Eloisa Gobbo
Safe Trip Home

Padova, Spazio Tindaci
febbraio ― marzo 2009

Unsafe Home Trip
Daniele Capra




Poi uno stupefacente, improvviso sopraggiungere del buio. E con il buio un vento gelido che spezzava il deserto. La benzedrina mi stava abbandonando. [1]


Non si può viaggiare stando fermi. Oppure forse sì: l’indolente Pessoa docet, e la letteratura tutta – se volessimo estremizzare in maniera nemmeno troppo balzana – potrebbe essere riassunta nell’unica funzione di farci muovere muovendo solo le palpebre. Muovere emotivamente, concettualmente, politicamente. Tutto il resto sono chiacchiere, il vero movimento del lettore è un falso stare fermo, così come l’appassionato d’arte tende ad essere cinetico di fronte l’opera solo con la vista, l’udito ed il pensiero. E allora perché fare un viaggio verso casa, come quello che dà il titolo a questa mostra?

È presto detto. Questo è un viaggio che non esiste. È un volo pindarico di un centimetro, un volo che Eloisa Gobbo inventa e gestisce con puntiglio rigoroso. Punto a capo. È un volo a cavallo di una scopa opportunamente preparata per condurci in una realtà altra, di invenzione pittorica, di cose non-vere e nemmeno verosimili: un mondo che, senza la spocchia dell’autoreferenzialità, tende ad essere autosufficiente, materia che autonoma sta al mondo. Il suo non è il Safe Trip Home che dà il titolo alla mostra (dopo molti anni l’artista espone di nuovo nella sua città), bensì un Home Trip, un non viaggio progettato nel suo studio con pennelli e colori acrilici. Inaspettatamente più ardito.
Sono molte le matrici cui potremmo ricondurre la sua pittura. C’è uno sviluppo di trame e reticoli che si sormontano a livelli e si ripetono serialmente, in modo ritmico. La reiterazioni di simili strutture, spesso con microdifferenze non visibili al primo sguardo, fanno rassomigliare le sue tele al trip hop anglosassone, a Tricky e i suoi viaggi di velluto tra campionatori e sequenzer, alla morbida allucinazione indotta da piacevoli sostanze psicotrope. Possiamo riconoscere l’uso di elementi figurativi ma anche il trattamento aniconico ed antinaturalistico del colore, talvolta in associazione più distesa, tal’altra manifestamente in acido contrasto.

Composti in maniera aggiuntiva, per sommatoria di elementi dalla più svariata provenienza iconografica, i suoi lavori su tela (ma discorso analogo si può fare nel caso dei tappeti) nascono dalla superesposizione visiva e dall’iperstimolazione retinica che caratterizzano l’epoca dell’immagine in cui viviamo. E se le immagini hanno ormai uno ruolo non dissimile da quello – svilente – di muzak, di comoda lounge music per consumatori voraci e annoyèes, è difficile cercare motivazioni univoche di questo continuo ricorso di elementi, che sono presi a prestito dal web, dal design, dalla grafica, dalla botanica, da motivi ornamentali della tradizione occidentale ed orientale.

La compresenza di elementi aniconici e figurativi nel lavoro di Eloisa ci spiega lo scarso valore della tassonomia con cui siamo soliti classificare la pittura tutta e ci autorizza a pensare che tale antinomia sia solo chiacchiere da bar per sbrigativi addetti ai lavori. D’altro canto “astratto o figurativo, come si evince nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, il motivo pittorico diventa oggetto di una rappresentazione filtrata da un occhio progressivamente analitico, che farà affermare a Leonardo da Vinci che la pittura è cosa mentale” [2]. Come obiettarlo?

Il suo lavoro, nella sua non celata leggerezza decorativa, è infatti impregnato di un seme nascosto: l’essere pittura da pittori, che nel pensier si finge, in cui la pratica è concreta e quasi tardiva manifestazione nella realtà di un universo di segni e rimandi che giace a priori nel bagaglio visionario dell’artista, e che trova nella realtà solo un supporto di lino da riempire dopo aver svuotato la propria bisaccia. E infatti il suo modo di procedere non tende, come ogni forma di rappresentazione postmoderna, “a rappresentare le cose del mondo bensì quello di rappresentare i modi e gli stili della rappresentazione” [3]. Il peso della technè non può essere annullato, né tanto meno l’artista è tentato di farlo: solo che lo spazio di ricerca, tanto più in un lavoro che non nasconde il proprio aspetto esornativo, diventa essenzialmente metalinguistico e i segni spesso risultano ad essere contemporaneamente simboli e stilemi.

Una delle più interessanti chiavi di lettura di un lavoro congegnato in questo modo va ricercata nella composizione pittorica come di un ipertesto contemporaneo, con vita, link ed immagini proprie, che si interfaccia al destinatario direttamente, senza mediazione, senza regole di fruizione, libero e casuale come la navigazione web. È così infatti che l’artista “si appropria del linguaggio e degli stili popolari, comuni, per renderli stranamente partecipi di problemi più alti e complessi, e così facendo finisce per provocare un cortocircuito negli schemi abituali della comunicazione per immagini” [4].

Fiori, draghi, serpenti, ma anche pesci, uccelli e conchiglie, popolano pertanto le sue composizioni dall’impatto retinico urticante, senza rappresentare sé stessi, se non invece l’insieme di collegamenti e finestre che si possono aprire nel nostro browser visivo-neuronale.
È frequente, nell’artista padovana, il ricorso alla scrittura all’interno della superficie visiva, per cui troviamo sovente dichiarato – nelle tele e nei tappeti – il titolo dell’opera. Le opere risultano così essere arricchite da scritte che si caratterizzano come sentenze aforistiche che fanno da contrappunto concettuale all’universo di segni e soggetti che vi abitano. In questo modo è più forte l’interazione dei temi (riconducibili alla triade amore/sesso/tempo), che talvolta prendono fuoco come polvere da sparo, soprattutto quando lambiscono punti caldi come la religione o la prostituzione, per loro intima natura provocanti ed urticanti, anche se “l’immagine è sempre sacra” [5] e distante, lontana, sulla parete. Ma, manco a dirlo, l’accendino è a portata di mano di ogni osservatore.




[1] Edward Bunker, Come una bestia feroce, Einuadi, 2001, p. 341.
[2] Achille Bonito Oliva, Gratis a bordo dell’arte, Skira, 2000, p. 18.
[3] Thomas Mc Evilley, The Exile’s Return. Toward a Redifinition of Painting for the Post-Modern Era, Cambridge University Press, 1993, p. 102.
[4] Maurizio Sciaccaluga, Leggere attentamente l’istruzione interna, catalogo della mostra, 2006.
[5] Scrive infatti Jean Luc Nancy in Tre saggi sull’immagine, Cronopio, 2007, p. 23, “l’immagine è sempre sacra […], e sacro significa separato, messo a distanza, appartato, ciò che di per sé resta lontano, intangibile”.