Giovanni Morbin
Campo di ricerca

Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia
dicembre 2023 — febbraio 2024

Andare verso multiple direzioni
Daniele Capra




Campo di ricerca raccoglie presso la Fondazione Bevilacqua La Masa una trentina di opere di Giovanni Morbin che illustrano la varietà e l’articolazione linguistica della sua ricerca. La sua pratica spazia dalla performance a opere di natura oggettuale e interseca gli ambiti più differenti dell’agire artistico, spesso mettendo in discussione le tassonomie che siamo soliti impiegare. Morbin dipinge senza essere un pittore, realizza opere tridimensionali senza essere uno scultore, è un body artist senza necessariamente utilizzare il proprio corpo, è un artista concettuale ma le sue opere sono originate dalla postura e dal comportamento. Il lavoro di Morbin è sfaccettato e fluido, ma non per questo aspetto privo della consistenza, di nodi o di impreviste diramazioni. Semplicemente le definizioni, nel suo caso, sono troppo strette.

Sin dagli anni della formazione il suo è un approccio libero, anticonformista e anarchico. Frequenta i corsi di Emilio Vedova all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma è l’unico studente che in atelier non dipinge. La pittura richiede tempo nell’esecuzione, rimuginamenti e rimestamenti, tempi di stasi, di attesa e di risposta: Morbin trova invece più consono indagare l’anatomia nelle forme non ordinarie e fare performance, impiegando come materia prima e come linguaggio il proprio corpo. Spesso realizza le proprie azioni collocandosi in spazi e momenti interstiziali delle lezioni e talvolta di lato o appena al di fuori dell’aula di Vedova. L’arte è per lui il manifestarsi di un evento in modo inatteso e surrettizio.

Sin dalle opere della giovinezza Morbin è nell’approccio espressivo un eretico, elemento che gli deriva tanto da una naturale bastiancontrarietudine, quanto da un radicalismo poetico che affonda le radici nelle avanguardie del Novecento. A quest’ultime spesso si ispira concettualmente e nel metodo, anche rispetto alle modalità con cui opera nell’agorà del nostro tempo. È il caso, per esempio, della consuetudine di presentare nuove serie di opere o nuovi sviluppi espressivi ricorrendo a dichiarazioni poetiche e a manifesti, in modo di rendere pubblici i propri intenti in una forma programmatica e coerente. Oppure dell’impiego della parola come elemento portatore – e perturbatore – di senso rispetto all’opera stessa o al suo titolo, aspetto che lo accomuna tanto alle avanguardie futuriste quanto a quelle letterarie del secondo dopoguerra. Similmente a tali avanguardie l’artista sente la sua differenza e la sua naturale divergenza rispetto al tempo che vive: avverte lo strappo, l’inorganicità rispetto alla società, il suo proprio non esserne completamente integrato.

Spesso i lavori e le performance di Morbin sono calati nel contesto quotidiano in maniera mimetica, tali da non sembrare realmente manifestazioni artistiche. Per l’artista l’opera non è un a parte dalla vita, ma è il palesamento di una svista: un incidente di percorso nel tessuto dell’esistenza, un risultato inatteso che si materializza tra le illimitate possibilità che possono accadere a un individuo. Infatti in molte delle sue opere il destinatario – il fruitore – non è conscio di avere un ruolo e di essere in qualche modo spettatore: tanto Morbin si infiltra nella vita dello spettatore quanto lo spettatore inavvertitamente si infila nell’opera dell’artista. Egli semplicemente usa le situazioni comuni per fare dell’opera un dispositivo d’interrogazione. L’opera si rivela così nella sua verità fragrante, che viene somministrata all’osservatore in maniera sottocutanea e assorbita inconsapevolmente.

