mai di interrogarci. La pittura non è infatti semplice esecuzione di un progetto di cui si conoscono già gli esiti, quanto invece un processo in evoluzione, in gran parte ignoto al suo stesso autore. È solo in via sperimentale che la pittura si stratifica in un’opera non più soggetta a modificazioni. La condivisione tra artisti serve così a trovare in maniera più profonda la nostra sincerità.


DC: Mi è sembrato di capire che in questo processo di progressivo svelamento tanto l’artista maturo e riconosciuto nel sistema dell’arte, quanto il giovane appena entrato a fare parte dell’atelier, contano allo stesso modo. Perché godono della stessa libertà di parola o di critica, della stessa attenzione a essere ascoltati. E, inoltre, del medesimo peso specifico negli allestimenti finali di una mostra.


PP: Io però penso che, a tutti gli effetti, esista una “scuola veneziana”, attiva nel nostro sistema dell’arte, pur con tutte le sue atipicità e le sue contraddizioni rispetto all’essere una scuola. Anche l’allestimento finale delle opere in qualche modo lo testimonia. Quasi cento sensibilità differenti messe in dialogo attraverso un sistema visivo di relazioni pulito ma non scontato.


DC: Sono rimasto stupito dalla cura con cui l’allestimento è stato realizzato, lavorando per tre giorni fino a tarda notte. Più che un dispositivo finalizzato a mostrare le opere, orientato cioè all’esterno, ho avuto la percezione che avesse una finalità didattica, che fosse indirizzato all’interno. Tra l’altro mi sono meravigliato del fatto che abbiate costruito delle specie di muri, di setti laterali, assemblando quadri delle stesse dimensioni. Avete fatto dell’architettura “pittorica” dentro a un pezzo di architettura reale.


PP: Per noi era fondamentale collocare le opere rispetto alla leggibilità dello spazio, ricostruendo il percorso che le aveva generate lasciando visibili per i visitatori i pennelli, i supporti e i colori. Ma nel contempo l’allestimento serve agli artisti per dover fare delle scelte, per leggere ciò che è stato prodotto rispetto agli altri. E anche per poter cogliere nel proprio lavoro qualche conseguenza immediata o futura.


CDR: L’allestimento finale nasce anche dall’esigenza di valorizzare tutti i contributi dei giovani artisti. Ci consente di comprendere il fatto che alcune opere siano da mettere in dialogo, mentre di altre sia opportuno indagarne gli effetti in seguito. Scopriamo così nuove relazioni, e capita che prospettive nascoste o contrappunti invisibili vengano svelati, rivelati. Siamo felici che il lavoro documentativo e insieme artistico di Nico Covre, con cui abbiamo avvertito una forte empatia, sia andato proprio in questa direzione. Nel ricercare e mostrare differenze e assonanze.


DC: Penso che Covre si sia sentito libero di dare una lettura antiaccademica delle relazioni visive, mescolando immagini e immaginari. Non solo nel rapporto tra i dipinti e le carte dell’allestimento finale, ma anche topologicamente, rispetto alla loro collocazione nell’Antares, e temporalmente, rispetto invece alla narrazione delle vicende del workshop dell’Atelier F. Ma alla fine che cos’è l’Atelier F? Un gruppo di persone con le medesime esperienze? Un sodalizio, basato su una libera militanza, nato nel corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia? Un collettivo informale aperto alla contaminazione e ideologicamente consapevole?


CDR: L’Atelier F è una forma di vita artistica basata su una condivisione di modi e relazioni che vanno al di là del ruolo strettamente definito dalle strutture accademiche. C’è uno scambio che avviene costantemente. Non solo per la presenza delle opere realizzate, ma anche per quella degli artisti più esperti, con i quali si condividono contesti, ragionamenti, immaginari o esperienze che permettono a tutti di entrare più dentro al proprio lavoro. Questo è il frutto anche di uno sforzo comune, fatto da me insieme ai ragazzi per più di ventisette anni, finalizzato a realizzare un modello di apprendimento che non fosse condizionato dall’esterno, ma che prevedesse un ruolo attivo per i ragazzi. E questo è stato possibile anche grazie al contributo di miei colleghi come Martino Scavezzon, Aldo Grazzi, Miriam Pertegato, o di artisti dell’atelier come Nebojša Despotović, Jaša Mrevlje, Thomas Braida e Nemanja Cvijanović, i quali hanno assunto nel tempo un ruolo di riferimento, nel senso intellettuale, politico e poetico.


DC: Una sorta di spina dorsale che è, insieme, anche memoria collettiva dell’Atelier F…


CDR: In generale la presenza di un artista significativo, come pure di un’opera rilevante, ci spinge con più forza a confrontarci tra di noi, ad andare alla sostanza delle cose, evitando la superficie e i processi codificati. Ricordo ancora il discorso che fece qualche anno fa Despotović alla conclusione di uno dei workshop a Forte Marghera. In quell’occasione Nebojša disse che quello che veniva svolto dall’Atelier F non era un semplice esercizio espressivo, ma un’azione che aveva profondamente a che fare con la verità. Così intensa da incidere nella realtà delle nostre stesse vite.




Conversazione registrata a Venezia Marghera, 11 marzo 2021.
Trascrizione ed editing a cura di Daniele Capra.