Extra Ordinario
Un laboratorio di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia
Libro, Vulcano
ottobre 2024
Extra Ordinario. Un modello di didattica radicata e radicale
Daniele Capra
Un incontro casuale
Quando, nel luglio del 2020 alla Giudecca, mi capitò casualmente di incrociare il prof. Carlo Di Raco con alcuni dei suoi studenti di Pittura dell’Accademia di Belle Arti non avrei mai immaginato che quelle chiacchiere, scambiate di corsa lungo la fondamenta dell’isola, potessero generare degli eventi che hanno cambiato – professionalmente e umanamente – la mia vita e, quattro anni dopo, di trovarmi a scrivere di quell’incontro. Era quella una situazione particolare, con un eccitato clima di libertà dovuto alla fine delle restrizioni causate dalla prima ondata pandemica di covid. Da qualche settimana, inoltre, era decaduto l’obbligo della mascherina negli spazi aperti e, nonostante gli ammonimenti degli epidemiologi, le persone avevano ricominciato a frequentarsi e avere un’intensa vita sociale. Di Raco aveva organizzato con i suoi studenti un incontro a suo modo carbonaro poiché, a causa dell’emergenza sanitaria, tutte le attività didattiche si sarebbero dovute svolgere esclusivamente online. Quella trasgressione nasceva dalla necessità di vedere e scegliere insieme ai laureandi le opere da presentare all’appello straordinario delle tesi, posticipato, che, per la prima volta, venivano discusse per via telematica. Di Raco mi raccontò, contrariato, dell’impossibilità di leggere e valutare i dipinti attraverso le immagini sul display di un computer, venendo a mancare gli aspetti materiali concreti, come per esempio la dimensione, i gradi di lucentezza del colore, la materialità o l’impatto emotivo. A questo si sommava il rimpianto di non poter esporre dal vivo le opere finali dei laureati, cosa che non era mai capitata in precedenza.
Cercare uno spazio e trovarne due
Qualche giorno dopo venni chiamato da Nebojša Despotović, amico artista diplomato con Di Raco a Venezia e colonna dell’Atelier F, che mi chiedeva un aiuto per trovare un posto a Venezia per ospitare la mostra finale dei diplomati. Mi sentii subito coinvolto e iniziai a telefonare alle persone che conoscevo chiedendo la disponibilità gratuita per uno spazio per un paio di settimane. Facilitato dal fatto che la Biennale di Architettura fosse stata posticipata all’anno seguente, trovai rapidamente un paio di alternative in città. Inoltre si era resa disponibile la sede di Vulcano a Porto Marghera, presso la quale l’anno precedente, insieme a Nico Covre – allora direttore creativo dell’agenzia – avevo curato il progetto Fuori dal vaso, una residenza studio con quattro giovani artisti dell’Atelier F [1]. Facemmo con Despotović un primo sopralluogo ai diversi spazi, cui seguì una visita con Di Raco, l’artista Thomas Braida e Martino Scavezzon, docente presso l’Accademia di Belle Arti e uno dei principali animatori del laboratorio estivo. La sede più opportuna apparve subito quella messa a disposizione da Vulcano, che disponeva non solo dell’ampio ufficio attrezzato dov’era stato ospitato Fuori dal vaso, ma anche del Paglione Antares, un hangar di enormi dimensioni [2] totalmente vuoto. Mentre il primo spazio era adeguato per realizzare la mostra dei neolaureati, il secondo si presentava ideale per tenere il workshop estivo, proseguendo in questo modo il percorso del Laboratorio Aperto che si svolgeva a Forte Marghera da oltre un decennio. Inoltre Vulcano presentava un ulteriore vantaggio: l’azienda, sin dalla sua fondazione, aveva avuto l’arte contemporanea come tratto distintivo, supportando progetti come RAVE Residency, opere di artisti come Adrian Paci e Regina José Galindo, istituzioni come il PAC a Milano nonché prodotto il documentario Ossessione Vezzoli [3]. Dopo un breve confronto, decidemmo di partire pianificando la mostra come evento iniziale, cui sarebbe succeduto temporalmente il workshop. Quale titolo trovammo consono “Extra Ordinario” (come l’appello delle lauree saltato che si sarebbe dovuto tenere a marzo), che spiritosamente capovolgeva il sapore burocratico della formula in qualcosa d’inatteso [4].