Campo di ricerca testimonia inoltre la tendenza di Morbin a superare le definizioni di contenitore e contenuto rompendo il secco dualismo di tale relazione. Ciò accade al massimo grado con il suo corpo, la cui forma viene estesa oltre la propria fisicità impiegando il sangue come materiale (il contenitore non riesce a trattenere il contenuto). O nel fare con l’impronta del proprio viso delle forme di pane da distribuire liberamente ai passanti (il contenuto è un calco del contenitore). Ma tale propensione si può cogliere anche nell’allargamento dei limiti spaziali della mostra, in cui alcune opere sono presentate al di fuori della sede espositiva, come per esempio sulla facciata dell’edificio o presso il fruttivendolo sulla barca al Ponte dei Pugni (il contenuto è collocato sui bordi esterni del contenitore). O su una pagina de Il Gazzettino che risulta incomprensibilmente bianca (c’è il contenitore, ma non il contenuto). Il campo di ricerca è in definitiva per l’artista uno spazio relazionale aperto, pubblico e condiviso, come a Venezia sono i campi in cui le persone condividono il proprio tempo, le proprie parole, la propria vita.

Le opere

.ostra è un neon realizzato appositamente per la mostra che indica il nome dell’artista e che non funziona in maniera corretta. Collocato sulla facciata della sede espositiva presenta infatti una “M” volutamente tremolante che non si accende mai in maniera definitiva. Il cognome dell’artista diventa così “Orbin” (che nel dialetto locale significa “quasi cieco”), e indica tanto la sua personale condizione di artista che procede per successive sviste, quanto la percezione che può avere un ignaro passante, indotto a pensare che lo sfarfallio sia il frutto di un guasto casuale dell’insegna.

Body – ibridazione 2 è la documentazione di una performance mirata al superamento del proprio confine fisico, in cui Morbin espande e ibrida il proprio corpo con un soggetto esterno ed estraneo, quale un prato. L’artista coltiva dell’insalata concimando il terreno con il proprio sangue dandogli così la sua stessa forma, che sarà successivamente destinata a scomparire e a ibridarsi con l’erba.

Carta bianca (GMCB15N23) testimonia l’azione realizzata dall’artista un mese prima dell’inaugurazione della mostra Campo di ricerca acquistando una pagina de Il Gazzettino per lasciarla completamente bianca, eccetto un’anonima ed ermetica sigla in basso. È un modo per creare senso liberando lo spazio del giornale dall’affollamento informativo, ma è altresì la simulazione di una casualità che un lettore può percepire come un errore tipografico..

L’Ozione è per Morbin un gesto creativo che mira al superamento dell’obbligo dell’agire che caratterizza la nostra società. È il ribaltamento dell’idea di azione e produzione materiale, cui l’artista suggerisce come alternativa l’otium caro agli antichi romani, uno spazio di libertà e ricerca personale distante dagli affanni della vita di tutti i giorni. Tale serie di lavori è nata in un momento particolare per l’artista, il pensionamento dall’attività di docente all’Accademia di Belle Arti di Verona. Morbin racconta così la propria condizione in maniera paradossale come nuovo punto d’inizio. Ozionismo, manifesto orizzontale è la dichiarazione poetica di tali intenti, mentre Ozione 1 è la documentazione della prima performance realizzata in cui l’artista si gira i pollici per una decina di minuti in un contesto borghese di gusto dannunziano.

La serie dei Bianchi è costituita da dipinti atipici realizzati strappando porzioni di intonaco in differenti luoghi nel nostro Paese. Le opere sono state realizzate in diversi spazi espositivi (tra cui lo stesso Palazzetto Tito), nei quali l’artista, in collaborazione con un tecnico, ha utilizzato le medesime procedure impiegate nel restauro conservativo per trasferire l’affresco su un altro supporto. I Bianchi sono insieme campionamenti di superfici espositive e prelievi di contesto in uno specifico momento, delle fotografie non ordinarie che non si limitano a registrare gli effetti della luce, ma che invece sottraggono una sottile pellicola alle cose. Tali opere sono azioni che si contrappongono alla stasi contemplativa della pittura. E inoltre rappresentano, dal punto di vista concettuale, il capovolgimento dell’attività pittorica, che è classicamente un medium di natura additiva in cui l’artista guarda la superficie su cui sta lavorando e manifesta, attraverso il proprio linguaggio, una volontà espressiva diretta.

La quarta settimana è una performance nella quale Morbin distribuisce gratuitamente ai passanti delle forme di pane cotte in stampi che hanno la forma del suo viso. È un gesto pubblico di condivisione e solidarietà, e, allo stesso tempo, un’allusione alle difficoltà economiche di tante famiglie che sono in difficoltà ad arrivare a fine mese, come il titolo suggerisce.

