Fratelli Calgaro
Giuriamoci eterna infedeltà
Vittorio Veneto, Festival Comodamente
settembre 2011
Una questione di lana caprina
Daniele Capra
Quando si parla di Fratelli Calgaro è difficile venire subito alle cose importanti. Anche quando si parla di persona con Beppe – fondatore del sodalizio la cui dicitura ricorda molto il popolodellepartiteiva delle piccole città di provincia venete – ci si perde, un po’ gaddianamente, nei meandri e nei casi particolari. In effetti già la scelta del nome ci fa fare confusione, poichè sembra ispirata ad una versione aggiornata, industriale e post-postmoderna, di Libera nos a Malo: la Fratelli Calgaro, con molta probabilità, potrebbe essere infatti la Srl dell’idraulico di fiducia o l’azienda metalmeccanica che fa bulloni; una parte cioè antropologicamente curiosa, fuori dai canoni, e di per sé eccezionale, dell’universo-mondo produttivo del nord Italia. Ma non ci perdiamo coi nomi.
I lavori fotografici della Fratelli Calgaro sono di per sé un’eccezione. Non nel senso sensazionalistico del termine, piuttosto nel fatto che spesso i suoi progetti fanno dell’eccezione la norma. Non è concesso spazio cioè, nel suo modo di condurre lo shooting, a quello che si concorda in forma rigida, ma, al contrario, tutto nasce per autonoma (e sapientemente lasciata fluire) improvvisazione. La condizione di casualità non è quindi lasciata al margine, come involontario imprevisto, ma diventa il motore essenziale dell’interazione tra soggetto e fotografo. Si potrebbe dire che la Fratelli coglie ciò che è posto di fronte all’obbiettivo quando il mondo di tanto in tanto si concede qualche minuto di svago. Non c’è malizia, volontà di mostrare situazioni difficili e pruriginose o sconvenienti, ma è come se il costume lo indossasse il fotografo al posto del soggetto, per concedergli, in massima libertà, la rilassata calma per mettersi a nudo. Capita cioè, curiosamente e al contrario di quello che ci hanno sempre raccontato, che la persona vestita da pagliaccio sia quella con la macchina fotografica in mano.
Giuriamoci eterna infedeltà, progetto realizzato per Festival Comodamente, lo testimonia appieno. Già la scelta del titolo della serie fotografica, lapidario e beffardo, spiega quanta seriosa insensatezza possa nascondere ogni promessa, ogni volontà di irrigidire a per sempre un’azione che nella realtà è sempre e solo frutto di situazioni momentanee. Non c’è spazio per altre considerazioni morali o intellettualistiche, per masturbazioni mentali, sofismi da psicanalisi o riflessioni da Bar Sport. La condizione dell’infedele, del fedifrago, è l’unica che abbia senso di essere nella totalità del tempo, e solo su questa si possono intrecciare i fili della fedeltà. Il ragionamento ha la semplicità devastante dei socratici personaggi di Ruzante: senza ombre, come faccio a vedere la luce che c’è?
Ne è uscito un lavoro complesso, caratterizzato da immagini oniriche ed irriverenti, ma anche da tanta poesia e delicatezza. Il suo racconto in rigoroso bianco e nero (contrariamente ad una vita da fedele al colore: curiosa l’idea che un lavoro incentrato sulla fedeltà, tema del festival, lo abbia spinto ad abbandonare proprio questa sua fede) testimonia infatti modalità differenti e simultanee di essere fedeli/infedeli. Il lavoro spiega appieno la contraddittorietà del sentimenti e la complessità inestricabile di tutto ciò che appare, tanto più in un momento in cui, in tutto il mondo, si discute sempre e solo di ciò che fa notizia: i tradimenti, i cambi di rotta. Ed è per questo che la Fratelli Calgaro ha strampalatamente fatto parlare dell’ultima evenienza che interessa al pubblico, la ha resa cioè appetibile, desiderabile, sottraendola al grigiore burocratico della norma.
Un asino che guarda lo spettatore dichiara la propria non comune solitudine (sulla schiena reca la scritta I’m alone, quasi a blandirci), un vecchio che si guarda allo specchio scoprendosi babbo natale, una cubista colta nature e nella sua mise abituale, oppure una coppia di anziani che dopo tanti anni si baciano con trasporto e passione erotica non comuni, sono inviti che Fratelli Calgaro fa a riconsiderare l’idea del proprio sé e l’immagine sociale che abbiamo di noi. E vengono spontanee delle domande, le più semplici, quelle che farebbe anche un bambino. Perché il ciucchetto si sente solo? Chi lo ha abbandonato? Chi è davvero l’asino? L’animale che conosciamo oppure il Lucignolo che c’è dentro di noi?
Ma dove sta la vera fedeltà? Alla mutevolezza ineffabile rispetto ad un modello (come ad esempio quello di due gemelli, che la Fratelli ritrae vestiti allo stesso modo, differendo solo per il taglio di capelli) si contrappongono le statue di gesso che sembrano rompersi sotto lo sguardo dell’osservatore, nel loro essere identiche, in modo freddo, industriale ed inevitabilmente noioso. Alla sofisticata simpatia di un cagnolino a pelo corto si sostituisce la scena in cui lo si lava dal toelettatore dopo che qualche amico cattivo (o forse simpatico?) lo ha sporcato di nero, scrivendoci su. Le ciabatte di pelle sdrucita ci rappresentano così contemporaneamente nell’intimità e nell’attaccamento abitudinario, e il vecchio albero che abbiamo piantato in giardino racconta forse molto di più di un pezzo della nostra vita che noi stessi non sapremmo riassumere.
In bilico tra immagine giocosa e dissacrante, il lavoro della Fratelli Calgaro dimostra così i limiti filosofici (la ricchezza e la pochezza) nascoste dentro una parola, che noi siamo tanto pomposamente stolti da considerare un valore. Ma sono anche rappresentazioni fedeli delle due facce della stessa medaglia o, meglio, della stessa monetina di scarso valore, della quale non è mai possibile avere la certezza se uscirà testa o croce. Le immagini sono così un monito al facile giudizio, al pregiudizio, al vuoto della chiacchiera ma anche alla riflessione intellettualistica e moralista. E l’autore sembra dirci come una risata ― autoironica ma non autoassolutoria ― possa essere la nostra unica fonte di salvezza. In fin dei conti la fedeltà è una questione di lana caprina.