Non si può comprimere l’incomprimibile
La mostra e il workshop nascevano in un frangente particolarmente difficile, sia dal punto vista umano che istituzionale, per l’insistere di due fattori concomitanti. Il primo era l’isolamento e l’assenza di uno spazio di lavoro per gli studenti e i giovani artisti, che avevano trascorso quasi quattro mesi chiusi in casa, spesso in appartamenti condivisi con poco spazio a disposizione. Il secondo era la scarsa sensibilità dell’allora direzione dell’Accademia di Belle Arti di Venezia nei confronti delle istanze degli studenti [5]. Si determinò così una vera e propria compressione delle possibilità espressive dei giovani artisti, fenomeno aggravato dal fatto che la pittura è una disciplina che è principalmente una pratica (dipingere è cioè un’attività che ha luogo in sostanza nell’esercizio, nel costante applicarsi dell’artista in un processo che è contemporaneamente mentale e materiale). Tale pressione determinò inevitabilmente una rottura, che l’esperienza di Extra Ordinario, in maniera all’epoca inconsapevole, stava contribuendo a emendare. D’altronde com’era possibile limitare le incontenibili esigenze espressive di giovani artisti per cui l’arte sono vita che scorre impetuosa come un fiume in piena?
Una cattedrale della pittura
La prima edizione del workshop [6] si sviluppò per una quarantina di giorni nel Padiglione Antares [7] con un trasporto emotivo e un’irruenza travolgenti. Antares è un lungo edificio situato a Porto Marghera, collocato di fianco alla strada e alla ferrovia che da Mestre conducono a Venezia, ed era stato acquisito qualche tempo prima da Arsenalia, il gruppo di aziende cui Vulcano fa parte. È un capannone della fine degli anni Venti che era stato restaurato e riconvertito a struttura polifunzionale nella prima metà degli anni Novanta, quando l’area industriale venne bonificata e riconvertita dal punto di vista urbano. L’hangar, caratterizzato da una struttura a capanna, è fortemente connotato dai pilastri in cemento armato e dal rivestimento in metallo. L’interno è scarno, con poca luce che proviene dal lucernario, ed è dominato da due strutture sospese di grandi dimensioni (servite nel passato da schermo per videoproiezioni) che incombono nello spazio come dei monoliti metafisici fuori contesto. Poiché gli spazi erano completamente vuoti, vennero portati tavoli e sedie, furono realizzati dei supporti in legno come postazioni per gli artisti, e vennero comprate luci, tele e listelli per i telai, cui gli artisti contribuirono personalmente attraverso acquisti collettivi. In breve tempo, lo spazio si riempì di artisti che disegnavano e dipingevano tutto il giorno, in un clima di concentrato silenzio interrotto ogni tanto dalla sega circolare, dal passaggio ad alta velocità di un autobus, di un camion o del lento convoglio di un treno merci. Un lavoro matto e disperatissimo, visceralmente necessario, alimentato dal vuoto dei mesi precedenti e dalla paura che l’autunno avrebbe portato a un’ulteriore chiusura dei luoghi di studio-lavoro e a probabili nuove limitazioni alla libertà di movimento. Antares divenne così, come efficacemente sintetizzato da Riccardo Caldura [8], “una cattedrale della pittura” [9].
L’Atelier F. Corpo e amnios
Fu quella la prima volta in cui entrai in contatto non tanto con singoli artisti che avevano frequentato i corsi dell’Atelier F, come già mi era capitato molte volte in passato, ma con lo stesso ‘corpo’ dell’Atelier F nella sua struttura e fisiologia sociale, con le sue differenti articolazioni, il suo sistema di relazioni sociali e di governo [10]. L’identità dell’Atelier F nasce e si modella all’interno del corso di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia tenuto da Carlo Di Raco con gli assistenti Martino Scavezzon e Miriam Pertegato, che successivamente diverranno docenti. Prende corpo negli anni e si trasforma progressivamente in un’entità che si affianca al corso ed è dotata di una spontanea anarchica autonomia, inparte generata anche dalla continuità nel tempo della docenza. Nel comunicato stampa di annuncio di Extra Ordinario la definizione che fu adottata era quella di “un collettivo informale di artisti che condividono prospettive e metodologie di ricerca, sulla base di un percorso espressivo che accomuna differenti generazioni”. Le parole vennero concordate dagli artisti con più esperienza insieme a Di Raco, Scavezzon e i curatori, rimuovendo per quell’occasione i riferimenti diretti ai corsi presso l’Accademia di Belle Arti [11]. La scelta della parola “collettivo” risulta di particolare interesse: non era un movimento o un gruppo, come quelli che, nella storia delle avanguardie del Novecento, hanno sempre indicato unioni tra autori nate dalla necessità di promuovere nuove poetiche e forme espressive (frequentemente attraverso la pubblicazione di un manifesto). Al contrario quella definizione esprimeva delle indicazioni di natura metodologica, poiché, come già osservavo, “viene, da un lato, evidenziato come fondamentale il confronto espressivo e, dall’altro, il fatto che esso avvenga attraverso artisti di differenti generazioni”. Il sodalizio viene a compiersi quindi, di conseguenza, attraverso una nomadica “contaminazione tra differenti personalità” [12], a cui partecipano non solo gli studenti dell’Accademia, ma anche ex studenti maturi già attivi nel panorama italiano e internazionale che lavorano fianco a fianco con i fioi [13] (sia negli atelier dell’Accademia che in occasione dei workshop). Come ha precisato Di Raco nella conversazione che correda Extra Ordinario Mixtape, l’Atelier F “è il frutto anche di uno sforzo comune […] finalizzato a realizzare un modello di apprendimento che non fosse condizionato dall’esterno, ma che prevedesse un ruolo attivo per i ragazzi” [14]. L’Atelier F è in buona sostanza un plasma nutriente, un liquido amniotico in cui crescono protetti gli artisti grazie al continuo scambio di esperienze, opinioni sulle opere, suggestioni e informazioni promosso da ogni partecipante, docente, artista o contributore esterno: ciascuno, in questo processo di scambio, alimenta il collettivo e da questo trae alimento, mosso da una costante forma di altruismo responsabile e profitto personale.
