Paolo Grassino
Ciò che resta

Firenze, Eduardo Secci Contemporary
aprile ― maggio 2014

Visita allo studio. Quasi un racconto
Daniele Capra




Questo testo nasce dopo aver trascorso una giornata di visita allo studio di Paolo Grassino a Collegno, nelle vicinanze di Torino. Uno dei motivi che mi conduceva li era la realizzazione di un’intervista sul suo lavoro da pubblicare nel catalogo che avete tra le mani. A distanza di giorni – constatando l’impossibilità di interrogare Paolo, dato il tono confidenziale ed intimo, e la reale mancanza di distanza tra di noi – ho deciso di eludere il compito che mi ero prefissato, scegliendo di descrivere l’esperienza della visita parlando esclusivamente dei luoghi e con un tono narrativo. Ho scelto quindi di occuparmi della cornice, del semplice contesto, di ciò che è periferico, laterale alla pratica artistica e anche curatoriale. Talvolta, infatti, è lecito prestare lo sguardo a dove nessuno butta mai gli occhi.

In auto sulla tangenziale, il navigatore mi indica che tra un kilometro c’è il mio svincolo e conviene che mi allinei sulla destra. Da distante, sulla sinistra, il logo giallo-blu dell’Ikea; poi gli immancabili serpenti attorcigliati di asfalto che fanno si fanno groppo sulle rotonde. Ne passo una, poi un’altra, se non presto attenzione finisco nel piazzale di un supermercato. Il posto è abitato: ci sono dei condomìni, di quelli ben tenuti anche se l’intonaco ormai è da rifare, abitati da persone che usano stendere i panni bagnati al sole sul terrazzo. Perché qui siamo sul confine con la campagna e, nelle azioni di tutti i giorni, la città e il traffico con i suoi veleni appaiono più lontani di quanto non sia.

Mi accorgo che alla mia destra c’è un fiume, così almeno si intuisce dal doppio filare di alberi. Arrivo ad un semaforo, ormai sono vicino, il navigatore mi dà ancora due minuti di strada. Appena verde vado dritto per una strada che scende, mentre gli alberi mi fanno sempre più compagnia alla sinistra. All’improvviso l’asfalto si interrompe e comincia una strada di acciottolato, in cui vi sono due piccole corsie di pietra comodamente larghe quanto la careggiata di un auto. Scendo zigzagando, c’è una persona che risale a piedi radendo a filo il muro delle case e poi passa di tutta corsa un furgone di un corriere, in ansia per le consegne del mattino.

Passo sotto un piccolo ponte e la strada si fa più stretta, facendomi venire il dubbio che il percorso non sia quello giusto. E poi è pieno di buche, e non riesco a capire se sto andando verso uno spazio di campagna dove è lecito infrattarsi a scopare in macchina anche di giorno, oppure uno di quei luoghi in cui sindaci dalla sconfinata fantasia danno licenza di collocare aree artigianali o industriali a cazzo di cane. Spesso topologicamente i due aspetti coincidono, visto che tali zone brulicano di gente troppo operosa per occuparsi di guardare cosa fanno gli altri di mattina o pomeriggio.

Mi rendo conto invece di essere sulla strada giusta: vedo un grande edificio, posto trasversalmente alla strada, e poi, a qualche centinaio di metri, un altro blocco e poi uno ancora. È questo il posto che P. mi descriveva, esattamente così. Ecco è lui ad aspettarmi lungo la strada.

Parcheggio, radente il muro laterale di un fabbricato alto e lungo, di fronte a me una costruzione articolata, su cui sono incollate le tabelle delle differenti attività che qui si svolgono. Sono edifici che, a naso, sono stati costruiti tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra, in un contesto in cui – qui come in molte zone del neonato stato italiano – dovevano esserci acqua per le lavorazioni e l’energia, nonché manodopera a buon mercato disposta a lavorare a testa bassa pur di liberarsi della schiavitù della mezzadria.

Ora tutto è cambiato e questi luoghi vivono a pieno la post-industrializzazione, un ribaltamento totale delle attività produttive. Qui infatti lavorano artigiani, vi sono le officine in cui sono ospitate differenti lavorazioni, ma anche magazzini e studi di artisti o creativi. E poi ci sono gli alberi e si sente l’acqua della Dora Riparia trepidare, quando non passano i camion. Alzando la testa si scorge anche un castello, protetto dal verde, alto e distante da dove scorrono la vita e le automobili.

Salgo nell’auto di P. per scendere qualche centinaia di metri dopo, in uno spiazzo in cui le reti temporanee arancioni che delimitano le aree di lavori in corso sono li appoggiate su pali di ferro da troppi anni. Ci sono dei cani, due pittbull apparentemente più docili di quanto si possa immaginare, e poi, dopo aver aperto un lucchetto, si spalanca un portone di metallo dietro cui c’è un enorme magazzino. È pieno di cose differenti, imballate e disposte su di una lunga scaffalatura che occupa tutta la sinistra. A destra si aprono una serie di spazi più piccoli e P. racconta che condivide lo spazio con una fonderia con cui collabora.