Autoritratto è invece un inedito dipinto che mette in discussione l’idea stessa di ritratto, essendo basato non tanto sulla somiglianza fisiognomica con il soggetto (cioè con Morbin stesso), ma sull’impiego del suo sangue. Il tessuto ematico diventa così materia cromatica atipica in grado di garantire concettualmente l’identità con colui che è rappresentato. Non è così il gesto pittorico dell’artista a sancire la corrispondenza con il soggetto, ma la sua stessa materia costitutiva.

Materia cedevole al tatto è costituita da un diafanoscopio e da una radiografia che indicano la modificazione plastica del corpo dell’artista in seguito a un incidente. L’opera allude al cambiamento del corpo e della postura dovuto al trauma, ma anche alle ossa e alle articolazioni come materiale malleabile e capace di adeguarsi a pressioni e mutamenti violenti.

Manomissore è un volume in cemento osseo che rappresenta lo spazio vuoto tra le mani dell’artista a riposo. È un calco antropometrico che evidenzia l’interesse di Morbin nei confronti della postura e delle abitudini comportamentali e, allo stesso tempo, è un tentativo di accrescere il proprio corpo grazie al valore simbolico e concettuale del materiale impiegato. L’opera è stata infatti prodotta con il cemento che viene adoperato nelle sale operatorie per riparare le fratture, reso disponibile da una delle principali aziende che lo produce. Manomissore è così un ampliamento del corpo, una protesi ossea estensiva pronta a essere impiegata.

Idolo ed EU nascono da una riflessione sui processi di individuazione e creazione fittizia dell’identità collettiva e del “diverso” attraverso opere che fanno riferimento al periodo coloniale e agli stereotipi razziali, sociali e di genere. Idolo è un totem realizzato con cappelli da esploratore e una veste in cotone che ricorda ambiguamente, nelle sue forme, sia un corpo femminile giunonico che un feticcio dal sapore primitivo. L’opera allude all’idea di donna africana dalla femminilità dirompente, oggetto del desiderio di tanti uomini che, nel periodo coloniale, erano in cerca di avventure esotiche senza alcuno scrupolo.
EU è una scultura in plexiglas che raccoglie decine di fotografie scattate tra gli anni Venti e Sessanta di donne africane vestite secondo le consuetudini tribali (e spesso seminude). Tali immagini circolavano abitualmente nei Paesi europei come materiale erotico senza il minimo rispetto nei confronti dei soggetti ritratti, del tutto inconsapevoli. L’opera mostra così all’osservatore un lato della civiltà europea imbarazzante e in parte non ancora risolto.

Le opere della serie L’angolo del saluto nascono dall’idea di espandere concettualmente il volume del proprio corpo attraverso un gesto ginnico in cui viene alzato il braccio teso al di sopra della scapola. In questo modo viene a crearsi un’inconsapevole scultura modernista invisibile, un volume d’aria vuoto. L’artista cerca così di riappropriarsi di tale gesto nella sua esclusiva valenza corporea, depurandolo totalmente dal significato politico che ha avuto nel passato. Attraverso interventi di collage su fotografie vintage o minimali sculture di metallo (come in Goniometro) il saluto romano viene schernito, sminuito e ironicamente ricondotto a pratica posturale ordinaria e banale, la cui unica ragione è ambiguamente di natura geometrica.

…after Szeemann è costituito da un aspirapolvere che è stato impiegato nell’ex archivio del celebre curatore Harald Szeemann, situato nei dintorni di Locarno, per rimuovere la polvere che era rimasta nello spazio. Il lavoro allude all’ineluttabilità del destino cui tutti siamo accomunati, comprese le persone che hanno avuto la capacità di aprire nuove rotte nel proprio campo d’indagine, ma anche all’eredità materiale e immateriale di Szeemann. La prima è stata ceduta dai famigliari al Getty Research Institute a Los Angeles, mentre la seconda sembra quasi essere smarrita nel vuoto del sistema dell’arte odierno. L’opera è stata più volte scambiata dal pubblico e dagli addetti alle pulizie per un oggetto erroneamente dimenticato nello spazio espositivo.