Il lavoro e la stasi del pittore
Pur avendo frequentato nella mia vita innumerevoli studi d’artista, non mi era mai capitato di vedere un pittore durante il suo lavoro quotidiano, nel dipanarsi del tempo e nel confronto con l’opera (in tutte le visite che avevo fino a quel momento condotto, l’artista era infatti sempre rimasto in dialogo con me). Al contrario nel Padiglione Antares – a partire dalla prima edizione del 2020, e poi anche in quelle che sono seguite – è stato invece possibile seguire passo dopo passo l’evoluzione di un lavoro nel farsi dell’opera, cioè nella sua naturale e fisiologica evoluzione verso il suo stato finale (ossia la forma conclusiva), mentre l’artista è intento a dipingere. La prima cosa a colpirmi fu quanto tempo venisse trascorso nella completa inazione di fronte l’opera, scrutando e scavando nel disegno, nel colore e nei segni che erano già presenti sulla superficie. Il fare pittura è infatti caratterizzato dall’alternanza di attività manuale e periodi trascorsi a osservare l’opera, a studiarla da punti di vista diversi, frontalmente o lateralmente, e talvolta anche impiegando uno specchio per ribaltare l’immagine. Tali momenti di sospensione paiono interpretabili, per un osservatore esterno, come una continua alternanza tra l’osservazione di ciò che si è realizzato precedentemente e lo studio per decidere come si reagirà, per esempio aggiungendo o modificando qualche elemento, oppure scegliendo di fermarsi perché il dipinto è autosussistente, non mancante cioè di niente. Per molti dei pittori dell’Atelier F [15] che che ho osservato al lavoro durante lo svolgimento di Extra Ordinario durante questi anni, il dipinto è dal punto di vista operativo il risultato di azioni fattive e di un tempo lungo di stasi, che ha essenzialmente una funzione contemplativa, auscultativa e interrogativa.
A chi spetta l’ultima parola
La modalità di lavoro più ricorrente degli artisti dell’Atelier F, potremmo dire l’ideologia operativa, è quella classica basata sul dialogo tra artista e opera, in una continua e concentrata interlocuzione [16] che procede per stratificazione con metodo additivo [17]. Si tratta un percorso articolato – spesso indipendente dal fatto di eseguire dei bozzetti preparatori o dei lavori esplorativi di piccole dimensioni, generalmente su carta – che non conduce necessariamente a un risultato visivo coerente con i presupposti iniziali. Tale modus operandi spesso non risponde a una logica progettuale strettamente lineare (premesse, elaborazione, esito conclusivo), essendo dotato di ampissimi gradi di libertà: possono infatti accadere improvvisi cambi di direzione, fratture, abbandoni o metamorfosi. Come ha efficacemente sintetizzato Di Raco, “la pittura non è infatti semplice esecuzione di un progetto di cui si conoscono già gli esiti, quanto invece un processo in evoluzione, in gran parte ignoto al suo stesso autore” [18]. È solo attraverso un continuo e profondo dialogo tra artista e opera che si arriva pertanto a fissare sulla superficie una ‘verità conclusiva’ dotata di qualche significativa efficacia. E questo processo presuppone non solo che in quel momento siano entrambi soggetti, ma anche che la relazione messa in atto risponda a una logica del tutto paritaria. Mentre dialoga con il dipinto l’artista non è quindi un esecutore, un’entità esterna e distaccata, ma un agente interno contemporaneamente attivo e reattivo. Mentre cambia l’opera, egli stesso, inevitabilmente, dall’opera risulterà cambiato, in un’azione maieutica reciproca. L’unica reale differenza che sussiste tra i due interlocutori è che all’artista spetta la decisione di porre fine alla conversazione, di smettere di replicare alle sollecitazioni altrui. In buona sostanza terminare un dipinto vuol dire evitare di aggiungere altre parole a quelle che già si sono spese in precedenza nel dialogo: avere cioè la consapevolezza che qualsiasi elemento o aggiunta ulteriore potrebbe sottrarre forza o significatività a quello che c’è già sulla tela.