Non riesco a seguire ed ordinare le informazioni che P. mi dice. Mi rendo conto che mi conviene capire all’incirca, senza fissarmi sui particolari o avere curiosità del cazzo, cosa che mi capita di frequente. Mi castro e sto zitto: questa è una di quelle situazioni in cui avere una mappa finita ed approssimativa è meglio di averne una dettagliata ed incompleta. Mi abbandono all’ascolto, cucendo brandelli, mettendo insieme dettagli visivi e parole.

P. maneggia dei pezzi di polistirolo. Le opere di P. si sviluppano a partire da sagome di questo materiale, avvolte successivamente da rivestimenti in tubo corrugato o altro materiale che permetta facilmente di essere impiegato come rivestimento. Ho la testa sul polistirolo, che mi sembra un materiale per molti aspetti antiretorico e che mi conduce diritto all’idea degli imballi, ai prodotti industriali, a qualcosa di transitorio che si usa in attesa di altro di più importante ivi contenuto. P. lo usa quasi sempre: lui è uno scultore che per istinto naturale si esprime modellando una forma per poi renderla compiuta realizzando un calco (cioè uno stampo, metodo utilizzato anche nel caso dell’uso del cemento), oppure rivestendola con dei materiali di superficie e colore stranianti (in maniera che il polistirolo sia l’anima dell’opera finale).

Ma continuo a guardarmi attorno: ci sono i pezzi di grande dimensione di un areo, un Mig-15 nero in scala reale, realizzati proprio con un’anima di migliaia di palline compresse. Quell’aereo è stato un unicum nel caso dell’aviazione e dell’industria aeronautica sovietica, non solo per il suo impiego con esiti alterni negli anni Cinquanta nella Guerra di Corea, ma soprattutto perché il caccia adottava soluzioni aeronautiche che sono state utilizzate successivamente fino agli anni Ottanta. L’opera, che qui mi è di fronte a pezzi avvolta con la pellicola di protezione, viene allestita verticalmente come nell’istante prima di sfracellarsi al suolo, ed è centrale nella poetica di P., poiché mostra l’ambivalenza politica ed ideologica di uno strumento di guerra realizzato da una nazione che, in quegli anni, era idealizzata e considerata in Occidente dai simpatizzanti marxisti come un modello da imitare.
E poi c’è un calco del primo modello di Punto, in alluminio e senza le zone forate dei finestrini, che mi è capitato di vedere spesso nelle immagini di opere di P.

C’è polvere e freddo in questo enorme spazio, e c’è pure una brillante luce invernale che entra dai cortili. E ci sono altri cani che mi guardano, dei setter, apparentemente meno reattivi di quelli nel cortile, essendo anch’essi di polistirolo rivestito. Fanno la guardia all’auto della Fiat, avvolti in pluriball contro l’inverno e lo sporco, aggirandosi sospettosi raspando tra le macerie e i pallet pronti ad ogni occorrenza.

Seguo P. ed esco da questo stabile – che è un deposito curioso che sfugge la macerata e conturbante malinconia dei siti che contengono oggetti in attesa di impiego, o banalmente di senso – per andare nel fabbricato adiacente. Al sole c’è caldo, molto meno nello spazio in cui siamo diretti. Saliamo le scale, lasciandoci dietro un portone. Arriviamo ad uno spazio pulito, pavimento chiaro e pareti bianche, in cui ci sono delle colonne di metallo che fanno datare la costruzione di inizio Novecento. Sembra una galleria del Marais qualche settimana prima dell’apertura in pompa magna, anche se si percepisce inavvertitamente un certo senso di abbandono.

È un luogo che P. lascerà nei prossimi mesi, e dentro non si vede il casino affollato che generalmente caratterizza lo studio degli artisti che praticano la scultura. Le tre dimensioni di un’opera, infatti, implicano una certa anarchia procedurale, che talvolta sfocia apertamente nel coacervo, dove trovano spazio anche tentativi, errori, sviluppi e pensieri laterali. Unicamente un teschio umano bianco enorme, il più classico memento mori che è modello iniziale per una fusione in alluminio, il metallo prediletto da P. anche per la sua intrinseca leggerezza. Poi scarti di fusioni di metallo ed un disegno alle pareti, solo a tal punto da sembrare dimenticato e che mi viene spontaneo fotografare con il telefono.

Mi illudo di aver capito tutto: questo è momento di vuoto tra una mostra che sarà ancora da inaugurare e un passo altrove, cambiando studio; ma non lo accenno a P., preferisco avere il dubbio o non saperlo mai. Mentre parliamo mi sembra che ci intendiamo perfettamente, sicurezza che non mi abbandona nemmeno quando siamo di fronte ad un bicchiere di rosso in attesa dei rispettivi piatti, in cima al paese, oltre il fiume.

Quando risalgo sulla mia auto, dopo un abbraccio, il sole si fa sentire più timidamente. Faccio la strada automaticamente, senza accendere il navigatore, arrivando a memoria alla tangenziale. Dopo qualche secondo sono costretto a fermarmi, bloccato in mezzo ad una lunga coda per incidente. Niente incazzatura, ho addosso uno strano senso di appagamento. Qui in mezzo ai camion e centinaia di macchine non ho nemmeno voglia di attivare il ricircolo d’aria. Anzi, penso proprio che aprirò il finestrino.