Disporre del proprio tempo e della propria vita
La capacità dell’artista di relazionarsi con l’opera, di sincronizzarsi emotivamente con essa, richiede un’enorme sensibilità e concentrazione, cui si accede potendo disporre liberamente del proprio tempo. Arrivare nella profondità di una relazione con il dipinto richiede – secondo la metodologia didattica che ho visto mettere in pratica durante i mesi del workshop ad Antares – esercizio e una reiterata consuetudine introspettiva. Infatti, per essere in grado di prestare attenzione finanche ai più piccoli sussurri, l’artista deve avere coscienza di essere padrone del proprio tempo: deve ignorarne del tutto la corsa inesorabile, ma, contemporaneamente, saperne sfruttare la spinta, qualora si manifestasse la pressione per il suo esaurirsi. È un approccio bidirezionale, ma non per questo contraddittorio, che indica un approccio nei confronti dell’opera basato sulla responsabilità e sulla consapevolezza della sua assoluta centralità nella vita dell’artista. Durante lo svolgimento del workshop la parte più significativa del lavoro psicologico e didattico svolto da Di Raco e Scavezzon, in collaborazione con artisti più maturi che già hanno compiuto il percorso di studi, è finalizzata a innescare negli studenti una forte tensione, insieme intellettuale ed emotiva, che spinga a rendere la pittura stessa una ragione esistenziale. Dipingere, durante l’esperienza di Extra Ordinario, diventa infatti un’esperienza di vita totalizzante: per le ore dedicate alle attività, per la smisurata intensità e per la riduzione di tutto il resto quasi al silenzio [19]. Come ha sintetizzato icasticamente Paolo Pretolani, uno degli artisti dell’Atelier F, “la dimensione del lavoro e quella della vita coincidono” [20]. Tale profondità, rispetto alle diverse esperienze di cui ho avuto conoscenza nel panorama dell’insegnamento artistico, risultava Tale profondità, rispetto alle diverse esperienze di cui ho avuto conoscenza nel panorama dell’insegnamento artistico, risultava una preziosa eccezione. E fu sorprendente scoprirla durante l’esperienza di Extra Ordinario.
Come Giona nel ventre di Antares
La prima edizione del workshop si concludeva con un open day e una mostra [21], modalità che ripetemmo anche nelle edizioni successive. I tre giorni che precedettero l’apertura della mostra finale furono così impiegati per l’allestimento delle opere nel Padiglione Antares. Prima di Extra Ordinario avevo già allestito due mostre collettive di membri dell’Atelier F lavorando insieme agli stessi artisti, e il compito si era svolto, piuttosto curiosamente [22], in maniera simile a un’ordinata seduta psicanalitica a più voci. Ad Antares mi trovai invece immerso – coi fioi, i docenti e Nico Covre – in un clima febbrile di agitazione e follia che non avevo mai vissuto in simili situazioni: solo dopo capii che era in qualche modo naturale alla fine di un processo così intenso che coinvolgeva non solo la parte espressiva, ma la vita stessa di oltre un centinaio di persone. L’indole estrosa e singolare del prof. Di Raco, emersa con impeto proprio in quel frangente, contribuì inoltre ad aumentare il clima di eccitazione in modo inaspettato. Riuniti in piccoli gruppi si procedette collettivamente discutendo i dipinti realizzati da ciascuno, sotto la guida dei docenti: le opere, di differenti dimensioni, erano svariate centinaia. I primi dipinti a essere vagliati furono quelli di grande formato, realizzati durante il workshop adottando delle misure standard [23]: vennero selezionati, accoppiati e, grazie a dei supporti in legno, allestiti creando dei muri che permettevano di dividere ritmicamente lo spazio. Successivamente furono scelte le opere di media e piccola dimensione, che vennero invece collocate nello spazio con i materiali di lavoro (pennelli, colori, vasi, tubetti, libri, quaderni di disegni, vestiti, ecc.). Altri dipinti furono invece accatastati ai muri o disposti su tavolini o sul pavimento. Una delle pareti di fondo fu dedicata ai lavori su carta, collocati a quadreria. Disponendo di scarsi mezzi, le opere vennero illuminate in maniera fortuita con faretti montati su treppiedi autocostruiti e piccole luci da studio opportunamente collocate nello spazio. Entrando, il visitatore della mostra finale veniva colpito da una forte scarica di adrenalina, attirato dalle opere, dall’odore acre di trementina e diluente, dall’infinito campionario di immagini originato dal susseguirsi di figure, segni, disegni e oggetti che si srotolavano sotto gli occhi. La sensazione era quella di entrare, come Giona, nella pancia di una balena-atelier che pullulava di vita. E non rimaneva altra soluzione che farsi trascinare in questo universo facendosi guidare dalle proprie curiosità, con la serena consapevolezza che, anche per l’inguaribile osservatore bulimico, vedere tutto sarebbe stato sostanzialmente impossibile. E la modalità si è ripetuta, seppur con piccole differenze, anche negli anni successivi [24].
L’allestimento come palestra
Il primo allestimento del 2020 e, con maggiore chiarezza, quelli degli anni successivi, mi hanno permesso di capire come la scelta delle opere da esporre nella mostra finale del workshop non corrispondesse necessariamente alla pura significatività o intensità del singolo lavoro, per come poteva emergere comparativamente raffrontandolo con gli altri dello stesso autore. I docenti, infatti, spesso tendevano a evidenziare anche altri aspetti del dipinto da presentare alla mostra finale: l’impegno profuso nel realizzarlo; la forte analogia rispetto ai processi tecnici o ai temi iconografici affrontati da altri artisti; il fatto che quel particolare lavoro potesse indicare all’artista una nuova strada da percorrere; la valenza relazionale o di confronto generazionale, considerato che, dal punto di vista didattico, per gli studenti partecipare a una mostra insieme ad artisti affermati è un forte stimolo a cercare di superarsi. In buona sostanza nella scelta non veniva adottato un criterio di natura strettamente valutativa: l’allestimento viene inteso come una pratica “di cura della comunità e di terapia di gruppo, in cui tutti devono trovare un posto” [25], e quindi essere rappresentati, grazie a una forma egualitaria ed ecumenica di ‘attenzione’ nei confronti di ciascuno. Questo, in maniera forse inaspettata, non esclude che alcuni degli autori abbiano, in base al livello raggiunto, un posto di riguardo: non solo, quindi, cura nei confronti di tutti, ma anche meritocrazia rispetto al valore dei risultati raggiunti. Con queste modalità, ad Antares, l’allestimento ha assunto il ruolo di una ‘palestra’ didattico-formativa comunitaria messa a punto dai docenti. Che viene impiegato, essenzialmente, come un dispositivo relazionale grazie al quale “gli artisti vengono invitati a non farsi abbagliare dal proprio ego, ma a considerare la propria opera come parte di un percorso più ampio” [26] che comprende anche il destino e la cura degli altri, e la valutazione dei risultati raggiunti dai membri del gruppo. L’Atelier F non è, in fin dei conti, un sodalizio con la forma, pur anomala, di una micro-società?
Una didattica sartoriale
Sin dalla prima edizione del workshop Di Raco e Scavezzon sono state delle presenze quotidiane al Padiglione Antares. Giorno per giorno i docenti hanno portato avanti un confronto continuo con gli studenti, affiancati in questo dagli artisti più esperti, ma anche, timidamente, da Covre e da chi scrive. Il metodo seguito dai docenti dell’Atelier F è basato principalmente sul dialogo con ciascun artista, caratterizzato da un faccia a faccia franco e sincero di fronte all’opera, che possiamo riassumere in tre fasi principali. (A) Innanzitutto si discute su ciò che l’artista ha fatto nelle ultime settimane o negli ultimi giorni: si sviscera l’opera nella sua fisiologica identità, cioè negli elementi che ne costituiscono il contenuto espressivo dal punto di vista contenutistico, linguistico e tecnico; centrale in questo momento è cogliere il soggetto visivo e verificare se le soluzioni adottate sono coerenti ed efficienti rispetto alle proprie intenzioni, palesi o inconsce. (B) Poi si cerca di capire come reagire, considerato che,come già espresso, durante la sua realizzazione il dipinto è percepito come un ‘soggetto’ con cui interloquire. Vengono così vagliate le possibilità di rispondere, aggiungendo qualche elemento o adottando qualche soluzione tecnica differente; oppure di fermarsi, perché il quadro non si presenta più bisognoso di altro, poiché già fattualmente compiuto [27]. (C) Spesso, ma non sempre, viene valutata la sua coerenza con i dipinti realizzati in precedenza, cercando di capire se le intuizioni presenti nel quadro possano essere sviluppate in nuovi lavori (nella pratica dell’Atelier F si nota infatti che un lavoro conduce frequentemente a uno successivo, poiché l’opera è percepita come una pianta dotata di seme, la quale, inevitabilmente, ne genererà una ulteriore con cui condivide in parte il proprio patrimonio genetico). A, B e C sono fasi di un confronto che hanno forti legami tra di loro, ma talvolta possono sussistere indipendentemente. È un processo che richiede nei confronti dei giovani artisti una maniacale dedizione e una scrupolosa cura sartoriale. È inoltre significativo rilevare che questo approccio didattico, proprio per la sua estrema personalizzazione, non prevede alcuna indicazione sullo stile o sui contenuti. Al contrario di quanto accade con le scuole basate su un’idea carismatica di un maestro da seguire, cioè sull’adeguamento degli studenti a un modello ‘esemplare’, questa modalità non fornisce alcuna indicazione prescrittiva o di natura stilistica: l’Atelier F è cioè un’affiliazione basata non su questioni linguistiche, ma di natura essenzialmente metodologica [28]. E questo approccio didattico così attento alle differenze di ciascuna persona è – a mio personale avviso – una delle ragioni che spiega sia l’elevato livello espressivo raggiunto da tanti degli artisti che hanno frequentato i corsi dell’Atelier F, che il successo riscontrato nel panorama espositivo del nostro paese [29].
Un confronto sotto lo sguardo di Giano
Il dialogo tra artista e docente può prendere forma in un colloquio personale, a tu per tu nella postazione presso cui l’artista sta lavorando, oppure in una conversazione ampia che coinvolge più persone. Capita tutti i giorni, infatti, di vedere capannelli di giovani artisti girare per il laboratorio o discutere animosamente di fronte un’opera insieme a Di Raco e Scavezzon; e spesso sono stato coinvolto dai docenti a prendere parte a tali conversazioni e invitato a esporre in prima persona la mia posizione sul tema affrontato. Ho maturato nel tempo la convinzione che tale pratica collettiva sia centrale e ineludibile dal punto di vista formativo. La discussione ha una ricaduta significativa perché i giovani artisti possono apprendere non solo in forma diretta nel proprio percorso individuale, ma anche nel vedere e nel porsi in maniera critica di fronte a quello che succede agli altri, allargando lo sguardo agli accadimenti e ai processi che coinvolgono i colleghi di atelier, con i quali gli scambi orizzontali sono comunque continui [30]. Questa metodologia si rivolge così, allo stesso tempo, ai due elementi principali di ogni gruppo, che non sono altro che le facce della stessa medaglia: gli individui, ossia i singoli pittori [31] dell’Atelier F; e poi la comunità, cioè la forma collettiva in cui la maggior parte degli artisti condivide molto del proprio tempo e la maggior parte delle attività di natura espressiva (e non solo). Si tratta cioè di una didattica che opera con modalità simili a Giano bifronte, divinità sempre allertata a guardare contemporaneamente in più direzioni: gli ‘interventi sartoriali’ rivolti al singolo artista sarebbero vani se non vi fosse, allo stesso tempo, una ‘cura del gruppo’ e degli aspetti comunitari del sodalizio.
Una didattica che genera una scuola
La didattica basata sulla cura maniacale dei dettagli – originata sia dalle personalità davvero non ordinarie dei docenti [32], che dal valore di alcuni degli studenti che ne sono stati parte negli anni – è uno degli elementi che ha contribuito a definire quella che è emersa negli ultimi anni come una nuova scuola veneziana. Si tratta di un’entità caratterizzata da un forte centralità dell’agire collettivo, a cui i singoli artisti partecipano però con un approccio basato su un’anomala ‘competizione collaborativa’, che trova negli insegnanti un ruolo sia di mediazione, che accrescitivo di lievito. Come più volte espresso, è una scuola di natura metodologica su base essenzialmente didattica, “che ha nella condivisione di un percorso formativo e umano messa a punto da Di Raco e i suoi collaboratori il suo centro, e negli artisti più riconosciuti i propri vertici, i quali continuano ad alimentare di stimoli la scuola e ne accrescono, sia internamente che esternamente, il prestigio” [33]. Questa scuola trova la sua ragion d’essere nella radicata e radicale dedizione all’agire pittorico, in una poetica poietica: vivere, respirare, fare, mangiare e dormire pittura, ossessivamente e insieme agli altri. Questi sono gli elementi della koinè praticata dagli artisti che sono o sono stati parti dell’Atelier F. Ed è un imprinting che lascerà le sue tracce in maniera indelebile anche tra gli artisti che hanno vissuto questo sodalizio esclusivamente come parte della propria formazione accademica, o che decideranno di accantonare tale esperienza per raccogliere stimoli diversi. Di certo Extra Ordinario rimarrà un pezzo importante nel percorso formativo dei fioi. E non posso che auspicare, in maniera ambiziosa, che possa in futuro occupare anche qualche riga nei libri di storia dell’arte.
[1] La residenza Fuori dal vaso, curata da Nico Covre e chi scrive, ha visto Beatrice Gelmetti, Adelisa Selimbašić, Mattia Sinigaglia e Francesco Zanatta condurre la loro ricerca per due mesi (da ottobre a novembre 2019), nella sede principale di Vulcano, condividendo gli spazi di lavoro con i collaboratori dell’azienda.
[2] Il capannone misura oltre mille metri quadrati.
[3] Ossessione Vezzoli, regia di A. Galletta, 2016, Italia, 80’.
[4] Per rendere separati e intellegibili i due eventi, la mostra venne intitolata “Extra Ordinario Appello”, mentre il laboratorio “Extra Ordinario Workshop”.
[5] Rimasi meravigliato dallo scoprire che gli studenti non avessero minimamente manifestato in forma pubblica il loro malessere a fronte di un’istituzione che, in qualche modo, limitava il loro stesso diritto alla formazione. Di fronte alla mia sorpresa Paolo Pretolani, artista dell’Atelier F tra i diplomati del 2020, nella conversazione a corredo di Extra Ordinario Mixtape, ha replicato che gli studenti erano stati “più che altro concentrati nel rendere possibile una soluzione alternativa”. Cfr. D. Capra (a cura di), La realtà delle nostre stesse vite, in N. Covre, Extra Ordinario Mixtape, Vulcano, Venezia, 2021
[6] In quel momento particolare percepimmo il progetto come un evento irripetibile, e non avremmo mai immaginato che sarebbero seguite altre quattro edizioni di Extra Ordinario negli anni 2021-2024.
[7] Il workshop si tenne dal 7 settembre al 16 ottobre 2020.
[8] Caldura è docente di Fenomenologia delle Arti contemporanee presso l’Accademia di Venezia, diventato nell’autunno 2020 direttore dell’istituzione.
[9] La dichiarazione è stata rilasciata del documentario Extra Ordinario, regia di N. Covre, 2021, Italia, 37’.
[10] L’Atelier F è un sistema multicentrico in cui esiste una gerarchia non rigida che è essenzialmente frutto della stratificazione operativa. Vi sono due elementi cefalici con funzioni di direzione artistica, in linea forse con il loro personale temperamento: Carlo Di Raco, eccentrico nelle sue attività e con un indirizzo più politico- strategico, e Martino Scavezzon, caratterizzato da un approccio lineare-diretto e un ruolo più operativo. Essi sono affiancati dagli studenti più avanzati o dagli artisti più esperti che hanno già compiuto il percorso di studi. Questi ultimi tornano di tanto in tanto a dipingere insieme ai ragazzi più giovani, sia nelle aule dell’Accademia durante il corso dell’anno, che in occasione dei workshop, come il caso di Extra Ordinario.
[11] La necessità era quella di un profilo più autonomo possibile dal percorso accademico istituzionale. Il workshop veniva presentato essenzialmente come il prodotto delle interazioni dei singoli membri dell’Atelier F (molti dei quali studenti all’Accademia di Belle Arti) con i curatori negli spazi di Vulcano. Furono eliminati i riferimenti diretti all’istituzione veneziana e ai docenti per evitare sovrapposizioni di ordine didattico ed eventuali polemiche. Il progetto risultò così curato da Daniele Capra, Nico Covre, Nebojša Despotović e dell’Atelier F.
[12] D. Capra, Atelier F. Una nuova scuola di pittura veneziana, in A.G. Cassani (a cura di), Pittura “oggi”: da Emilio Vedova alle ultime tendenze, Annuario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, Laterza, Bari, 2022, p. 196.
[13] Fio e fia (“ragazzo” e “ragazza”), al plurale fioi e fie, è l’appellativo in dialetto veneziano con cui solitamente gli artisti dell’Atelier F si chiamano l’un l’altro.
[14] La realtà delle nostre stesse vite, cit.
[15] In realtà, in ogni edizione del workshop hanno partecipato anche studenti dell’Accademia e artisti (non più di cinque o sei ciascun anno) che non seguono, o hanno seguito, i corsi di pittura dell’Atelier F.
[16] Va sottolineato che tale aspetto presenta comunque delle criticità, poiché potrebbe comunque limitare o condizionare l’adozione di altre strategie espressive.
[17] Mi riferisco alla pratica di procedere nel dipinto aggiungendo gli elementi della composizione per successivi livelli, o coprendo quello che è stato realizzato in precedenza.
[18] In D. Capra (a cura di), La realtà delle nostre stesse vite, cit.
[19] Va segnalato che tale dedizione assoluta data alla pratica pittorica può portare a una sottovalutazione dell’importanza di altre componenti intellettuali, per esempio di natura letteraria, saggistica, cinematografica o musicale. Chi scrive pensa che la pittura non possa soggiacere all’imperativo “Non avrai altro dio al di fuori di me”, ma che sia una disciplina che trae il suo senso ultimo nel suo radicarsi nella complessità delle attività umane.
[20] Ibid.
[21] L’open day, programmato per il 17 ottobre, fu annullato perché il giorno prima furono registrati due contagi covid tra persone che avevano frequentato la struttura. Gli spazi furono sanificati e la mostra finale con le opere allestite nello spazio venne resa visitabile a piccoli gruppi, su prenotazione, dal 26 ottobre fino al 6 novembre 2020.
[22] In base alle mie personali esperienze sul campo è generalmente sconsigliato allestire una mostra collettiva insieme agli artisti. Il punto di vista interno alle opere, come pure la capacità di focalizzarsi analiticamente sulla valenza assoluta dei singoli lavori che molti artisti hanno, possono generare delle conflittualità non sempre prevedibili. A mio giudizio l’allestimento è invece una responsabilità intellettuale e una scelta espressiva che spetta pienamente al curatore, poiché attiene essenzialmente all’idea, ai requisiti dello spazio e alla struttura logico-narrativa della mostra.
[23] I quadri di grande dimensione realizzati durante il workshop misurano 300×400 cm, 200×300 cm, 200×200 cm, 200×150 cm. Il ricorrere delle medesime dimensioni è anche un modo per creare un ritmo regolare all’interno di uno spazio carico di stimoli fino quasi alla saturazione visiva.
[24] Gli allestimenti finali realizzati nelle cinque edizioni del progetto hanno previsto oltre duecento dipinti su tela e, in misura molto esigua, su tavola. Nelle prime tre edizioni le opere sono state affiancate da una selezione dei materiali impiegati come fonti visive (quali libri, riviste, volantini, stampe, foto, appunti, bozzetti, ecc.), dai colori e dagli strumenti impiegati durante il lavoro. Nel 2023 e nel 2024 l’allestimento è stato più minimale e sono stati presentati quasi esclusivamente dipinti. In tutti gli anni una delle grandi pareti frontali è stata invece dedicata a lavori su carta, sia disegni che di natura pittorica.
[25] D. Capra, Atelier F. Una nuova scuola di pittura veneziana, cit., p. 200.
[26] Ibid.
[27] Non necessariamente la compiutezza coincide con l’idea di ordine, equilibrio o estrema rifinitura del dipinto. Spesso, nelle situazioni cui ho assistito personalmente, la compiutezza di un’opera poteva infatti essere anche frutto della sua dismisura, follia o sostanziale incoerenza.
[28] Cfr. D. Capra, Atelier F. Una nuova scuola di pittura veneziana, cit., p. 197.
[29] Mi riferisco alle tante mostre cui ex studenti dell’Atelier F hanno preso parte nell’ultimo decennio, sia in gallerie che presso importanti istituzioni.
[30] Sul tema Paolo Pretolani ha spiegato che questo sistema “funziona grazie al lavoro di ciascuno. Non esistono modelli precostituiti o da apprendere, ma tante persone a fianco a te da cui poter imparare. Non quindi dall’alto, ma fianco a fianco. E questo permette di velocizzare la tua crescita, evitando di farti fare troppi sbagli o liberandoti in anticipo dei dubbi”, in D. Capra (a cura di), La realtà delle nostre stesse vite, cit.
[31] Gli studenti e gli artisti che costituiscono l’Atelier F sono per la quasi totalità dediti alla pittura, pratica che viene talvolta affiancata dalla scultura. Questa tendenza si riscontra anche tra gli artisti attivi che da studenti hanno frequentato l’Atelier F a partire dai tardi anni Novanta.
[32] Mi riferisco non solo alla smisurata dedizione nei confronti degli artisti, al tempo infinito dedicato all’insegnamento ben oltre i limiti accademici previsti, ma anche alle bizzarrie personali.
[33] D. Capra, Atelier F. Una nuova scuola di pittura veneziana, cit., pp. 200-201.